Alle Triennali si assegnava una missione eminentemente provocatoria

Fonte: Wikipedia

La presa di coscienza della creazione di una via originale alla modernità nella cultura del progetto italiano avvenne probabilmente tra 1925 e il 1927.
Contemporaneamente alla Seconda Biennale di Arti Decorative <13 allestita nella Villa Reale di Monza, venne realizzata a Parigi l’irripetuta Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes che consacrò lo stile Art Déco, ma presentò anche progetti più ambiziosi e destinati a un’evoluzione negli anni successivi, come il padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier. Se la Francia bandiva tutto ciò che riguardava tradizione e folklore, l’Italia, ancora legata al regionalismo, orientava il suo interesse verso l’oggetto di lusso, connotato dall’unicità artigianale e destinato ai gusti colti e ricercati dell’alta borghesia.
Il confronto indiretto tra le due esposizioni, avvenuto sui giornali d’arte, permise di comprendere come fosse necessario abbandonare il regionalismo anche in Italia in favore di una figura di artista-artigiano, che interpretasse le forme dell’arte europea del Novecento all’interno di un più stretto legame con l’industria.
Fu immediatamente chiaro il ruolo trainante dell’architettura nel rinnovamento in atto: mentre gli esperimenti futuristi di Depero, benché utili all’evoluzione del gusto, continuavano a restare relegati in un clima di diffidenza e i progetti del nascente Movimento Moderno non appagavano il desiderio di visibilità nella tradizione della borghesia, i giovani interpreti del gusto italiano – da Muzio a Lancia, a Ponti, agli artisti del Gruppo Novecento, raccolto nel salotto di Margherita Sarfatti fin dal 1922 – capirono che il cosiddetto carattere italiano era molto differente dal folklore e dalla tradizione monumentale umbertina. Si trattava non di regionalismo, ma dei caratteri immanenti all’architettura italiana riscontrabili nella storia delle città e degli edifici che potevano essere rappresentativi dell’anima di un intero paese.
L’esempio più interessante di questa progressione verso una matura autonomia formale per l’Italia è rappresentato dalla sezione piemontese della Terza Biennale (1927) nella quale gli artisti propongono la strada di un’ipotetica città moderna. Non è l’aspetto urbano che interessa ai membri della Società di Belle Arti Antonio Fontanesi – Casorati, Sartoris, Chessa, Sobrero, Deabate e Menzio – ma piuttosto l’allestimento interno che si fa interiore rispetto all’internità dell’esposizione, in un gioco di scatole cinesi in cui l’arredo suntuoso della piermariniana Villa Reale rappresenta l’esterno di una serie di scene di architettura novecentista. La sezione piemontese dimostra che «lo spirito della tradizione italiana architettonico-decorativa rinasce» <14 lontano dalle forme desunte dall’esperienza straniera e che «il tritume decorativo è morto e seppellito e che solo valgono linee e masse in ritmi semplici» <15. Come su un palcoscenico Bar, Macelleria, Farmacia, Fioreria, Centralino, Confetteria lasciano immaginare altrettante scene urbane, popolate dai visitatori che diventano attori inconsapevoli di un gioco di riflessi nel quale si mima una città possibile.
Più di cinquant’anni dopo nel 1980, la Strada Novissima, inaugurando a Venezia la Prima Biennale di Architettura, citerà quell’allestimento, puntando, però, maggiormente sul rapporto urbano tra le facciate, trasformando in intimo ciò che nel 1937 era solo interiore. Affidando agli architetti allora più famosi una porzione di spazio interno, per presentarsi dietro a una facciata con la quale si relazionavano reciprocamente, Paolo Portoghesi che di quella Biennale fu il direttore, lanciò un tacito e colto rimando dal Postmodern alla Metafisica degli anni Venti, grazie alla quale si era dimostrato che le scelte architettoniche, almeno per gli interni, erano lontane dai «moribondi strascichi di un vassallaggio ottocentesco» <16.
