Anche Müller lavora con i ricordi e con le proprie esperienze di vita sotto la dittatura di Ceauşescu, sperimentando con un linguaggio che coniuga tre sistemi linguistici differenti

Herta Müller, pur vincendo, tra gli altri, il prestigioso premio Nobel per la letteratura nel 2009, rimane per lo più sconosciuta al grande pubblico italiano, che difficilmente può trovare più di due o tre sue opere tra gli scaffali delle librerie (a fronte di venticinque pubblicazioni dell’autrice dal 1984 al 2014). Questa assenza – tutta italiana – non rispecchia l’enorme interesse da parte della critica e del pubblico estero nei confronti di questa autrice e della sua produzione.
Mi avvicinai a Herta Müller durante gli studi universitari, quando, per puro caso, durante un’esercitazione di ascolto in lingua tedesca, si parlava della sua ultima opera, “Immer derselbe Schnee und immer derselbe Onkel” (2011).
Iniziai a interessarmi ai suoi testi e ad avvicinarmi cautamente al suo stile, semplice e lineare nei saggi, criptico e complesso nelle opere in narrativa. Mi affascinarono in particolare le sue opere collagistiche, che trovai particolarmente intriganti. Nonostante la difficoltà incontrata nella lettura, ciò che colpì il mio sguardo allora furono i colori, le immagini e i ritagli di parola che componevano le frasi. Proprio questa dimensione visiva, che cattura istintivamente lo sguardo di chi anche solo osserva i collage mülleriani, senza addentrarsi nella loro lettura, ha dato il via a una serie di riflessioni sul rapporto tra una dimensione visuale e una testuale, che è divenuto il perno del presente lavoro.
[…] L’estrema varietà bibliografica di Herta Müller è sintomo della “polimorfia” di uno stile per molti inaccessibile, ma che, come si è visto, risulta essere estremamente rappresentativo della sua esperienza biografica. È dunque impossibile mantenere la vita dell’autrice separata dalle sue opere, poiché essa è la materia prima da modellare per costruire il mondo letterario mülleriano. L’esperienza dell’oppressione sotto la dittatura di Ceauşescu e, in particolare, la traumatica esperienza degli interrogatori e la persecuzione da parte della Securitate hanno lasciato il segno su una scrittura frammentaria, sincopata ed estremamente ermetica. Il «codice di sopravvivenza» di cui Müller fa uso è un linguaggio evocativo che non vuole rifugiarsi in un mondo fantastico e completamente irreale, piuttosto, basandosi su fatti reali, vuole costruire un mondo che rispecchi la sua personalissima «percezione» di esso. Non è fiction, infatti, ciò che viene trattato nelle sue opere, ma autofiction. La «percezione inventata» («erfundene Wahrnehmung») è ciò che permette all’autrice di «modificare la realtà», inserendo tratti surreali in situazioni che provocano un forte shock emotivo. Ecco, dunque, che le spaventose rocce inanimate di un quadro diventano, per Müller bambina, cetrioli marci e minacciosi, la sensazione del senso di colpa provato nel vedere un rapporto extraconiugale del padre diventa un odore, l’«odore di pere marce». La «percezione inventata» del mondo cambia a seconda dell’età, tuttavia non scompare. Ogni età percepisce la realtà circostante in modo differente e, per mezzo di emozioni forti, quali in primis la paura (Angst), viene sempre percepita una «seconda dimensione» di ogni situazione, ma anche di ogni oggetto o persona, il «lato nascosto» che si fa visibile al lettore solo attraverso gli occhi e la «erfundene Wahrnehmung» dell’autrice.
Dal momento che lo sguardo è il mezzo principale per scorgere il mondo circostante, le immagini non possono che rappresentare strumenti base per la costruzione delle opere mülleriane. Districate in diverse forme, esse appaiono sia nei testi-collage dell’autrice, sia nei testi in prosa. Entrambe le tipologie sono considerate «iconotesti» in senso lato, ovvero, prodotti letterari che coniugano una dimensione testuale a una dimensione visuale. Nello specifico si è visto come i collage possano rappresentare meglio gli «iconotesti» stricto sensu nell’accezione a essi data da Cometa e Wagner, mentre i testi in prosa ben si rapportano alla concezione di «iconismi». Per dirla con Louvel, i testi in prosa sono investiti di un basso livello di saturazione pittorica, poiché in essi manca il rapporto diretto con dipinti, pur tuttavia presentando procedimenti ecfrastici e legati all’ipotiposi.
