D’altra parte non mancano gli scritti di Panzacchi apparsi in “Lettere e Arti” di argomento nettamente letterario, come quelli dedicati a Federico De Roberto, Alfredo Oriani, Giuseppe Giusti, Arturo Graf, Giuseppe Cesare Abba e anche ad Alessandro Manzoni e a Giosuè Carducci. Sempre tra gli articoli di Panzacchi apparsi in “Lettere e Arti” è importante ricordare “Autocritica” del 15 marzo 1890 in cui, attraverso la pubblicazione di una lettera inviata alla rivista “Carro di Tespi” di Boutet, si diffonde la notizia della scrittura della commedia “A villa Giulia” da parte di Enrico Panzacchi.
La commedia è tratta dal racconto “Infedeltà” che evidentemente l’autore considera ricco di potenzialità, visto che nel 1884 già l’aveva pubblicato autonomamente presso Sommaruga al di fuori delle consuete raccolte di racconti; anche se nel volume, che da “Infedeltà” prende il titolo, compaiono pure i racconti Povero Guermanetto!, Al Lohengrin, Galatea, Ombra mesta. Dalle osservazioni formulate e dalle repliche rivolte al “Carro di Tespi” la commedia non aveva riscosso successo e presentava aspetti negativi, quali la scarsa attenzione nella stesura, nonostante le convinzioni fiduciose dell’autore che così si esprime al riguardo: “Alla commedia mia ho pensato lungamente, intensamente e a più riprese, mettendoci tutte le forze del mio buon volere. Convinto di avere alle mani un argomento buono ma insieme molto scabroso per la novità e la delicatezza della situazione, mi sono convinto ancora che bisognava trattarlo in forma rapidissima. Ogni indugio, ogni fioritura, ogni insistenza mi pareva, mi pare anche adesso che dovessero riuscirgli fatali. Per questo ho sfrondato e condensato a più non posso, facendo assegnamento sopra un pubblico attentissimo, che calcolasse le frasi, i gesti, le pause perfino… Nella ricerca accanita di questa condensazione, capisco di aver passato il segno, e vedo insieme d’avere domandato troppo alla attenzione del pubblico”. <379.
Panzacchi ancora aggiunge e così conclude la sua lettera a Boutet: “A questo ordito di commedia è naturale che si chieggia un po’ più di ripieno; ed io tenterò forse di soddisfare a questa giusta domanda. Ma non tutte le altre particolari domande della critica mi fanno effetto d’essere giuste a un modo. Ella, per esempio, caro Boutet, esprime la meraviglia e trova mal fatto che quel Carlo e quella Giulia, dopo essere stati amanti per lungo tempo si dividano senza parlarsi. Anche Lei vorrebbe la scena, la gran scena della separazione. Io invece (veda cecità d’autore novellino!) persisto a ritenere che la scena non ci debba essere. Quando leggo in un romanzo che due amanti si danno un appuntamento per concludere di separarsi, io mi metto sempre a ridere. Un uomo forse andrebbe all’appuntamento, la donna mai. La donna in questi casi evade sempre. Teme la propria debolezza se ama ancora; teme i rimproveri se non ama più. Nel caso della mia commedia, la donna trova il modo di mettere in mezzo la madre, per romperla, e se ne vale: se no, avrebbe ricorso a una lettera, a un viaggio, a qualche altro espediente insomma. Mai, mai, il colloquio! Questo almeno è il mio convincimento. La gran scena della separazione avrei potuto introdurla facilmente in due punti della commedia: e nei vecchi bagagli della mia retorica avrei forse trovato il modo d’ottenere un certo effetto scenico. Ma sarebbe stato contro verità; e in fatto di verità io credo che un artista abbia sempre il dovere di scegliere e mai il diritto di uscirne. Se ella poi mi obbiettasse che il teatro domanda, esige anzi certi sacrifici, io le risponderei che, in tal caso, preferirei di fare a meno del teatro… Potrei continuare a trattenerla, ma vedo che mi espongo al rischio di seccare Lei e i lettori del Carro. Quando si recitò qui in Roma la Badessa di Jouarre del Renan da me tradotta e ridotta, Ella scrisse di me con grande cortesia, che non ho scordata. Adesso, anche non piacendole la mia commedia, ha trovato modo di dirmi delle cose gentilissime. Ho creduto che soddisfare alla sua domanda, fosse per me, nel momento, il miglior modo di ringraziarla.
Suo
Enrico Panzacchi” <380.
