Ansaldo trovò significative conferme
all’ipotesi che il futuro della stampa fosse destinato a far tornare in auge l’affascinante
modello del giornalismo d’opinione di fine Ottocento

Di ancor più ardua decifrazione doveva poi apparire ad Ansaldo il contesto politico nel quale si giocava la partita: caduto in disgrazia economica, reduce da un biennio (dal 9 novembre 1943 al 22 giugno 1945) trascorso nelle carceri e nei campi di internamento di Poggioreale, Padula, Aversa e Terni, dopo vari sondaggi e abboccamenti tentati con tutti i partiti dell’arco parlamentare, Lauro aveva finito per abbracciare la causa qualunquista e, svanita la spinta propulsiva del movimento animato da Guglielmo Giannini, per divenire il principale finanziatore del Partito Nazionale Monarchico, riappropriandosi nel contempo, e con sorprendente rapidità, delle precedenti fortune imprenditoriali. Consapevole della necessità di scendere a patti con l’inusitato consenso popolare ottenuto dal «Comandante» in una città nota per la sua comprovata fedeltà a Casa Savoia (nel referendum del 2 giugno 1946 il voto in favore della Monarchia nella circoscrizione Napoli-Caserta aveva sfiorato l’80% dei suffragi), la Democrazia Cristiana, proponendosi di erodere quella base elettorale senza pregiudicare la possibilità di accordi in chiave anticomunista nelle pratiche del Governo nazionale, puntava alla creazione di un organo di stampa di impostazione nettamente conservatrice, capace di contrastare efficacemente l’armatore sul suo terreno. Ansaldo era dunque un candidato appetibile per entrambe le proprietà, ormai divise e in procinto di dare un nuovo assetto ai rispettivi quotidiani, a dispetto del suo noto passato politico: a ben vedere questo costituiva, più che un oggettivo limite alla candidatura avvertito dai suoi possibili datori di lavoro, una preoccupazione di carattere personale poggiata sul timore che un “padrone” ingombrante come il partito di De Gasperi potesse limitarne l’indipendenza ingiungendogli una inderogabile accondiscendenza filogovernativa o, addirittura, un’abiura dei suoi trascorsi fascisti.
Le concrete difficoltà del trasferimento da Pescia, la situazione poco chiara nei rapporti tra il Banco di Napoli e la Democrazia Cristiana, la segreta speranza di poter continuare una carriera di scrittore che con il successo della biografia giolittiana pareva potergli riservare nuove soddisfazioni, portarono a un primo rifiuto, che tuttavia non scoraggiò i latori dell’offerta, tornati presto alla carica: ottenute le necessarie garanzie sulla centralità nella gestione del giornale da parte del Banco di Napoli, rassicurato dalla prospettiva di diventare il direttore del risorto «Mattino» – e non di una testata provvisoria destinata a ulteriori mutamenti – affidato a nuova società di gestione, la Compagnia Editrice Napoletana (C.E.N.), Ansaldo si convinse ad accettare, indirizzando già il 30 gennaio 1950 una lunga lettera circolare a Stanislao Fusco, direttore del Banco di Napoli, all’avvocato Giuseppe Graziadei, amministratore delegato della S.E.M., ai democristiani Gava e Giuseppe Arcaini, a Cristiamo Ridomi e a Renato Morelli, politico liberale consigliere del Banco e intimo di Benedetto Croce (che dalla sua casa di via Trinità Maggiore aveva concesso il suo benestare all’operazione), nella quale sottoponeva alle personalità che ne avevano a vario titolo promosso l’assunzione le sue ultime condizioni, di carattere pratico ma soprattutto legate alla futura impostazione politica della testata:
“Se ho ben compreso, la linea politica del nuovo «Mattino» è stabilita da quel tale articolo del contratto tra la SEM e la costituenda Società di Gestione, che pone al giornale il compito di difendere (cito a memoria) le tradizioni sociali del popolo italiano, i vigenti principi costituzionali, e gli interessi del Mezzogiorno. Amico, come sono per natura, delle cose antiche, e spesso soltanto perché antiche; avversario delle controrivoluzioni per le stesse ragioni che mi fanno detestare le rivoluzioni; ammiratore devoto di Giustino Fortunato, fin dai tempi della giovinezza, e lettore assiduo dei suoi studi sulla rivoluzione meridionale, io posso aderire con piena lealtà a questa formula, ampia e nello stesso tempo precisa. […] Pur essendo convinto che la osservanza della formula succitata porta oggi, e porterà per un tempo assai lungo, ad appoggiare combinazioni governative imperniate sulla Democrazia cristiana; pur essendo disposto sempre ad ascoltare amichevoli informazioni o suggerimenti dalle persone a ciò qualificate, non sarei per nulla disposto ad accettare istruzioni, indirizzi, pressioni, o come con qualunque altro eufemismo si vogliano chiamare gli ordini, da parte degli organi governativi o della Democrazia cristiana stessa. […] V’è poi da tenere presente il mio passato politico. […] Qualunque sia il giudizio che da altri se ne dà, è certo che per questo passato mio, io debbo avere, ed ho, il massimo rispetto. Libero da ogni vincolo coi movimenti genericamente denominati neo fascisti, anzi libero da ogni conoscenza diretta con gli uomini che li capeggiano; libero altresì da ogni forma di quella che si suol chiamare «nostalgia», io non posso però, senza avvilirmi, rinnegare uomini e principii che un tempo ho servito; e debbo anche evitare l’apparenza di questo rinnegamento. Di conseguenza anche è chiaro che se mi fosse data la direzione del giornale, il giornale stesso dovrebbe essere precluso ad ironie e invettive contro quegli uomini e quei principii. Nessuna apologia, certo, neppure larvata; ma, del pari, nessun vilipendio retrospettivo […]. Del cosiddetto regime e delle sue responsabilità storiche, parlerò, se del caso, criticamente, io” <132.
Anche le ultime pregiudiziali caddero, si chiarirono i rapporti interni alla C.E.N. tra le parti economiche e politiche in causa (la nuova società sorta il 23 marzo 1950 per la gestione congiunta del «Mattino» e del «Corriere di Napoli» divideva il suo capitale tra il 52% di proprietà del Banco di Napoli e il 48% nelle mani della finanziaria democristiana Affidavit), mentre Lauro, compiuto un estremo e infruttuoso tentativo di assicurarsi per il «Roma» i servigi di Ansaldo con un’offerta economica superiore a quella prospettatagli dalla S.E.M., si accordò all’inizio di febbraio con l’ex direttore della «Stampa» Alfredo Signoretti, affidandogli a partire dal 3 marzo 1950 la responsabilità direttiva del suo giornale. Dovrà passare più di un mese perché Ansaldo potesse a sua volta insediarsi nell’ufficio dell’Angiporto Galleria, un solo giorno prima di veder comparire nelle edicole il numero d’esordio del «Mattino», il 9 aprile 1950, domenica di Pasqua <133.