Sembra quasi che ciclicamente la città analoga assuma le forme che le erano proprie nel Rinascimento, diventando scena fissa delle azioni dell’uomo, dove «l’architettura è una immobilità in movimento» <17, perché uno spettacolo lo si gusta da fermi, mentre l’architettura (se è buona architettura) diventa spettacolo nel movimento del visitatore e l’architetto è regista di un paesaggio scenico continuamente mutevole.
Non appare più un caso o una colta diversione né che gli architetti più orientati a una visione lirica delle forme si occupassero anche di scenografie, come nel caso di Luciano Baldessari – a cui Ponti indubbiamente si riferì quando iniziò a lavorare sullo spazio scenico – né che pittori come Felice Casorati, Mario Sironi o Massimo Campigli approntassero il loro lavoro, su tela, muro o scena, con «un rigoroso processo di approssimazione ad uno spessore e ad una sodezza formale che allude o aspira a diventare sempre architettura» <18.
Un ritrovato gusto allestitivo che mischia la tradizione teatrale barocca italiana alle suggestioni apprese soprattutto dagli allestimenti tedeschi e svizzeri, di «una signorilità ed una raffinatezza di cui non conosciamo l’uguale» <19, inducono a comprendere non solo che l’architettura espositiva più che una cornice diventa una forma necessaria ad esaltare le caratteristiche estetiche dell’oggetto in mostra, ma che, secondo un paradosso proprio dell’effimero, «talvolta è proprio la coscienza dell’effimero – la consapevolezza da parte del creatore di non realizzare un’opera duratura – a permettere all’architetto di concepire delle strutture che mai avrebbe realizzato» <20.
Nel 1930, nell’ultima esposizione ospitata dalla Villa Reale di Monza, ormai non più Biennale ma Triennale in procinto di essere riconosciuta dal b.i.e. <21, vennero approntate pareti mobili, palchi, sovrastrutture che, modificando in maniera sostanziale i volumi interni, creavano nuovi ambienti e si ponevano come medium tra architettura ospitante (contenitore) e design/arte applicata ospitata (contenuto). Mostrare un oggetto o un’idea comportava la ridefinizione dello spazio al fine di farne la scena di un racconto visivo che esplicitasse all’osservatore ciò che altrimenti sarebbe rimasto indecifrabile.
Alle Triennali, definitivamente affrancate dalle modalità merceologiche delle Esposizioni Universali e da un’errata familiarità con le Biennali di Venezia, per cui avevano rappresentato inizialmente le sorelle minori, «si assegnò non già un compito documentario ma una missione eminentemente provocatoria» <22.
Non si trattava di approntare una vetrina dove si esponevano l’aspetto più innovativo o il volto più recente di arte e tecnica, bensì di andare oltre, individuando cosa questi due settori sarebbero divenuti nel futuro prossimo e che prodotti avrebbero partorito.
Questa caratteristica, secondo il critico Agnoldomenico Pica, rende le Triennali assolutamente antistoriche.
In particolare, tutte le Triennali degli anni Trenta sono volte a riaffermare il concetto di sintesi delle arti sulla scorta delle esperienze artistiche degli anni Venti, rifiutando la specializzazione che andava determinandosi con l’affermazione della produzione seriale. In questo senso appare significativa la Quinta Triennale del 1933, la prima allestita nel nuovo Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio ai margini del Parco Sempione. I membri del direttorio, Gio Ponti, Mario Sironi e Carlo Alberto Felice affidarono all’architettura il ruolo di collante per tutte le arti, decretandone la supremazia con la costruzione di quaranta edifici rappresentativi temporanei nel cuore del parco.