Nella più ampia tradizione letteraria tedesca moderna e contemporanea, le opere di Müller si inseriscono in due tendenze prettamente novecentesche.
La prima è quella sperimentale, in cui il rapportarsi del testo con le immagini diventa sintomo di un’incapacità da parte del linguaggio di esprimere l’inesprimibile. Laddove infatti si fa forte la presenza della «frase taciuta» è presente un’immagine: si è visto l’esempio della visione delle calze bagnate di sangue nel racconto “Drosselnacht”, dove il testo della cartolina militare, taciuto al lettore, viene sostituito con l’immagine delle calze insanguinate, simbolo della morte del figlio Martin. L’immagine ha valore universale, va oltre le singole lingue. Nonostante ogni lingua «veda il mondo diversamente», ciò che l’occhio scorge rimane sempre immutato. La sfida, per Müller, è quella di rappresentare testualmente, in un susseguirsi di frasi, tutto quello che lo sguardo umano riesce a cogliere, quasi simultaneamente. Ed è la simultaneità dello sguardo che rende il linguaggio dell’autrice paratattico e sincopato, costituito il più delle volte da un susseguirsi di frasi coordinate senza un apparente collegamento. Si pensi al testo della cartolina nr. 18 di “Der Wächter nimmt seinen Kamm”, che rappresenta testualmente la cadenza marciante delle silhouette attraverso una serie di semplici frasi principali che poco hanno a che fare le une con le altre.
La combinazione di parole e immagini si inserisce in un filone sperimentale prettamente novecentesco, che tuttavia trova una sua origine nel Romanticismo tedesco, quando la convergenza di diverse arti si contrapponeva alla purezza formale neoclassica.
Confrontando le opere di Müller indagate nell’ultimo capitolo di questo lavoro con gli esperimenti visivo-letterari novecenteschi di Weiss, Sebald e Schmidt, si possono facilmente enucleare elementi comuni, pur rimanendo entro i confini delle singole esperienze personali. Uno di questi è la forte corrispondenza che lega l’opera alla vita dell’autore: l’esperienza nazista grava pesantemente sulle opere dei tre, seppure assumendo modalità e forme letterarie completamente differenti. Sebald, essendo nato nel 1944, è stato testimone indiretto degli orrori dell’Olocausto, giunti a lui anche tramite la testimonianza attiva e la partecipazione del padre alla Wehrmacht; Weiss è stato vittima diretta della macchina nazista, costretto a fuggire per non essere imprigionato nei campi di concentramento; Schmidt ha vissuto ed è stato costretto a prestare servizio militare durante il dodicennio nero. Queste diverse esperienze si riflettono nelle produzioni letterarie dei tre autori: per Weiss attraverso la negazione di una lingua, quella tedesca, che risulta essere depravata dal meschino utilizzo propagandistico che il partito nazista ne fa e che si ripercuote in una pregnante esperienza figurativa, per Sebald e Schmidt attraverso un lavoro sulla rimemorazione, che vede nelle opere del primo l’utilizzo di immagini fotografiche che minano lo status oggettivo delle immagini, in quelle del secondo l’elaborazione di testi che vogliono riprodurre ciò che avviene nella mente dell’individuo durante il processo del ricordo.
Anche Müller lavora con i ricordi e con le proprie esperienze di vita sotto la dittatura di Ceauşescu, sperimentando con un linguaggio che coniuga tre sistemi linguistici differenti: il rumeno, il tedesco e il dialetto di Nytzydorf. Giocando con le potenzialità di ognuno di questi sistemi linguistici, Müller utilizza termini appartenenti al campo semantico della visualità per innervare un mezzo espressivo ibrido che si avvicina, a tratti, alle poesie sperimentali
dadaiste, considerate “Gesamtkunstwerke”. Infatti, molti testi dell’autrice vengono letti e interpretati dalla sua propria voce in videoclip facilmente reperibili nel web e audiolibri, il che sfocia, soprattutto per quanto riguarda i collage, in un forte sperimentalismo che mette a confronto l’apparente anonimia e impersonalità delle opere, le quali attraverso i ritagli di giornale non sono altro che rielaborazioni di materiale già esistente, con la forte personalizzazione della voce di Müller stessa, che riproduce sapientemente pause e silenzi laddove la punteggiatura non ricorre in aiuto. La lettura dei collage sottolinea, inoltre, la frammentarietà dell’opera, attraverso la cadenza su ogni singolo termine, come a sottolinearne l’unicità e l’autonomia. Dopotutto, come Müller stessa sostiene, ogni «termine» a tratti diventa quasi indipendente dal resto del testo: «jedes Wort ist ein anderer Gegenstand, vielleicht sogar ein Individuum». <296