Al di là della curiosità destata dall’arrivo a Napoli di una firma così celebre e discussa, che nell’immediato fecero guadagnare al «Mattino» un buon numero di lettori fedeli alla fama dell’antica testata, le capacità giornalistiche di Ansaldo sarebbero state subito messe a dura prova dall’impari confronto con il «Roma», dotato da Lauro, finalmente libero di mettere al servizio dei suoi scopi propagandistici i propri quattrini, di impianti di prim’ordine in grado di sfornare un giornale di qualità tipografica molto elevata. Non sarebbe dunque bastata la presenza di un nuovo direttore a garantire il consolidamento della testata e a vincere la concorrenza degli altri organi di stampa cittadini (oltre al «Roma», al «Corriere di Napoli» e al «Risorgimento», ormai avviato all’estinzione, completavano il quadro «il Giornale», liberale e molto vicino a Croce, fondato nel 1944 e diretto prima da Manlio Lupinacci, poi da Guglielmo Emanuel, infine, dal 1946 al 1957, da Carlo Zaghi, e «Il Mattino d’Italia», quotidiano democratico indipendente vissuto, sotto la direzione di Ugo Amedeo Angiolillo, tra il 10 settembre 1950 e l’11 settembre 1954) se all’opera di Ansaldo non si fosse affiancata, ma solo a partire dalla fine del 1951, la sapiente gestione amministrativa di Egidio Stagno, capace di risanare in pochi anni un bilancio largamente deficitario.
L’assunzione del nuovo amministratore fu infatti preceduta da quasi due anni di enormi difficoltà economiche, organizzative, ma soprattutto impiantistiche, delle quali Ansaldo non fece fatica ad avvedersi fin dal suo ingresso nello studio dell’Angiporto Galleria, impreziosito da un busto di Edoardo Scarfoglio e illuminato dalla finestra affacciata su via Toledo, cuore pulsante della Napoli popolare, un ingresso sul quale si è sviluppata un vasta aneddotica destinata a mettere in evidenza il singolare contrasto tra il rigore professionale del direttore e la disponibilità un po’ arruffona e talvolta ingenua degli uomini alle sue dipendenze.
Consapevole della sua estraneità all’ambiente e della necessità di inculcare alla redazione e alle maestranze la sua personale concezione del lavoro in tutte le fasi della composizione del giornale, Ansaldo pescò nel mare magnum del giornalismo napoletano pochi ma fidati collaboratori che per un motivo o per l’altro non erano stati cooptati dall’imponente macchina editoriale laurina. È il caso di Carlo Nazzaro, direttore del «Roma» negli anni Trenta e nuovamente tra il 26 agosto 1949 e il 2 marzo 1950, in rotta con il «Comandante» ed entrato in piena sintonia con Ansaldo sin dalle sue prime visite nel capoluogo campano – ma i due si conoscevano da molti anni -, tanto che quest’ultimo arrivò a promuoverne l’assunzione a condirettore già a partire dalla citata lettera ai maggiorenti del giornale: Nazzaro, collaboratore di vasti interessi culturali, ricevette così, dal 3 marzo 1950, la direzione del «Risorgimento» (che proseguirà le sue pubblicazioni come quotidiano del mezzogiorno fino al 31 ottobre 1950, dal 9 aprile sotto la responsabilità della direzione del «Mattino»), passando automaticamente ad assumere l’incarico concordato con Ansaldo all’uscita del nuovo quotidiano, e accompagnando il direttore, in ruoli via via differenti (l’incarico di condirettore terminerà infatti il 5 gennaio 1958), fino alla conclusione della sua carriera. Non meno importante fu il contributo di Luigi Mazzacca (redattore capo tra il 1936 e il 1943 del «Roma» di Nazzaro), incaricato delle mansioni di vicedirettore fino al 1964 quando passerà alla direzione del «Corriere di Napoli», e della esigua pattuglia di redattori destinati a costituire il nucleo fondante della compagine giornalistica del «Mattino»: il critico letterario Mario Stefanile, il filosofo e critico musicale Alfredo Parente, il cronista mondano Augusto Cesareo, il critico d’arte Carlo Barbieri, il cronista sportivo Gino Palumbo, i giornalisti incaricati delle note cinematografiche e televisive Vittorio Ricciuti e Angelo Cavallo.
Affidando la gestione della costruzione complessiva del quotidiano ai suoi più stretti collaboratori, Ansaldo, a dispetto dei numerosi problemi tecnici che si facevano sempre più pressanti, tentò soprattutto di conferire la giusta dose di autorevolezza alla sua scrittura, confidando che la presenza dei suoi articoli, in un giornale che peraltro poteva allestire un numero di pagine inizialmente piuttosto limitato, sarebbe stata sufficiente a fare del «Mattino» un prodotto capace di imporsi felicemente sul mercato napoletano e meridionale.
Nell’era in cui la più capillare diffusione della radio e, di lì a pochi anni, la nascita della televisione avrebbero rivoluzionato le modalità di trasmissione delle informazioni e delle notizie, mentre le nuove tecniche di stampa avrebbero preteso un utilizzo più frequente di illustrazioni e fotografie per accondiscendere ai gusti di un pubblico aumentato per numero, ma decisamente ridottosi per livello qualitativo, Ansaldo trovò significative conferme all’ipotesi che il futuro della stampa fosse destinato a far tornare in auge l’affascinante modello del giornalismo d’opinione di fine Ottocento <134: e proprio per questo, in conformità con il suo stile e godendo di un rilevante grado di autonomia per la prima volta nella sua esperienza lavorativa, fu libero di concepire il quotidiano da lui diretto come una tribuna personale dalla quale esprimere ogni giorno il suo punto di vista, elegante e ben argomentato, sugli eventi proposti dall’attualità, con l’obiettivo di non deludere le attese dei lettori offrendo senza soluzione di continuità meditati spunti di riflessione. Era stato quello, a ben vedere, il programma che agli inizi del secolo aveva consentito a Edoardo Scarfoglio di divenire il giornalista più amato dai napoletani: una lezione, la sua, che nonostante i cambiamenti epocali intercorsi negli ultimi cinquant’anni di storia in Ansaldo continuava a esercitare un’attrazione irresistibile, tanto da rappresentare un antecedente ineludibile per ottenere un’analoga affermazione sulla scena partenopea <135.
Non rende giustizia all’instancabile lavoro realizzato da Ansaldo l’apparente scarsa frequenza con la quale il suo nome comparve sul «Mattino» nel corso dei primi anni di direzione. Anche tralasciando i frequenti corsivi, le brevi notizie, le informazioni tratte da giornali stranieri o italiani riprodotte in forma consuntiva – un repertorio di sua pertinenza ma consegnato per intero alla categoria dell’anonimato -, perfino gli editoriali mancano in non pochi casi della firma, sebbene tali scritti scaturissero indubitabilmente dalla sua penna, come la loro stessa veste tipografica, una composizione più nitida e spaziata rispetto a ogni altro elemento della pagina, lasciava facilmente supporre. Fu quindi con estrema prudenza che il nuovo direttore si inserì nell’ambiente cittadino, una cautela così dissimulata da essere scambiata per disinteresse, al punto che il presidente della C.E.N. Enzo Bevilacqua – evidentemente poco informato delle sue modalità di conduzione – arrivò a rimproverargli, verso la metà del 1951 e in un pubblico consesso, la penuria della sua produzione scrittoria <136.