La Torre Littoria di Ponti, il Padiglione della Stampa di Baldessari, la Villa sul lago di Terragni e Lingeri, la Villa Studio per un artista di Figini e Pollini e molti altri padiglioni, oltre alle dodici mostre personali dedicate ai maestri del Movimento Moderno <23, dichiararono il ruolo portante della disciplina dello spazio nel concetto di mostrare di quegli anni. La dichiarata versatilità degli artisti promotori «risulta essere una visione complessa dell’architettura come disciplina fondamentale delle arti del visibile nella quale spazio e immagine risultano inseparabili» <24.
Da essa derivarono, infatti, come una sorta di mostra ininterrotta su scala nazionale, l’Esposizione dell’Aeronautica Italiana del 1934 a cui gli architetti accorsero «numerosi e più ferrati, estendendo il campo della loro attività, prendendo con sicurezza maggiore il timone delle industrie d’arte» <25, la Mostra dello Sport nel 1935 e la Mostra Universale della Stampa Cattolica nel 1936.
La Sesta Triennale, sempre nel 1936, riassume nel titolo, Continuità-Modernità, l’ininterrotta ricerca di legame con la tradizione continuamente presente negli allestimenti come propulsione verso la modernità futura.
Minimo ingombro, massima trasformabilità, docile mobilità: i caratteri tipici della scenografia e dell’allestimento espositivo diventano da questo momento una sorta di slogan che caratterizza la progettazione per l’abitare all’italiana.
Bisognerà aspettare il dopoguerra con l’impetuoso sviluppo dei beni di consumo degli anni Cinquanta perché la Triennale trovi una vera coincidenza tra i suoi obiettivi di divulgazione teorica della qualità e l’effettiva richiesta del pubblico.
Nel ruolo anticipatore che gli è proprio, la Triennale inaugura lo stile anni Cinquanta nel 1947, dopo il lungo silenzio bellico in cui solo la voce delle riviste sopravvisse. L’esposizione diretta da Piero Bottoni e dedicata alla ricostruzione di Milano dopo i bombardamenti del 1943, era tutta incentrata sulla realizzazione del quartiere QT8, inaugurando un nuovo percorso di ricerca legato alla pianificazione abitativa e all’edilizia sociale, oltre che all’impiego delle nuove tecnologie per il design. La sintesi delle arti, che era stato il tema trainante fin dal 1930, assume un’utilità didattica attraverso i due diorami predisposti nel Palazzo dell’Arte e nella Mostra dell’Abitazione: le strutture spettacolari legate alla cultura visiva ottocentesca vennero impiegate per far cogliere al meglio ai visitatori la costruzione dell’intero QT8 e le sue caratteristiche di irraggiamento solare.
Si conclude con questo riferimento alla tradizione, rielaborata più che semplicemente superata, la stagione più importante per lo sviluppo dell’architettura allestitiva e per l’evoluzione <26 della cultura italiana contemporanea: l’arte si è definitivamente innamorata dell’industria in un rapporto biunivoco in cui l’una è a servizio dell’altra.

Marcello Nizzoli, Stand Scialli Piatti, 1925. Monza, Seconda Esposizione Internazionale di Arti Decorative da Marangoni, G 1925, ‘Alla mostra di Monza. Dialoghi al fresco’, Fantasie d’Italia, a. I, no. 6, settembre, p.26. Immagine qui ripresa da ricerche d is/confine, n° 4 2018

[NOTE]
13 La Prima Biennale Internazionale delle Arti Decorative, organizzata dal Consorzio Milano-Monza-Umanitaria, venne inaugurata nel 1923 e mostrò un ordinamento regionale e un’impostazione ancora ottocentesca legata a episodi di folklore, più che di linguaggio artistico. Unica diversione fu la sala dedicata al Futurismo di Fortunato Depero, come rappresentante di seconda generazione dell’avanguardia marinettiana anteguerra che era già un piccolo segno dell’innovazione italiana sorgente dalla tradizione. La Prima Biennale si pose nel panorama europeo delle mostre d’arte come tarda filiazione dell’Esposizione torinese del 1902 e contemporaneamente come anticipazione della grande mostra parigina che fu
inaugurata due anni dopo.