La materialità con cui Müller tratta le sue parole si avvicina a quello che Hartung ritiene essere l’elemento sperimentale per eccellenza: la “Wertindifferenz gegen dem Stoff”, a favore di un rinnovato interesse nei confronti della forma e del materiale linguistico.
La seconda tendenza novecentesca da cui Müller non può sottrarsi è quella della letteratura “nach Auschwitz”. Se, secondo la provocazione adorniana, scrivere poesia «dopo» ovvero «riguardo» Auschwitz risulta essere un atto di barbarie, molte opere testimoninano proprio la necessità degli scrittori di mettere in letteratura le personali esperienze vissute durante il periodo nazista. Müller, seppur vivendo un’altra dittatura, in un’altra nazione e in un differente periodo storico, è duplicemente vicina alla letteratura tedesca del secondo dopoguerra. L’essere parte di una schiatta di nazisti le inculca quel senso di colpa nei confronti delle vittime del nazismo tipico della seconda generazione di scrittori successivi alla caduta del Terzo Reich, ovvero coloro che hanno assunto una posizione decisamente polemica nei confronti della Vätergeneration (la generazione dei padri). <297 La figura paterna, si ritrova, negli scritti dell’autrice, in numerose riflessioni saggistiche che parlano di un padre – nazista – amato e odiato allo stesso tempo, nonché nei numerosi riferimenti allo scrittore Paul Celan, i cui genitori morirono per mano nazista. Come Elena Agazzi saggiamente ha messo in luce collegando lo schema linguistico di Harald Weinrich riguardo all’utilizzo dei verbi modali del tedesco nella «trasmissione del significato dell’atto del dimenticare», <298 con ognuna delle tre generazioni di scrittori del secondo dopoguerra, si può ben individuare nell’enunciato relativo alla seconda generazione l’impossibilità di Müller di dimenticare il passato: «Ich könnte das nicht vergessen, auch wenn ich es wollte» («non potrei dimenticarmi di questo fatto, neppure se lo volessi»). <299 Müller non solo è impossibilitata a «dimenticare» i crimini che dominano il passato nazista del padre, ma anche, e forse soprattutto, non può dimenticare le oppressioni subite in quanto vittima della dittatura di Ceauşescu. L’esperienza delle persecuzioni, degli spionaggi, degli interrogatori, la paura con cui è costretta a convivere nella Romania comunista portano le sue opere a un immediato confronto con quelle appartenenti alla “Zeugnisliteratur”. La necessità di mettere per iscritto la propria esperienza personale, sottraendola alla generalizzazione storica e investendola di elementi surreali, frutto di una percezione del mondo dominata dallo stato di paura, sposta lo status dell’autrice stessa dall’essere figlia di carnefici all’essere vittima, permettendo così di condividere momenti e riflessioni con ben due tipologie di scrittori tedeschi del secondo dopoguerra: i «sopravvissuti» alla persecuzione, il cui scopo primario è testimoniare per non dimenticare, ma anche rielaborare un’esperienza tanto tragica quanto lo è stata la detenzione nei Lager e la persecuzione nazista – o comunista e gli esponenti della «seconda generazione». Questo interessante status le permette di eludere lo stile diaristico e crudo dei testimoni diretti e di «poeticizzare» i suoi testi, arricchendoli di elementi finzionali e surreali, nonché di ironia e metaforicità.

Der Wächter nimmt seinen Kamm, Karte nr. 43 – Fonte: Silvia Vezzoli, Op. cit. infra

[NOTE]
296 Müller (2016), p. 226; trad. it. Müller (2015), p. 197: «ogni parola è un oggetto diverso, forse addirittura un individuo»
297 Agazzi (2003), p. 120
298 Weinrich, H. (1997)
299 Agazzi (2003), p. 14

Wächter, Karte nr. 18 – Fonte: Silvia Vezzoli, Op. cit. infra

Silvia Vezzoli, Scrivere per immagini: lo stile sperimentale di Herta Müller, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Bergamo, Anno Accademico 2017/18

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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