Era, al contrario, quasi totalizzante la sua presenza sulle colonne del «Mattino», come dimostrano, oltre alla pubblicazione degli articoli di fondo, nei quali Ansaldo non si sottrasse a fornire un’analisi pressoché giornaliera degli avvenimenti politici, economici e sociali più rilevanti, la preparazione di una rubrica fissa collocata in seconda o terza pagina, “I fatti e le idee” (titolo già adottato per un’analoga rassegna stampata sul «Telegrafo»), spazio dedicato a commenti di costume e non privo di riferimenti al mondo giornalistico e letterario, e i non occasionali interventi in terza pagina – una necessità imprescindibile vista la scarsità di risorse economiche che impedivano il ricorso a collaborazioni esterne -, nella maggior parte dei casi consistenti in rielaborazioni di articoli pubblicati in prima istanza sul «Lavoro» o sul «Telegrafo», ovvero nella riproposizione di recensioni, firmate con gli ormai consuetipseudonimi (e in particolare quello di «Michele Fornaciari»), ai volumi della casa editrice Longanesi uscite poco tempo prima sul «Borghese».
La compilazione di una sezione culturale più ricca e articolata, che fosse messa in condizione di non ricorrere con eccessiva frequenza agli interventi riempitivi e che potesse annoverare una più nutrita partecipazione di “grandi firme” si presentava come una preoccupazione non estemporanea: se si escludono i nomi di Marino Moretti e di Giovanni Comisso, i collaboratori più attivi in quegli anni appartenevano infatti quasi esclusivamente al mondo letterario cittadino, come Luigi Compagnone, Giuseppe Marotta, Alberto Consiglio o Edwin Cerio, o partecipavano alla terza pagina in ragione della loro stretta amicizia con il direttore, che ne aveva accolto gli scritti anche sul «Telegrafo», come Luigi Pescetti, Luigi Maria Personè e Paolo Zalum. Al di là del valore dei singoli, Ansaldo avvertiva però l’esigenza di innovare questa sezione inserendovi articoli più brevi e meno occasionali, alternandoli a lunghe pubblicazioni storiche a puntate (molto successo riscossero a questo proposito le serie “Così finirono i Borbone di Napoli” di Michele Topa dal 28 giugno al 6 agosto 1959 e “Garibaldi, passioni e battaglie” di Arturo Fratta dal 6 dicembre 1959 al 24 gennaio 1960).
Certamente più sentita e fonte di notevoli contrasti fu tuttavia la gestione della linea politica della testata, soprattutto nella fase in cui il consolidamento dei rapporti di forza tra il direttore del «Mattino», i responsabili della C.E.N., quelli del Banco di Napoli e la rappresentanza politica democristiana più vicina al bacino elettorale napoletano ancora doveva conoscere una sua forma di stabilità. Non tanto in politica estera, dove l’aperta propensione filoamericana, accompagnata dall’ovvia e ancor più netta posizione anticomunista, si era incrinata solo in occasione del disinteresse statunitense di fronte alla piena appropriazione da parte delle truppe di Tito della «Zona B» giuliana (aprile 1950), quanto in politica interna, dove il malcelato desiderio dei maggiori esponenti della Democrazia Cristiana di avere a disposizione un giornale “ufficioso” dovevano presto infrangersi contro la provocatoria indipendenza mostrata da Ansaldo, improntata talvolta ad assumere posizioni di eccessiva contiguità con le proposte politiche missine, un po’ per convinzione personale, un po’ per compiacenza verso i sentimenti prevalenti nell’opinione pubblica cittadina. Un attrito sempre latente che aveva resistito al singolare atteggiamento tenuto dalla segreteria della Democrazia Cristiana di fronte alle denunce del deputato Ettore Viola, espulso dal partito dopo aver accusato alcuni colleghi, e in particolare il Ministro delle Poste e Telecomunicazioni Giuseppe Spataro, di appropriazioni indebite, o alle reticenze governative sull’uccisione di Salvatore Giuliano, ma che sfociò in un aperto contrasto quando il Ministro dell’Interno Mario Scelba decise di adottare nuove sanzioni contro il Movimento Sociale Italiano, dando avvio a quel lungo iter legislativo che avrebbe portato il 20 giugno 1952 all’istituzione del reato di apologia del fascismo, una proposta che Ansaldo giudicò impraticabile e controproducente <137.
Le pressioni non erano dunque di scarso rilievo, ma il direttore del «Mattino» seppe muoversi con equilibrio nell’intricata selva degli interessi a lui sovrastanti, dando prova di grande abilità nel mantenere un sostanziale grado di autonomia, ma mitigando nel contempo le sue punte polemiche antigovernative nei casi in cui avesse avvertito particolari motivi di insoddisfazione nei suoi referenti politici. D’altronde il giornalista si era premurato con avvedutezza fin dalla sua assunzione al giornale di riservarsi la ricerca di spazi e occasioni sufficienti per esprimere in libertà le proprie opinioni; non eccedendo nelle richieste economiche – le 400.000 lire del suo mensile erano una cifra inferiore, come lo stesso Ansaldo non mancava di rimarcare con disappunto in più pagine del suo diario, alle 500.000 lire pagate da Lauro a Signoretti -, aveva ottenuto in cambio di poter collaborare, compatibilmente con l’assoluzione dell’impegno al «Mattino», con altre pubblicazioni periodiche. E ciò non tanto in previsione futura quanto per non lasciare al proprio destino Leo Longanesi, che da poco meno di un mese aveva intrapreso a Milano l’ultima e forse la più fortunata delle sue avventure editoriali: desideroso di varare un progetto maggiormente ambizioso rispetto alla stampa di un bollettino settoriale e destinato a una distribuzione limitata come «Il Libraio», l’amico era da anni in trattativa con vari finanziatori (e soprattutto con Angelo Rizzoli) per assicurarsi le garanzie economiche necessarie a impiantare un settimanale di larga diffusione nazionale capace di prendere di petto le ipocrisie e le contraddizioni del potere politico potendo finalmente fare affidamento – del tutto tramontata la via di una transizione “democratica” al comunismo e venuta meno l’esigenza di costituire quel blocco compatto con la Democrazia Cristiana che aveva trionfato nelle elezioni del 18 aprile 1948 – sulla facoltà di indirizzare le proprie sferzanti invettive contro tutti gli schieramenti dell’arco parlamentare.