14 Papini G., cit., 1927, p. 15.
15 Ivi, p. 16.
16 Ivi, p. 15.
17 Ponti G., cit., 1957, p. 125
18 De Seta C., La cultura architettonica in Italia fra le due guerre, Laterza, Bari, 1972, cit. in De Seta C., Luciano Baldessari: scenografia e architettura tra futurismo ed espressionismo, in Controspazio n. 2-3, cit., 1978, p. 32).
19 Papini G., cit., 1927, p. 72.
20 Dorfles G. , L’effimero nell’architettura, in “L’Arca” n.18, luglio-agosto 1988, p. 6.
21 Il Bureau International des Expositions è l’organizzazione internazionale che gestisce gli Expo. Venne creato in Francia nel 1928 al fine di regolamentare e monitorare la qualità delle esposizioni internazionali definendone la frequenza, i contenuti e valutando le candidature dei vari stati.
22 A. Pica, cit., 1957, p. 8
23 Ad esclusione di Sant’Elia, scomparso durante la prima guerra mondiale (1916), le singole mostre personali vennero curate direttamente da Le Corbusier, Adolf Loos, Erich Mendelsohn, Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius, Willem
Marinus Dudok, Joseph Hoffmann, Frank Lloyd Wright, André Luçart, Kostantin Mel’nikov, Auguste Perret.
24 Fagone V., Baldessari. Progetti e scenografie, Electa, Milano, 1982, p. 8.
25 Papini G., cit., 1927, p. 16.
26 Sembra pertinente riportare qui le considerazioni che Giovanni Papini fece sulle pagine di Emporium in merito alla differenza di metodo progettuale tra gli italiani e gli stranieri, nel caso particolare i tedeschi: «Per i tedeschi il nuovo è risultante d’una rivoluzione, per noi d’una evoluzione […]. Noi italiani abbiamo appreso dai nostri antichi a cercare il nuovo attraverso l’ispirazione di ciò che han fatto le generazioni precedenti ed a raggiungerlo senza soluzione di continuità […]. Rinnovare non è per noi inventare astrattamente il nuovo ma giungere attraverso un’elaborazione di ciò che ci ha preceduto, accettando dell’epoca nostra ogni innovazione della necessità, del sentimento, del ritmo e quindi del gusto» (Papini G., cit., 1927, pp. 70-86).
Silvia Cattiodoro, Gio Ponti dalla scena al grattacielo. Un unico modo, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Palermo, 2012

Nello stesso 1936 Regina realizza costumi per il Teatro Arcimboldi, e in qualità di lavoratrice dello spettacolo viene invitata ad esporre in diverse rassegne di scenotecnica, alle quali però partecipa presentando lavori di diversa tipologia.
Tra la fine di maggio e la fine di ottobre, innanzitutto, Regina è presente alla VI Triennale di Milano, nella quale espone cinque opere alla Mostra internazionale di scenotecnica teatrale allestita da Enrico Prampolini <243. Nella rapidissima presentazione generale della sezione italiana <244, i commissari ordinatori Enzo Ferrieri e Luciano Ramo – che non citano esplicitamente nessuno degli «scenotecnici » presenti – cercano innanzitutto di stimolare (anche attraverso una critica piuttosto serrata) l’intero sistema teatrale italiano, ritenuto incapace, per la sua sostanziale arretratezza organizzativa oltre che culturale, di mettere a frutto le creazioni degli scenotecnici stessi <245; segue poi un’introduzione di Prampolini alla sezione internazionale <246 (di cui il futurista è ordinatore), che tuttavia si risolve semplicemente in un elenco delle «collezioni pubbliche e private e teatri rappresentati nella mostra» <247.
[NOTE]
244 ENZO FERRIERI, LUCIANO RAMO, in Guida alla VI Triennale di Milano, catalogo della mostra Milano, Palazzo dell’Arte, 31 maggio – 31 ottobre 1936, Milano, Same, 1936, pp. 67-68.
