Adesso si sarebbero presi per mano, avrebbero camminato smarriti, bambini senza mamma

La sera che l’esse-esse arrestò la loro madre i ragazzi salirono a cenare a casa del comunista. Il comunista stava in un casolare a metà collina; ci si saliva per un sentiero tra gli olivi e i muri. La sera s’infittiva, grigia, quasi con fretta, come volesse cancellare tutto. I fratelli, andando, stavano attenti all’abbaiare dei cani nel fondovalle; poteva voler dire l’esse-esse che veniva a cercar loro, o la madre che tornava già libera, o il padre, o qualcunaltro che veniva a dire qualcosa, qualcosa che spiegasse. Ma i cani abbaiavano alla zuppa, i bambini nei casolari della vallata gridavano battendo i cucchiai sulle scodelle.
Il ritmo delle cose era cambiato, troppo lenti i sensi, troppo lesti i pensieri. Da un momento all’altro, cambiato. Scendevano dal bosco, il fratello maggiore e il comunista. Erano stati col fratello minore alla Rovere del Fariseo a portare dei medicinali per la banda del Giglio. Sotto la rovere c’erano ad aspettarli il Giglio e il Magro, con la pistola nascosta sotto il giubbetto. Il Giglio stava alle Rocche del Corvo, faceva i colpi per conto suo con pochi uomini, dipendeva ora da una banda ora dall’altra, ma sempre facendo i suoi comodi. Avevano parlato seduti sotto la rovere, del modo di guarirsi gli sfoghi alle gambe che vengono dormendo sulla paglia, e della necessità che i partigiani sbandati della zona si mettessero in regola con le formazioni, e smettessero di girare per i boschi come ladri. Poi s’erano fatti mostrare una tana buona e nascosta, dove potevano dormire cinque uomini. Tornando per il bosco avevano incontrato una ragazzotta che conduceva delle capre e il fratello minore ci s’era fermato insieme. Per tutto il bosco continuarono a sentirlo cantare assieme a lei, saltando per le rive dei pini con le capre.
Poi, alla Bicocca, tutti gli abitanti delle sette case fuori dalle porte. C’era anche Walter.
Disse, agitato: – Sapete niente d’in giù? Che c’è in giù? Del brutto. L’esse-esse ha arrestato tua madre. Tuo padre è sceso per vedere se la liberano.
Allora l’aria s’era fatta tesa e carica, come quando saliva la brigata nera e si sentiva rafficare tra gli olivi. Una folla di domande nei timpani, alla gola. Nella memoria apparivano e sparivano facce verdi di spie, come bolle che scoppiano. Il fratello che tornava tutto soddisfatto, cantando la canzone della pastorella, ad un tratto seppe la storia e smise.
Ora c’era questo fatto nuovo, e tutte le cose di prima erano cambiate, c’era dentro questo fatto nuovo mescolato in mezzo, la madre loro portata via dai tedeschi. E i fratelli erano come tornati bambini, ragazzi già grandi, con libri, con ragazze, con bombe, eppure tornati bambini, colpiti nella loro parte bambina, colpiti nella madre. Adesso si sarebbero presi per mano, avrebbero camminato smarriti, bambini senza mamma. Invece c’erano tante cose da fare: nascondere le bombe, le pistole, i caricatori, i fucili, i medicinali, gli stampati, nasconderli dentro il cavo degli olivi e dietro le pietre dei muri, ché i tedeschi non venissero a perquisire fin lassù, a cercar loro. E domandarsi di come e di quando e di perché, domandarsi a alta voce e nel pensiero, senza mai risolver niente.
Nella casa tra gli olivi dov’erano sfollati, la nonna novantenne semicieca era una grande domanda nera in attesa. C’era una lunga storia di guerre in lei, nella memoria spietatamente lucida: c’era Custoza, c’era Mentana, guerre con trombe, guerre con tamburi; ora bisognava spiegarle dell’esse-esse, della guerra che portava via le madri. Meglio abborracciare una storia di coprifuoco anticipato, di blocco messo dai tedeschi alla città, che aveva impedito alla figlia di tornare, fatto scendere suo genero a tenerle compagnia.
Ma la casa era un bosco di domande e i fratelli preferivano salire a cenare dal comunista. Quel giorno il comunista aveva macellato un vitello per la banda del Biondo e s’era cucinato le trippe: li aveva invitati a mangiare con lui. I fratelli salivano parlando di uccidere.