Da questi intenti programmatici era scaturito «il Borghese» – inizialmente quindicinale, e solo a partire dal n. 8 del 15 aprile 1954 pubblicato a cadenza settimanale e impreziosito dalle celebri copertine patinate e illustrate disegnate dall’editore romagnolo – che avrebbe rappresentato la vera summa dell’anima conservatrice incarnata da Longanesi e Ansaldo (e da Indro Montanelli, la terza colonna “ideologica” del periodico): una rivista che ancora oggi affascina per la modernità, l’intraprendenza, l’aggressività talvolta irridente, talvolta più ragionata e finemente argomentata, verso un potere ingessato e fortemente intimorito di fronte agli attacchi provenienti da un pulpito così “irregolare” e non direttamente riconducibile a una specifica fazione politica. Se questo atteggiamento settario danneggiava gli esiti numerici raggiunti dal «Borghese», che ovviava alla necessità di un contenimento rigorosissimo dei costi di gestione con l’utilizzo della carta di colore paglierino comunemente adottata per i volumi stampati dalla casa editrice, con l’assoluta mancanza di fotografie, pure care alle strategie comunicative longanesiane (un inserto fotografico comparirà infatti solo negli ultimi mesi della direzione di Longanesi, a partire dal n. 16 del 19 aprile 1957), e con il mantenimento di una tiratura relativamente bassa, oscillante tra le 10.000 e le 15.000 copie, nemmeno paragonabile alle cifre raggiunte dai più importanti rotocalchi, allora attesissimi dal pubblico e venduti in centinaia di migliaia di copie come «L’Europeo», «Tempo», «Oggi» o «Epoca», è pur vero che il periodico, limitando il campo di osservazione ai fascicoli usciti tra il 1950 e il 1957, offre agli studiosi odierni un quadro ben assortito dell’intellettualità italiana anticomunista di quel particolare momento storico. In questo senso la riuscita del «Borghese» – allora poco evidente dato il sostanziale fallimento del tentativo di farsi modello di una classe dirigente sorda alle sue sollecitazioni – è sorprendente, soprattutto se si pensa alla penuria di collaboratori transitati sulle sue pagine nei sette anni e mezzo contraddistinti dalla direzione di Longanesi, acuita dall’ostracismo esercitato ai suoi danni dal mondo giornalistico più ortodosso <138: una penuria che, tuttavia, predispone la linea politica della testata – così poco frammentata da far apparire spesso difficile il corretto riconoscimento degli autori della miriade di contributi anonimi o celati dietro pseudonimo – alla possibilità di una valutazione di carattere complessivo.
Pare davvero arduo, in virtù di questa considerazione, poter quantificare il contributo di Ansaldo in questo nuovo progetto, sebbene di certo egli non possa non essere considerato come uno dei principali artefici del «Borghese», tanto nell’impostazione teorica quanto nella realizzazione pratica. La sua collaborazione si concretizzò, anzitutto, nella compilazione delle rubriche fisse concentrate nelle ultime pagine della rivista: a lui (con la partecipazione di Franco Grassi) era assegnata la ricerca dei “pezzi”, estrapolati da vari organi di stampa, inseriti nella rubrica “Giardino dei Supplizi”; a lui era affidata la redazione delle note, brevi o brevissime, raccolte nelle due pagine dedicate alla rubrica “Usi e Costumi” (una riproposizione del “Giro del Mondo” pubblicato sul «Libraio»), che ricostruivano episodi curiosi avvenuti nelle più svariate località straniere e tratti dalla lettura dei principali quotidiani esteri, dando vita a un notiziario così apprezzato che lo stesso Ansaldo ristamperà molti di questi brani in una analoga rubrica, intitolata “Giro del mondo”, uscita sul «Mattino» tra il dicembre 1954 e l’agosto 1957. Alle pagine dedicate agli “Usi e Costumi” cominciò a seguire, a partire dal 15 dicembre 1950, la rubrica, ancora in forma rigorosamente anonima, intitolata “Dizionario degli italiani illustri e meschini (Dal ’70 ad oggi)”, una raccolta di schede biografiche dedicate a personalità capaci, per le peculiarità delle loro esistenze, di rappresentare un piccolo tassello della storia del costume italiano tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Si trattava in realtà dell’esito definitivo di un vecchio e ambizioso piano di lavoro elaborato in previsione di una pubblicazione in volume per la casa editrice Longanesi già a partire dall’autunno del 1947, sul quale Ansaldo si era impegnato con una certa assiduità giovandosi del solo contributo dell’amico Luigi Pescetti per compiere la parte più consistente degli spogli sui repertori biografici esistenti <139. Terminata la prima serie alfabetica di oltre duemila nomi il 22 aprile 1955, poco meno di un mese dopo (sul n. 18 del 6 maggio 1955) cominciò, con il nuovo titolo “Dizionario degli italiani illustri e oscuri (Dal 1900 ad oggi)”, una nuova e ancor più sostanziosa serie di “voci” la cui pubblicazione sarebbe terminata soltanto il 4 agosto 1960, a due anni di distanza dalla sostanziale conclusione del rapporto di collaborazione tra Ansaldo e «il Borghese». A testimonianza del successo della rubrica, in grado di colmare un effettivo vuoto informativo sulle vicende di personaggi appartenuti a categorie sociali o a settori della vita pubblica generalmente poco esplorati, e, nel contempo, di illuminare particolari singolari o ignoti delle esistenze di personalità celebri, va ascritta la selezione antologica di questi profili curata da Marcello Staglieno ed edita con il titolo “Dizionario degli italiani illustri e meschini dal 1870 a oggi” presso Longanesi nel 1980, la prima pioneristica pubblicazione degli scritti di Ansaldo successiva alla morte, inserita addirittura, un po’ avventatamente, tra i repertori registrati nelle schede dell’«Archivio biografico italiano». Non mancavano infine, almeno fino al distacco di Longanesi dalla sua casa editrice, le recensioni ai volumi in uscita, segno più visibile della prosecuzione dell’incarico di “lettore” detenuto dal giornalista assieme a pochi altri collaboratori, come Pietro Gerbore, Antonietta Drago e Henry Furst, che tanta popolarità avevano riscosso facendo guadagnare, specie grazie alle loro riproposizioni seriali sui più periferici quotidiani di provincia (tra il 1948 e il 1950 se ne trovano esempi sulle terze pagine della «Gazzetta padana», della «Nuova Sardegna» e del «Secolo XIX»), sensibili aumenti nelle percentuali di vendita.
Se le citate rubriche coinvolgevano in forma apparentemente automatica le responsabilità di Ansaldo, ben più complicato si rivela cimentarsi nelle attribuzioni degli articoli veri e propri, tanto «il Borghese» si presenta come il prodotto finale di un lavoro collettivo amalgamato dal sapiente estro di Longanesi, il quale, riproponendo le pratiche con cui era solito applicarsi alle edizioni librarie, pur scrivendo relativamente poco in prima persona non mancava di far sentire la propria presenza in ogni singola pagina della rivista, mettendo mano a tutti i testi destinati alla pubblicazione. Si trattava tuttavia di pratiche consolidate che, a conti fatti, finivano per non indispettire nessuno: al di là dei collaboratori fissi come Giuseppe Prezzolini – che tuttavia, vista la sua residenza americana, influì poco sul profilo ideologico della rivista – Henry Furst, Guglielmo Peirce, Pietro Gerbore, Giovanni Artieri e di alcuni scrittori come Luigi Compagnone o Elena Canino, cooptati dal direttore del «Mattino» direttamente dalla realtà giornalistica napoletana, erano Longanesi, Ansaldo e Montanelli (presente soprattutto con gli pseudonimi «Antonio Siberia» e «Adolfo Coltano») a dettare la linea editoriale in modo pressoché univoco, al punto da redigere alcuni articoli a quattro o sei mani.