245 Anche questi ultimi, tuttavia, non sono esenti da responsabilità, poiché essendo costretti «il più delle volte, a risolvere complessi problemi in sede puramente teorica», non paiono pienamente all’altezza – a causa di questa sorta di circolo vizioso – del proprio ruolo, tanto che i commissari ordinatori evidenziano come la selezione sia stata effettuata «con criteri di giusta scelta, sebbene non di eccessivo rigore» (ivi, p. 67).
246 ENRICO PRAMPOLINI, in Guida alla VI Triennale di Milano, catalogo della mostra Milano, Palazzo dell’Arte, 31 maggio – 31 ottobre 1936, Milano, Same, 1936, p. 71.
247 Ibidem.
Paolo Sacchini, Regina Bracchi (1894-1974). Dagli esordi al Secondo Futurismo, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, 2012

Casa a struttura d’acciaio, Giuseppe Pagano, V Triennale di Milano, 1933 – Fonte: Simone Di Benedetto, Op. cit. infra

Per quanto riguarda l’artigianato d’arte vengono invece presentati i grandi nomi della vetreria muranese come Venini, Barovier, Toso, Seguso, Fontana e Scaglia, con articoli fotografici introdotti da una breve descrizione dello stile, dei materiali e delle tecniche usate. Più estesa è la trattazione relativa a Fontana Arte (di cui Ponti era stato fondatore e successivamente direttore artistico dal 1931 al 1933) e alla figura di Pietro Chiesa, “illustre maestro” <227. Fontana Arte era nata a Milano nel 1931 da un’idea di Luigi Fontana e Ponti, come divisione aziendale specializzata in cristallo della Fontana & Compagni, ditta produttrice di lastre di vetro per uso edilizio che voleva entrare nel mercato del lusso. Il passo decisivo fu l’acquisizione nel 1933 della bottega milanese del mastro vetraio Pietro Chiesa, cui verrà affidata la direzione artistica dell’azienda a partire dallo stesso anno. La proficua collaborazione tra quest’ultimo, Ponti e Fontana rese l’ambiente aziendale vivace e stimolante, con il conseguente successo della produzione che compare sulle più importanti riviste del settore come “Stile”, “Casabella” e “Domus” e viene esposta alla VII Triennale di Milano in una sezione speciale riservata della Galleria dei Vetri e dei Metalli, allestita da Ignazio Gardella, dove vengono presentati modelli molto apprezzati, soprattutto nel settore dell’illuminazione e dell’arredamento <228.
[…] Per valorizzare questo settore di alta qualità Ponti propone di salvaguardare i centri di produzione a livello regionale, favorire la collaborazione con industria, architettura e arredamento (pavimentazioni e rivestimenti) e incentivare gli artisti con una fitta rete di premi e mostre in modo da “affermare l’Italia, compito degli italiani vittoriosi e degli artisti italiani, che han da essere non più in margine, ma protagonisti di una grande azione nazionale” <241. “Stile” pubblicava anche un articolo di Carlo Alberto Felice dove si annunciava l’annullamento della VIII Triennale, prevista per il 1943, a causa delle necessità belliche, nonostante gli organizzatori fossero contrari e desiderosi di continuare i lavori, poiché la popolarità e l’apprezzamento delle arti applicate non si potevano limitare ai soli periodi di pace, ma dovevano affrontare anche i più complessi problemi di ordine sociale. In tempo di pace la Triennale di Milano diventerà poi un modo per affermare la qualità della produzione italiana a livello mondiale, un modo per dimostrare allo stesso tempo la validità della popolazione e dell’alto livello culturale raggiunto <242.