La casa del comunista era fatta di una sola bassa stanza; vista di fuori, alla notte, sembrava un mucchio di pietre. Poco discosto il vitello squartato era appeso a un olivo. Dentro c’era buio e non candele. I fratelli si sedettero alla tavola bassa, muti, su due ceppi di legno. La donna del comunista riempì loro i piatti di trippa condita e olive. I fratelli scucchiaiavano alla cieca nel cibo spesso. Vicino al soffitto ci fu un fruscìo, come un battere d’ali: nel buio di una nicchia i fratelli distinsero il falco del comunista, Langàn, preso sui monti in primavera, ricordo del grande accampamento di Langàn, favoloso nella memoria dei vecchi partigiani, della grande battaglia perduta nel luglio.
Il bambino, seduto sulle ginocchia della donna, prese a ridere al falco: era un bambino non loro, figlio d’un carabiniere scappato, che era stato affidato al comunista. Allora cominciarono a parlare, prima dell’opportunità di nascondere il vitello finché quelli del Biondo non fossero venuti a prenderselo, poi del perché, del percome, di chi aveva fatto la spia.
Il comunista era un uomo basso, con una grossa testa calva, che aveva girato il mondo e sapeva tutti i mestieri. Era uno che conosceva il male e il bene della vita, vedeva tutto andar male ma sapeva che un giorno andrebbe meglio, era un operaio che aveva letto dei libri, un comunista. Lavorava a giornata per le campagne, perché l’aria della città non era più buona per lui; e lavorava bene, s’intendeva di semine, d’ortaggi. Ma più gli piaceva starsene seduto sui muri a parlare delle cose che si perdono nel mondo, del caffè che si brucia nel Brasile, dello zucchero che si butta in mare a Cuba, delle scatole di carne che marciscono nei «docks» a Chicago. E ricordi suoi, di una vita impastata di miseria, d’emigrazioni, di carabinieri; ricordi di un uomo preso a botte dalla vita, di un uomo che si interessa a tutte le cose, al male e al bene del mondo, e ci ragiona sopra. Andando per i campi, il fratello maggiore con in mano qualche libro, nascondendosi nei torrenti se mai salisse la brigata nera, il minore sempre a cercar colpi da pistola, caricatori da mitra, lo incontravano che se ne veniva per i sentieri con quel bambino di carabiniere per mano, spiegandogli i nomi delle piante: un ometto calvo con un vestito nero tutto stropicciato. E allora cominciavano a fare dei discorsi: a discutere col maggiore di Lenin e di Gorki, col minore di calibri di pistola, di armi automatiche.
Ora intorno ai fratelli c’era un silenzio gonfio di sangue e rabbia, e le parole ci affondavano dentro. La donna sola poteva dare un po’ di calore in quel buio, e si provava a far coraggio; era una donna ancor giovane, un po’ sfiorita, di quelle donne con una dolcezza che non si distingue se di madre o di amante, come non esista in loro quel confine; era una compagna di comunista, una che ha capito perché si soffre, e va in città con rivoltelle nella sporta.
Finito di mangiare i fratelli e il comunista presero la via del bosco, con delle coperte sulle spalle, per andare a dormire in quella tana mostrata dal Giglio. Andando per le vigne sentirono un passo nel buio e il minore gridò: – Alto là! Ferma o sparo! – mentre gli altri gli tiravano pugni nella schiena per farlo star zitto. Ma era Walter che veniva a raggiungerli per dormire anche lui nella tana.
Il fratello minore e Walter erano gli inseparabili, sempre in giro per le campagne armati di pistola a seguir piste di fascisti, a fare i prepotenti con gli sfollati, i valorosi con le ragazze. Il fratello maggiore era un tipo più trasognato, come ospite d’un altro pianeta, forse nemmeno capace a armare una pistola. Era capace di spiegare cos’è la democrazia, il comunismo, sapeva storie di rivoluzioni, poesie contro i tiranni; cose anche utili a sapersi, ma che c’era tempo a imparare dopo, finita la guerra. E il fratello e Walter dopo un po’ che lo stavano a sentire ricominciavano a litigarsi per una fondina di pistola o per una ragazza.
Ma ora i due fratelli avevano una cosa in comune, qualcosa era cambiato in loro, l’interesse a quella vita che facevano, la posta in gioco, non più qualcosa fuori di loro, ma nel fondo di loro, nel sangue. La lotta, l’odio per i fascisti non erano più come prima, per il maggiore una cosa imparata sui libri, ritrovata come per caso nella vita, per il minore una bravata, un girare per le mulattiere carico di bombe a spaventare le ragazze, erano ormai la stessa cosa del sangue, una cosa profonda in loro come il senso della madre, una cosa decisa una volta per tutte, che li avrebbe accompagnati per la vita.