Per quanto concerne i criteri della presente ricerca bibliografica non è parso certo sufficiente, in un contesto così mimetizzato, confidare nella stabilità di pseudonimi collaudati e già presenti in precedenti pubblicazioni come Stefano Frati, Giorgio Bubani, Michele Fornaciari, Stellanera (per esteso), o limitarsi a registrare nuovi nomes de plume come Waverley, Carlo e Enzo Bacicia, Franco Dazzi, Marco Basso, anche perché alcuni di questi, come Andrea Vesalio e Carlo Laderchi, appaiono chiaramente utilizzati in condominio con altri collaboratori. Anche in considerazione della nutrita presenza di testi anonimi, non resta dunque che affidarsi a un’attenta lettura delle pagine del periodico alla ricerca di quegli elementi che consentano di compiere le attribuzioni degli articoli con un buon margine di sicurezza. Alla luce dello spoglio effettuato – che si è valso della consultazione della collezione personale del «Borghese» appartenuta al giornalista e delle preziose segnalazioni di Giovanni Battista Ansaldo – il complesso degli articoli stampati da Ansaldo sulla rivista appare sostanzialmente ripartito in tre grandi categorie: alcuni scritti, molta parte dei quali anonimi, sono frutto di una rielaborazione di pezzi già comparsi sulle pagine del «Lavoro» e riproposti da Longanesi per riempire spazi rimasti scoperti all’ultimo istante; vi sono poi numerose analisi dedicate alla storia italiana ed europea a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con particolare risalto alle vicende legate alla monarchia sabauda, agli uomini politici dell’Italia liberale e fascista, temi trattati con maggiore confidenza (e più ricchi di particolari autobiografici) con il loro progressivo avvicinarsi all’attualità: è in quest’ambito che Ansaldo dà forma compiuta all’utopia, condivisa con Longanesi, della restaurazione di un’ideale società ottocentesca, un sogno che non si limitava alla contemplazione dei fasti delle aristocrazie dei tempi antichi, ma che si diffondeva nella descrizione di una borghesia austera, sobria, parsimoniosa e lavoratrice esibita come inattingibile modello di fronte a quella
moderna, di cui si percepiva al contrario il carattere sguaiato e incolto, segno più evidente di una selezione della classe dirigente avvenuta non già sulle solide basi della tradizione familiare ma determinata dell’accumularsi improvviso di ricchezze guadagnate discutibilmente e spese in forme esibizioniste e ineleganti. In terzo luogo, il rapporto con l’attualità si declinava di conseguenza nelle modalità consuete del commento politico – e qui le punte polemiche di Ansaldo nei confronti della Democrazia Cristiana si facevano ovviamente più affilate di quanto gli fosse concesso sul «Mattino» -, ma si concentrava soprattutto in una feroce satira del costume italiano, nella quale la borghesia, in cui peraltro si collocava il non numerosissimo pubblico della rivista, lungi dall’essere blandita e difesa dall’emancipazione delle classi popolari, finiva per essere stigmatizzata in tutti gli aspetti deteriori che la modernità le aveva conferito, riassumibili nella viltà con cui questa rifiutava di incaricarsi delle responsabilità confacenti al proprio ruolo.
Il lungo percorso politico compiuto dalla Democrazia Cristiana negli anni Cinquanta (dai tentativi di alleanza con le destre in chiave anticomunista fino al graduale transito verso il centrosinistra) finirà tuttavia per modificare anche i sottili equilibri sottesi al mondo della stampa: dopo aver optato per il mantenimento di una posizione di netta autonomia, seppur mai esplicitamente neofascista di certo ferocemente ostile al comunismo, arrivando a ideare un foglio surrettiziamente socialista come «il Garofano Rosso», edito a Parigi da una fantomatica «Lega Internazionale per la difesa dei diritti dell’Uomo» tra il 1° giugno 1952 e il 1° marzo 1953, ma in realtà realizzato nell’ufficio milanese di via Borghetto 5 grazie al finanziamento di Enrico Mattei, con l’onnipresente collaborazione di Ansaldo e, come ha svelato Raffaele Liucci, di Giorgio Torelli e di Gaetano Afeltra <140, Longanesi si spinse fino a promuovere la fondazione di un movimento politico, la «Lega Fratelli d’Italia» – inaugurata al Teatro Odeon di Milano il 12 giugno 1955 in una memorabile assemblea nella quale il direttore del «Borghese» arringò i rappresentanti dei «Circoli» sorti nelle settimane precedenti attorno alla rivista -, nel momento in cui comprese che la morte di Alcide De Gasperi nell’agosto 1954 aveva determinato un deciso slittamento a sinistra dell’asse politico del principale partito italiano, scontentando e privando di rappresentanza quel blocco conservatore, nel quale egli stesso si riconosceva accanto alla maggioranza dei suoi lettori, favorevole a un’alleanza di governo che includesse monarchici e missini.
Il tentativo si rivelò naturalmente velleitario, e anzi Longanesi, che pure andava prendendo quelle iniziative in forma del tutto istintiva e senza concrete aspirazioni parlamentari, pagò la strumentalizzazione esercitata su di lui dalle forze di destra, alla quale contribuirono non poco i nuovi ingressi di giornalisti esplicitamente politicizzati come Mario Tedeschi, responsabile della redazione romana (e poi senatore del M.S.I. tra il 1972 e il 1979) e Gianna Preda, che acquisirono un grande peso nell’economia del periodico, prendendone in mano le redini alla morte del suo fondatore – Tedeschi ne sarà direttore dal 1957 fino alla morte nel 1993 – per farne un foglio apertamente schierato con i partiti neofascisti. L’infittirsi delle incrinature tra la compagine governativa e «il Borghese» fu probabilmente alla base della manovra finanziaria che, all’inizio del 1956, costrinse l’editore romagnolo ad abbandonare la casa editrice nelle mani di Giovanni Monti (tra l’altro poco soddisfatto del ruolo subalterno cui Longanesi costringeva il figlio Mario), accollandosi da solo la gestione amministrativa della rivista <141: una decisione presa per orgoglio ma che rese senz’altro più amari i due ultimi anni della sua vita.
L’arco cronologico nel quale il «Borghese» viveva la sua stagione più fortunata – se non per i numeri delle vendite, certamente per la qualità dei suoi contenuti – veniva tra l’altro a coincidere con precisione sul palcoscenico napoletano con l’apogeo dell’impero di Achille Lauro, sindaco del capoluogo campano tra il 9 luglio 1952 e il 19 dicembre 1957: è a Napoli che la Democrazia Cristiana definisce i suoi rapporti con la destra italiana, venendo dapprima a patti con uno dei suoi esponenti più popolari e liquidandolo nel momento in cui la sua epopea appariva matura per giungere al termine, in concomitanza con l’assunzione di scelte politiche sul piano nazionale meno disponibili a un rapporto di contiguità con i movimenti monarchici e neofascisti. La presenza di un quotidiano come «Il Mattino» e di un personalità giornalistica come quella di Ansaldo era dunque in quegli anni un elemento fondamentale nello scacchiere campano per blandire, contenere e talvolta contrastare apertamente, l’operato del «Comandante» all’interno di un feudo elettorale in apparenza inattaccabile in virtù del fitto groviglio clientelare, creato attorno alle istituzioni pubbliche locali, e del consenso popolare garantito all’armatore dalla proprietà del «Roma» e della squadra di calcio del Napoli (di cui fu presidente dal 1936 al 1940 e dal 1952 al 1963).