[NOTE]
227 Per Fontana Arte si veda: G. Ponti, I grandi nomi dell’arte vetraria italiana: Fontana, ivi, n. 5-6, maggio-giugno 1941, pp. 64-68; L. Falcone, Fontana Arte: una storia trasparente, Milano 1998; F. Deboni, Fontana Arte: Gio Ponti, Pietro Chiesa, Torino 2012.
228 L’articolo di “Stile” presenta tra gli altri anche il Tavolo curvo Fontana (1932) e la lampada da terra Luminator (1933), il primo modello di questo tipo a emissione indiretta. Cfr. Guida alla VII Triennale, cit., pp. 234-254; A.
Pica, Storia della Triennale di Milano: 1918-1957, Milano 1958, pp. 7-53, 82-95.
241 G. Ponti, I problemi delle nostre arti: la ceramica, un settore dell’avvenire del popolo italiano, ivi, n. 16, aprile 1942, p. 40.
242 C.A. Felice, Verso il ventennio della Triennale, ivi, n. 15, marzo 1942, pp. 38-40.
Silvia Lattuada, Arti del tessile e dell’ago nell’editoria di Gio Ponti tra “Lo Stile” e “Fili”, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016

Casa a struttura d’acciaio, Giuseppe Pagano, V Triennale di Milano, 1933 – Fonte: Simone Di Benedetto, Op. cit. infra

«Domus», fondata da Gio Ponti con l’intenzione di occuparsi della casa come «tempio della famiglia», si rivolge principalmente ad un pubblico borghese agiato e colto, al quale propone specifiche soluzioni progettuali che comprendono anche gli interni, l’arredo e gli oggetti d’uso.
«La casa», scrive Ponti su «Domus» “accompagna la nostra vita, è il ‘vaso’ delle nostre ore belle e brutte, è il tempio per i nostri pensieri più nobili. Essa non deve essere di moda perché non deve passare di moda”.
Il clima culturale italiano, in questo periodo, risente delle esperienze più avanzate portate avanti nei paesi del centro e nord Europa, incentrate sempre più sul tema dell’abitazione collettiva, che vede prima nell’esposizione del Weissenhof di Stoccarda (1927) e poi nel II CIAM di Francoforte (1929), due delle più importanti espressioni di questa ricerca. Le riflessioni europee riguardano, già dalla metà degli anni Venti, l’abitazione minima, standardizzata ed economica, proprio per far fronte al problema della «casa per tutti», come priorità della nuova società.
In realtà in Italia, già nella Mostra dell’abitazione alla V Triennale milanese del 1933, i progetti esposti nel parco Sempione mostrano una evidente distanza con le esperienze progettuali degli architetti europei.
Nel 1928 Lancellotti, recensendo la prima Mostra di architettura razionale su «La Casa Bella», parla già di “casa razionale”, e più in generale di “architettura razionale”, come progetto che deve soddisfare lo scopo preciso a cui è destinato, soprattutto in funzione della “scarsezza dei mezzi di cui oggi si dispone”, vincolando così il tema alla realtà del tempo e anticipando quelli che saranno gli studi sulla casa economica, minima e prefabbricata. Una casa, che deve rispondere ai bisogni del vivere moderno, sfruttando le innovazioni tecniche e scientifiche applicate all’industria per raggiungere quella chiarezza, quell’armonia e quell’estetica tipiche dell’architettura antica.
Si parla oltretutto di “casa liberata”: liberata da vincoli strutturali, dalla chiusura delle sue facciate, dalla solidità eccessiva che impedisce modifiche planimetriche secondo nuove abitudini di vita.
Simone Di Benedetto, “Vuoti a rendere”. Riflessioni sul ruolo dello spazio intermedio nella residenza urbana romana, Tesi di Dottorato in Architettura – Teorie e Progetto, Università degli Studi Roma La Sapienza, 2017

Di questo periodo va considerato anche l’articolo intitolato Considerazioni sulla V Triennale (di cui Ponti era uno dei commissari, insieme a Carlo Albero Felice e Mario Sironi) che apparve sul secondo fascicolo di “Quadrante” del giugno 1933 e venne descritto dal suo autore come un “contributo sincero, improntato alla spregiudicatezza di pensiero” <263.