Mentre nella parte iniziale di “Autocritica” lucidamente annotava: “E credo di non illudermi sul conto della mia commedia A villa Giulia. Vedo le qualità che le mancano e i difetti che ha. Richiesto più volte e da più parti del mio consenso a lasciar cavare un dramma dalla mia novella Infedeltà, mi decisi a tentare io la prova. Fatto il lavoro, lettolo all’Emanuel e avuto da lui il parere che la battaglia si poteva dare, ho dato la battaglia. Non ho afflitto nessun altro colla lettura del mio copione, non ho chiesto consigli a nessuno. Non ho nemmeno assistito alle prove, avendo dovuto in quei giorni allontanarmi da Roma, ove non tornai che il dì della recita. Sono andato insomma troppo alla lesta, in ciò che riguarda la presentazione ed esecuzione del lavoro. Ho sbagliato in questo e mi rendo in colpa. L’indomani della prima recita di A villa Giulia, un amico carissimo, che porta uno dei più bei nomi nella letteratura e nella drammatica italiana, mi ha scritto: – nel tuo lavoro il dramma c’è, e nuovo e potente; e tu l’hai trovato. Ma ci hai pensato poco nel comporlo. – Ebbene questa leggerezza, che equivarrebbe ad una mancanza di rispetto verso l’arte e verso il pubblico, io non l’ho commessa”. <381.
Altri argomenti degli articoli di “Lettere e Arti” sono costituiti da Alfredo Oriani, oggetto di un contributo in cui Panzacchi si augura che questo artista e pensatore, definito «singolare pubblicista romagnolo», continui a migliorare lo stile dei suoi scritti: «Se egli continuerà nel suo sforzo per equilibrarsi sempre meglio nello stile e se alle sue speculazioni darà un più sereno raccoglimento ideale, le aspettazioni destate dal suo ingegno non andranno perdute» <382.
Anche Giuseppe Cesare Abba è ricordato in uno scritto panzacchiano di “Lettere e Arti”. Di lui Panzacchi ricorda le potenzialità, che superano le opere realizzate, e i meriti non adeguatamente riconosciuti, definendolo «artista geniale e scrittore finito di tutte le qualità che può dare lo studio coscienzioso e la pratica perseverante» <383.
Lo scrittore bolognese, che apprezza da tempo Abba, ritiene che possa occupare «un posto nobilissimo tra gli autori italiani del nostro tempo»; inoltre afferma di ammirarlo e di rintracciare nel suo nome «sempre una forte e gentile evocazione di ricordi».
L’articolo panzacchiano si conclude ricordando il diffuso metodo critico fondato sulle contrapposizioni; e Giuseppe Cesare Abba è accostato a Edmondo De Amicis pur nelle diversità formali e contenutistiche delle opere dei due letterati.
D’altra parte nello scritto “Vincit amor”, pubblicato in “Lettere e Arti” il 19 luglio 1890, Panzacchi si esprime in merito al romanzo della seconda metà dell’Ottocento giudicandolo «ridotto ad essere sempre e unicamente un caso d’amore». Inoltre osserva che in tutte le manifestazioni dell’arte si riscontra il «predominio dell’erotismo» che in certi casi arriva quasi a una «precipitazione febbrile e intensa» <384.
Esempi di questi romanzi amorosi, secondo Panzacchi, sono costituiti dalle opere di Guy de Maupassant e di Matilde Serao, autrice del romanzo “Addio, amore!” (Napoli, Giannini, 1890) pubblicato in contemporanea al romanzo “Notre Coeur” (1890) di Maupassant.
Il romanzo “Addio, amore!” della Serao è ricordato anche nell’ambito dell’articolo “Libri e donne”, pubblicato in “Lettere e Arti” il 21 giugno 1890, in cui si analizza pure la raccolta di liriche di Annie Vivanti (Lirica, Milano, Treves, 1890), preceduta da una lusinghiera prefazione del Carducci ma giudicata sostanzialmente in modo negativo da Panzacchi, che individua in essa «povertà infantile di rime, monotonia di metro, strofe irregolari e mal connesse».
[NOTE]
379 Enrico Panzacchi, Autocritica, in “Lettere e Arti” del 15 marzo 1890, p. 138.
380 Ibidem.
381 Ibidem.
382 Enrico Panzacchi, Alfredo Oriani, in “Lettere e Arti” del 18 gennaio 1890.
383 Enrico Panzacchi, Uomini e soldati, in “Lettere e Arti” del 16 agosto 1890, p. 489.
384 Panzacchi si esprime circa la necessità della funzione moralizzatrice dell’arte partecipando anche a un dibattito, scatenato da una polemica suscitata da un volume di traduzioni di Heine ad opera di Giuseppe Chiarini, che determina una pubblicazione dal titolo Alla ricerca della verecondia, edita nel 1884 presso Sommaruga, con interventi di Giuseppe Chiarini, Enrico Nencioni ed Enrico Panzacchi (AA.VV., Alla ricerca della verecondia, Roma, Sommaruga, 1884). In quella sede lo scrittore bolognese condanna l’esistenza di una «lirica della libidine» caratterizzata da una «fantasia malata» e ritiene urgente il ritorno del «senso della misura», considerando la verecondia «un caso di coscienza o un modo del temperamento, due cose molto diverse dal senso e dal criterio artistico».
Caterina Bolondi, Enrico Panzacchi: analisi e aspetti culturali in racconti, saggi critici e periodici, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Parma, 2009