Tanto più sorprendente appare dunque, in un contesto di così schiacciante sproporzione di mezzi, il rilevante successo del «Mattino», che dopo un inizio difficile e stentato si avviò verso una rapida ascesa grazie all’arrivo di Egidio Stagno. Originario di Taranto, dove era nato nel 1911, Stagno si era avvicinato al giornalismo fondando nella città natale il «Corriere del Giorno» e nel dicembre 1951 era stato chiamato dal presidente della C.E.N., Enzo Bevilacqua, per ricoprire l’incarico di amministratore delegato della nuova società editrice del quotidiano. A partire da un drastico ridimensionamento del personale di redazione, amministrazione e tipografia, in precedenza soprannumerario e spesso inidoneo a compiere gli incarichi a ciascuno affidati, Stagno elaborò un vasto piano di rinnovamento degli impianti e adottò strategie di gestione delle risorse capaci di determinare un progressivo decremento del deficit di bilancio (da 230 milioni di lire del 1951 si passò a 117 milioni nel 1952 e a 79 milioni nel 1953) favorito dall’aumento delle entrate pubblicitarie (da 250 milioni del 1951 a 365 milioni del 1953) e dal raddoppio del numero degli abbonati, innescando un percorso virtuoso che avrebbe portato nel giro di soli sei anni a un aumento delle vendite vicino al 100% in quasi tutte le aree di distribuzione <142.
Le innovazioni tecniche apportate in ragione di una situazione finanziaria finalmente sostenibile, offrirono l’opportunità di stampare un giornale più razionale e appetibile facendo risaltare con maggiore evidenza i contenuti, migliorati in qualità e ampliati in proporzione al costante aumento del numero di pagine. Ansaldo aveva poi acquisito la dovuta dimestichezza con il pubblico ed era ormai diventato un personaggio noto e amato, a dispetto del suo carattere così distante dall’indole napoletana. Gli atteggiamenti di affetto paternalistico e nel contempo di signorile distacco, l’incedere imponente e i modi cortesi, la scelta di dimorare stabilmente, dopo alcuni mesi passati come ospite presso l’abitazione dell’amico libraio Gaspare Casella al Calascione (una sistemazione che aveva dato corso a una curiosa vertenza giudiziaria con Curzio Malaparte <143), in un prestigioso (e assai costoso) appartamento all’ultimo piano di Palazzo Cellammare, avevano ormai creato attorno alla sua figura un’aura di rispetto difficile da scalfire, nonostante egli non avesse mai risparmiato le sue critiche a un uomo dalla popolarità così radicata come Achille Lauro. Condotta con impegno la campagna elettorale per le elezioni amministrative del 25 maggio 1952 al fianco della Democrazia Cristiana, Ansaldo riconoscerà lealmente lo straripante successo della lista monarchica (29,5% dei voti) che con l’appoggio del M.S.I. (11,8%) si guadagnava la maggioranza assoluta nel consiglio comunale.
[…] Ragioni politiche e giornalistiche si fondevano dunque nell’aperta battaglia concorrenziale combattuta negli anni Cinquanta tra «Il Mattino» e il «Roma»: còlta la peculiarità del consenso di Lauro, e conseguentemente dei lettori del quotidiano di sua proprietà, la direzione dell’Angiporto Galleria si sforzò di mettere in campo iniziative più vicine ai sentimenti popolari come “Bontà di Napoli”, una sottoscrizione aperta in prossimità del Natale (e per la prima volta nel 1956), destinata a raccogliere fondi per i più bisognosi, e di approfondire maggiormente le cronache sportive, promuovendo la pubblicazione di un ricco inserto del lunedì stampato su carta rosa e l’organizzazione di eventi ciclistici come il Giro della Campania. Per i lettori più smaliziati a fare la differenza contribuiva poi il più ampio respiro nazionale e internazionale conferito da Ansaldo alla prima pagina del «Mattino», frutto di una propensione informativa meno influenzata dalle esigenze propagandistiche proprie del «Roma». Non per nulla negli anni Cinquanta gli editoriali di Ansaldo riscuotevano l’approvazione di numerose testate provinciali, che li riproponevano a pochi giorni di distanza dall’uscita sul «Mattino» inaugurando lunghi rapporti di collaborazione che, per quanto in apparenza poco significativi e ancor meno remunerativi per il suo autore (il quale spesso riceveva compensi del tutto simbolici), favorirono una capillare diffusione della sua firma in varie regioni italiane, consacrando il prestigio di un giornalista la cui fortuna appare troppo spesso limitata al suo rapporto con uno specifico ambito locale: la regolare comparsa dei suoi scritti su quotidiani quali «La Provincia» di Como (dal 1951 al 1969), «Il Piccolo» di Trieste (dal 1955 – anno della ripresa del giornale sotto la direzione di Chino Alessi, figlio di Rino – al 1966), «Il Tirreno»-«Il Telegrafo» (dal 1957 al 1963, sotto le direzioni di Vincenzo Greco e Lucio De Caro), o il «Giornale del Popolo»-«Giornale di Bergamo» (dal 1962 al 1969) spiega invece concretamente l’assoluta considerazione di cui Ansaldo godette all’apice della sua carriera.
Fu soprattutto a partire dall’ascesa alla Presidenza della Repubblica di Giovanni Gronchi, inizialmente accolta con scarso entusiasmo per il decisivo contributo di voti socialisti e comunisti alla sua elezione del 29 aprile 1955, che Ansaldo spostò più al centro l’asse della linea politica del «Mattino», tenendo a distanza le pretese dei partiti di sinistra di esercitare la loro pressione nei confronti del Quirinale, ma riconoscendo al vecchio militante del Partito
Popolare – con il quale, come ha sottolineato Gianfranco Merli, intercorreva una identità generazionale e una sintonia culturale capace di sovrastare le differenti estrazioni sociali e le lampanti divergenze politiche <145 – una dirittura morale assai rara nel panorama politico del tempo. Durante il suo settennato Ansaldo seguirà spesso le visite del Capo dello Stato nelle principali città italiane, testimoniando le manifestazioni di simpatia e approvazione riscosse presso le masse popolari, non mancando di accompagnarlo anche in alcuni viaggi all’estero, in particolare in Iran (settembre 1957), in Turchia (novembre 1957) e in Russia (febbraio 1960), considerati (al pari delle molte altre visite compiute da Gronchi) appuntamenti determinanti per restituire all’Italia un prestigio commisurato alla sua storia e per aiutarla a emanciparsi dalla condizione di totale subordinazione venutasi a stabilire negli sviluppi della politica estera dell’immediato dopoguerra. In quei frangenti Ansaldo si dimostrava un commentatore di rilievo nell’analisi delle vicende internazionali, descritte in conformità con un orientamento più che filoamericano decisamente anticomunista (si vedano a questo proposito i lucidissimi editoriali pubblicati in occasione della invasione sovietica dell’Ungheria nell’ottobre 1956, còlta per il suo carattere di rivoluzione “popolare” sebbene letta tra le righe della polemica interna contro il Partito Comunista e contro gli organi di stampa che a questo facevano capo), ma giudicate con obiettività, nella prospettiva della necessità di un dialogo, condotto con fermezza ma con altrettanta costanza, tra le principali potenze mondiali; sarà questo un percorso che lo porterà a spendere parole rispettose anche nei confronti delle maggiori personalità del mondo comunista, alle quali non lesinerà l’onore delle armi (le riflessioni suscitate dalla morte di Stalin, in un articolo che gli valse un elogio di Alberto Mondadori, si sarebbero ripetute undici anni più tardi per la scomparsa di Togliatti <146), e a tenere in grande considerazione le rivendicazioni delle nazioni emergenti impegnate nella lotta per l’emancipazione (tanto da pronunciarsi, ad esempio, a favore del movimento per l’indipendenza della Tunisia guidato da Habib Bourguiba, e da condannare, allo stesso modo, l’attacco delle forze franco-inglesi a Nasser nel novembre 1956). Si trattava di impressioni scaturite da una lunga conoscenza delle popolazioni e dei governi internazionali, suffragate dalle informazioni dirette raccolte in gioventù che proprio in quegli anni avevano modo di aggiornarsi negli ulteriori e numerosissimi viaggi all’estero compiuti tra il 1954 e il 1960, raccontati negli approfonditi reportages pubblicati sul «Mattino» (che Giuseppe Marcenaro ha recentemente raccolto nelle “Stenografie di viaggio” <147), e in lunghi articoli pubblicati sull’«Illustrazione italiana» con il corredo di ampi servizi fotografici.