Bardi è molto critico nei confronti del direttorio che non era stato in grado di presentare un’esposizione che fosse soddisfacente a livello qualitativo, in particolar modo per quanto riguardava la sede espositiva, un edificio considerato inattuale e troppo eclettico: “La gente va al Parco per vedere, ha davanti il palazzone dall’indefinibile stile, e tutt’intorno il vispo sorgere delle piccole costruzioni, erette all’insegna cosiddetta razionale. […] Non c’è dubbio: il Palazzo è la beffa, la boccaccia al razionalismo (o pseudo-razionalismo) disseminato nel giardino. […] Diciamo francamente che con questa Triennale dovrebbe chiudersi il ciclo dei neo-classici; dovrebbe chiarirsi il dissenso artistico del direttorio: Ponti è propenso al razionalismo, Sironi non vi crede” <264.
[NOTE]
263 P.M. Bardi, Considerazioni sulla V Triennale, in “Quadrante”, n. 2, giugno 1933, pp. 3-7.
264 Ivi.
Silvia Lattuada, Op. cit.

Accanto ad enti preposti alla promozione del lavoro scientifico, artistico, letterario, il regime mussoliniano favorì la nascita o la rinascita di istituzioni adibite alla comunicazione e all’intrattenimento di massa, e non trascurò l’arte, benché senza che mai Mussolini cadesse nella trappola dell’arte di regime, a differenza della Russia di Stalin e della Germania di Hitler. Ed ecco istituzioni quali l’Istituto Luce, l’Eiar, l’Opera Nazionale Dopolavoro, i Littoriali (prima dello Sport, poi anche dell’Arte e della Cultura), la Biennale di Venezia, la Triennale di Milano, la Quadriennale di Roma, Cinecittà, i diversi Premi artistico-letterari – dal letterario Bagutta alla coppia antagonista in campo artistico Cremona-Bergamo, legato l’uno al ras estremista Farinacci, l’alto al “moderato” Bottai, portatori di opposte politiche e dunque l’un contro l’altro armato -, le Fiere del Libro, il Carro di Tespi (per la diffusione del teatro)… Tutto ciò contribuì alla standardizzazione del lavoro culturale, mentre creava o perfezionava nuove professioni intellettuali, alle quali le strutture sindacali fungevano da sponda, svolgendo il ruolo di centri di collocamento di “manodopera intellettuale”. I sindacati artisti, architetti, musicisti, scrittori, ingegneri, furono strutture per procacciare lavoro agli aderenti, ma nel contempo strumenti di organizzazione del consenso, tra i loro membri, e insieme di costruzione del consenso di un pubblico via via più largo, di ceti medi e anche popolari. Un insieme di imprese, di politiche, di situazioni e di persone che prefigura, nel bene e nel male, un lascito importante per il post-fascismo, ma altresì definisce il piano integrato di governi che fanno politica culturale.
[…] E poi quanti altri nomi degni di attenzione, nelle diverse sfere dell’azione culturale: Ugo Ojetti, Margherita Sarfatti, Luigi Pirandello, Curzio Malaparte, Ardengo Soffici, Massimo Bontempelli, Giovanni Papini, Filippo Tommaso Marinetti, Leo Longanesi, Mino Maccari, Arrigo Benedetti, Emilio Cecchi, Pietro Maria Bardi, Cipriano Efisio Oppo, Giuseppe Pagano, Gio Ponti, Marcello Piacentini, Lionello Venturi, Edoardo Persico, Mario Sironi, Ottorino Respighi, Alfredo Casella, Luigi Russolo […]
Angelo d’Orsi, Il fascismo, gli intellettuali e la politica della cultura in Museo dell’Arte Contempoanea dell’Università di San Paolo del Brasile

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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