Era anche il freddo, quando scesero nella tana, che li fece accoccolare vicini, l’uno accanto all’altro. Avevano voglia di sonno, di un sonno pesante che li seppellisse, che cancellasse quel fantasticare che facevano, quell’immaginarsi gli alberghi dove i tedeschi tengono i prigionieri, con gli esse-esse che girano per i corridoi illuminati tutta la notte. Essi avrebbero portato da allora in poi quell’offesa nel fondo più bambino dell’anima, vendicandosi, continuando a vendicarsi anche quando madre e padre sarebbero tornati, offesi alle radici della vita, per tutta la vita. E la cosa che più faceva loro paura era il pensare a quando si sarebbero svegliati l’indomani, e tutt’a un tratto si sarebbero ricordati di cosa era successo.
L’indomani il fratello maggiore era seduto nei terreni gerbidi tra le campagne e il bosco, quando sul mare apparvero le navi e cominciarono a bombardare la città. Cominciavano sempre a quell’ora: prima si vedeva lo sparo come una scintilla sulla nave, dopo si sentiva il colpo in partenza, poi l’arrivo. Stava aspettando il fratello che non tornava, andato in giù per notizie; quelle sapute fin allora non erano rassicuranti; la madre trattenuta dai tedeschi come ostaggio, il padre colto da un attacco del suo male, ricoverato all’ospedale.
La città si stendeva sotto di lui sul mare, la sua città ora a lui proibita, con odore di morte per lui nel giro dei suoi viali. E nel cuore della città sua madre prigioniera. E colpi di cannone, come pugni, dal mare striato azzurro teso, come dal vuoto, contro la sua città, contro sua madre. Qualche polveriera doveva esser esplosa nella città: si sentiva un susseguirsi fitto di colpi che non venivano dal mare. Presto una nuvola si alzò sulle case, con punti neri che vorticavano in cima; gli scoppi riempivano le vallate. Se il fumo diradava, si distinguevano le case smantellate che andavano in rovina.
Allora il ragazzo pensò a se stesso, stracciato, braccato per i boschi, col padre all’ospedale, la madre prigioniera, con la sua città, la sua casa che gli rovinavano sotto gli occhi, con suo fratello che non tornava e forse era stato preso, eppure sentì di trovarsi quasi tranquillo, come nel giusto, nel normale, come se la vita fosse normale così come in quel momento era per lui.
Arrivò il fratello con un recipiente pieno di polenta e notizie migliori: il padre faceva il malato per non esser preso e voleva farsi piantonare all’ospedale perché lasciassero la madre; la madre era ostaggio e mandava a dire di stare attenti e non in pensiero per lei; in giù i mezzi d’assalto della decima-mas saltavano in aria e distruggevano mezzo paese. Con lui era salito il Giglio che s’entusiasmava vedendo il bombardamento, da quell’animaccia che era, e batteva il pugno sulla palma, gridando: Alé! Alé! Dacci dentro! Butta giù tutto! Casa mia per la prima! Tutti i fascisti morti! Tutti gli altri salvi! Qualche ferito! Dacci dentro! Casa mia per la prima!
Il giorno dopo andarono col comunista all’accampamento del Biondo, a portare la carne di vitello. Gli uomini erano armati fino ai denti, scendevano in città tutte le notti, a piantare sparatorie. Arrostirono un quarto di vitello allo spiedo e si misero a mangiarlo tutti insieme attorno al fuoco. Parlavano dei compagni uccisi e torturati, dei fascisti giustiziati e da giustiziare, dei tedeschi che si sarebbe potuto eliminare. “Però, – disse il fratello maggiore, – è meglio che i tedeschi non li tocchiamo. Ché fra gli ostaggi c’è mia madre ed è meglio non scherzare” -. Ma c’era qualcosa nelle parole da lui stesso dette che non lo persuadeva, come una rinuncia, come avesse abbandonata in quel momento sua madre a chi gliel’aveva presa. E si vergognò del silenzio che seguiva le sue parole.
Al ritorno, parlando col fratello disse: – Questa vita di ribelli di lusso non ho più testa a farla. O facciamo il partigiano o non lo facciamo. Uno di questi giorni sarà bene che pigliamo la via dei monti e saliamo con la brigata. Il fratello disse che ci aveva già pensato. Poi, tornando, si fermarono alle Rocche del Corvo, a fischiare al Giglio. E mentre lo aspettavano seduti sull’orlo del burrone, il comunista s’andava domandando di come s’erano formate le rocce, e i burroni, e le montagne, e di quanti anni aveva la terra. E tutti insieme discutevano degli strati delle rocce, delle ere della terra e di quando la guerra sarebbe finita.
Italo Calvino, La stessa cosa del sangue da “Ultimo viene il corvo”

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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