[NOTE]
132 Anni freddi, cit., pp. 412-414.
133 Sull’esperienza di Ansaldo al «Mattino» segnalo il lungo scritto di Arturo Fratta uscito in sei puntate sul quotidiano napoletano (Giornalista per scelta di vita, in «Il Mattino», XCIX, 59, 2 marzo 1990, p. 12; Primo: rinnovare l’azienda, in «Il Mattino», XCIX, 60, 3 marzo 1990, p. 12; Una finestra aperta sul mondo, in «Il Mattino», XCIX, 61, 4 marzo 1990, p. 15; A Lauro disse tre volte «no», in «Il Mattino», XCIX, 66, 9 marzo 1990, p. 17; Da Scarfoglio alla U.S.L. 37, in «Il Mattino», XCIX, 67, 10 marzo 1990, p. 13; Al Chiatamone con nostalgia, in «Il Mattino», XCIX, 68, 11 marzo 1990, p. 15), poi raccolte in volume, con il titolo Il Mattino di Ansaldo, prefazione di Pasquale Nonno, Sorrento-Napoli, Di Mauro, 1991 (dal quale d’ora innanzi si traggono le citazioni), e il capitolo XVI, intitolato “Il Mattino” di Ansaldo e il mito della Galleria, in Piero Antonio Toma, Giornali e giornalisti a Napoli 1799-1999, introduzioni di Antonio Ghirelli e Ermanno Corsi, Napoli, Grimaldi & C., 1999, pp. 221-248. Si veda inoltre, per un bilancio complessivo sui cent’anni di vita del giornale, Il Mattino 1892-1992, supplemento a «Il Mattino del lunedì», CI, 74, 16 marzo 1992.
134 Tutta informata da questo principio è la relazione sul tema “Il giornalismo moderno” che Ansaldo tenne al «Circolo Amici dell’arte e della cultura» presso l’Open Gate di Roma il 26 marzo 1952: «Sotto la sferza delle necessità, l’ambizione di arrivare a tirature sempre più vaste, la tendenza del giornalismo moderno è, in generale, quella di seguire l’inclinazione, di seguire la corrente; anzi, quasi quasi di precederla, di anticiparla, di fare un adattamento sempre più completo. […] Oggi in tutto il mondo ci sono giornali i quali assumono il compito di battere la radio e il cinematografo, puntando decisamente sulla nuova sensibilità del pubblico, che è radiofonica e cinematografica. […] La tecnica di questi giornali mira ad eliminare tutto ciò che costituiva la caratteristica e l’ornamento del giornalismo d’un tempo; mira ad eliminare tutto ciò che punta, invece, sulle capacità del lettore di leggere, di ricordare, di ragionare, tutto ciò che piaceva al vecchio pubblico. Quindi, via tutto quello che può impegnare più o meno fortemente il pensiero, via tutto quello che può disturbare la pacifica siesta mentale, via le parole non diciamo raffinate – che le parole raffinate i giornalisti non le conoscono – le parole difficili; testi ridottissimi; quel poco, ridotto col più assoluto schematismo di concetto e di parole. Al posto del testo, illustrazioni, quanto più possibile illustrazioni. […] E mi rendo conto, vedo la necessità, di cercare di far passare in prima pagina quanto più sia possibile di cronaca, di sport anche; vedo la necessità di fare della prima pagina, più che è possibile, un quadro rapido, panoramico della situazione davanti al nuovo pubblico. Vedo la necessità di cercare di agganciare l’attenzione di questo pubblico con l’impiego il più largo possibile di foto, telefoto, sperando che la visione delle figure lo renda più docile al nostro invito. Vedo la necessità di usare tutti gli artifizi, tutti gli espedienti suggeriti dall’esperienza per raggiungere una tiratura sempre più alta. Ma non vedo la necessità, ostinatamente non vedo la necessità, di ridurre il mio giornale ad un campionario di fotografie piccanti o indiscrete; non vedo la necessità di ridurre il mio giornale ad un pourpourì di fattarelli cercati, redatti, composti, ornati, rimpennacchiati unicamente al fine di lusingare, di compiacere l’attenzione della mia stiratrice e della mia lavandaia. […] e soprattutto non vedo, ostinatamente non vedo, la necessità di rinunciare a quella che è stata la gloria, la caratteristica del giornalismo italiano […] di rinunciare cioè alla caratteristica di fare un’opinione, un pensiero, un giudizio, una previsione ragionata» (il dattiloscritto della conferenza, a oggi inedito, mi è stato gentilmente fornito da Giovanni Battista Ansaldo).
135 Così si esprimeva Ansaldo in occasione del centenario della nascita dello scrittore di origine abruzzese: «Ogni grande giornale, di solito, si riattacca alla iniziativa di un uomo, il quale o lo fondò, o gli conferì coi suoi scritti celebrità, o gli impresse con la sua attività slancio e diffusione. […] Ora, questa specie di legge del giornalismo per nessun caso si fa sentire così viva, come nel caso del Mattino, perché in nessun caso la identificazione tra l’uomo e il giornale fu, nella sensibilità del pubblico, così completa. Il Mattino fu di Scarfoglio, materialmente, legalmente, nei lunghi venticinque anni in cui egli, dopo averlo fondato, lo diresse, e più propriamente lo animò del suo spirito; e il Mattino è di Scarfoglio ancora oggi in forza di quella specie di legge, che vorremmo dire di proprietà morale» (Giovanni Ansaldo, Scarfoglio: cento anni, in «Il Mattino», LXIII, 272, 29 settembre 1960, pp. 1-2).
136 Il curioso episodio è narrato da Arturo Fratta, che trascrive alcuni stralci di una lettera indirizzata da Ansaldo a Bevilacqua, allorché in una pubblica relazione quest’ultimo aveva lamentato la scarsa prolificità del direttore del «Mattino» negando l’accostamento tra lui e Scarfoglio: «Il raccostamento e il raffronto con un atleta del giornalismo quale fu Edoardo Scarfoglio è un onore cui io non ho mai preteso, che mi ha anzi ispirato un giusto terrore; e la prego di credere che in questi decorsi mesi non mi sono mai lasciato indurre in tentazione dagli amici troppo benevoli o dai lettori troppo ingenui i quali mi hanno più volte assicurato, e hanno più volte stampato, che di Scarfoglio io ero un degno successore. Tanto più quindi l’udire questo raccostamento fatto da lei, e fatto col solo proposito di dimostrare che io sono troppo inferiore al fondatore del Mattino al solo fine di diminuire l’opera mia, le confesso che mi ha doluto. Ma più grave ancora è la doglianza che io ritengo in diritto di muovere, per il suo rimarco, non essendo gli articoli miei – direttoriali e editoriali – abbastanza frequenti. Qui, mi consenta di dirle, ella è occorsa in un’affermazione così palesemente inesatta, che a ripeterla fuor del cerchio di uomini d’affari in cui fu pronunciata, a ripeterla, dico, in qualunque redazione di giornale, susciterebbe commenti sul cui tono non indugio» (Arturo Fratta, Il Mattino di Ansaldo, cit., pp. 44-45).
137 La pubblicazione dell’articolo (La proposta Scelba, in «Il Mattino», LIII, 202, 12 novembre 1950, p. 1) suscitò una vasta eco negli ambienti parlamentari democristiani, come si legge in una lettera inviata da Ansaldo a Massimo Caputo, allora direttore della «Gazzetta del Popolo», il 18 novembre 1950: «La pubblicazione del mio articolo venne a coincidere con una titolazione eccessivamente pro-missina del “Corriere di Napoli”. Ciò suscitò le ire di Scelba. Il quale mandò a convocare Vanzi, presidente del Banco di Napoli, e gli chiese ragioni del come un giornale “governativo” (sic) osasse criticare un provvedimento da lui proposto. Non so esattamente che cosa abbia risposto il Vanzi; avrà, suppongo, risposto che “Il Mattino” e il “Corriere di Napoli” non dipendono dal Banco, ma dalla S.E.M. Fatto sta che giovedì scorso partì da Roma per Napoli l’on. Arcaini, latore delle espressioni di riprovazione e di minaccia dell’on. ministro. […] Purtroppo, come ho detto, io non c’ero, e quindi mi tocca scrivergli il mio pensiero, che è questo: io sono libero di dirigere il giornale come credo, e di pubblicare ciò che voglio, nei termini degli accordi intercorsi tra me e la S.E.M., nell’aprile scorso; che ogni contestazione sull’argomento delle direttive del giornale, cioè del mantenimento, da parte mia, di quell’accordo, dev’essermi rivolta unicamente dal Comitato Esecutivo della C.E.N., collegialmente riunito; e che mi rifiuto di ricevere direttive da altri» (Diario napoletano del 1950, cit., p. 118).
138 Decisamente poco gradito alle istituzioni politiche di governo, «il Borghese» subì l’ostracismo degli organi di stampa “politicamente corretti”, che si attivarono immediatamente per impedire ai propri collaboratori di pubblicare i loro scritti anche sulla rivista diretta da Longanesi. Il primo a reagire fu il «Corriere della Sera», chiedendo a Montanelli e a Gaetano Baldacci di astenersi dalla collaborazione, come si legge in una lettera di Longanesi a Ansaldo del 13 aprile 1950: «Il Corriere ha imposto a Montanelli e Baldacci di non scrivere più sul Borghese perché il giornale è di tendenza antidemocratica […]. Tutte sciocchezze, ma che hanno il loro peso. Non si vuole che la gente ci legga: è una questione di concorrenza, non di liberalismo. Fatto sta che la sua nomina a direttore del Mattino ha riversato sul Borghese l’ira di questi quattro cialtroni. Per fortuna Montanelli scriverà sotto falso nome, altrimenti non saprei come riempire il giornale» (Diario napoletano del 1950, cit., p. 93). Anche Giovanni Spadolini, che con Longanesi aveva pubblicato proprio all’inizio del 1950 Il papato socialista, uno dei libri fondamentali di quella stagione storico-politica, fu presto costretto ad abbandonare «il Borghese», data l’incompatibilità della sua collaborazione con quella prestata al «Mondo» di Mario Pannunzio (si veda in proposito la lettera di Spadolini a Longanesi del 12 maggio 1950, trascritta da Ansaldo in data 18 maggio 1950, ed edita alle pp. 97-98 del citato Diario napoletano del 1950; sul rapporto tra Ansaldo e Spadolini, senza dubbio il più stimato tra i giovani intellettuali dell’epoca, si veda il saggio di Arturo Fratta, Ansaldo e Spadolini un’amicizia incompiuta, in «Nuova Antologia», CXXXVII, 2221, gennaio-marzo 2002, pp. 232-247).
139 Del progetto si trova traccia già in un’annotazione diaristica del 20 settembre 1947: «Andrò a Milano, per discutere a fondo con Longanesi […] del Dizionario. Io vi ho dedicato una quindicina di giorni ed ora vedo meglio la complessità del lavoro. Ho capito che per far bene, bisogna che lo scriva tutto io. Ma bisogna che Longanesi allarghi i cordoni della borsa e spenda qualche migliaio di lire per dizionari» (Anni freddi, cit., p. 181); e, ancora più concretamente, il 16 ottobre 1947: «Porto le schede del Dizionario a Longanesi che resta soddisfattissimo. Credo non si attendesse tanto. Mi ha incitato a proseguire, promettendomi da parte sua aiuti bibliografici, collaboratori, eccetera. La vista delle schedine certo lo ha rinfocolato più che mai; egli vede già il nuovo volume, grosso e rilegato. L’ho dovuto richiamare alla realtà, spiegandogli la difficoltà dell’impresa. Capisco anch’io che, a poter redigere tutto il Dizionario sul tono con cui ho redatto queste prime centinaia di schede, si avrebbe un lavoro singolarissimo; ma le schede che io ho messo giù sono poche centinaia e il Dizionario dovrebbe essere di quindicimila» (pp. 186-187). Fu probabilmente la mole di schede preparate da Ansaldo, difficile da collocare interamente all’interno di un unico volume, a far differire la stesura del lavoro in previsione della pubblicazione a puntate sul «Borghese».
140 Per la ricostruzione delle vicende legate al «Garofano Rosso», rotocalco di 8 pagine stampato in circa 40.000 copie e distribuito gratuitamente agli operai per appoggiare le rivendicazioni delle masse popolari in chiave anticomunista, Liucci si serve di una testimonianza orale di Gaetano Afeltra (Raffaele Liucci, L’Italia borghese di Longanesi. Giornalismo politica e costume negli anni ’50, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 111-112). Sulla storia del periodico si sofferma più diffusamente Pietro Albonetti, Una linea per dieci testate, cit., pp. 51-53.
141 Lo rivela Ansaldo in una lettera inviata a Giuseppe Prezzolini il 19 agosto 1956 che chiarisce le vere ragioni della dissociazione: «Non si tratta di risse in famiglia; si tratta di peggio. Gronchi ce l’ha a morte con il “Borghese”. Me l’ha fatto chiaramente capire anche a me. Egli quindi per far tacere il “Borghese”, ed evirarlo e farlo cantare come un cantore della Sistina, fece preparare da [un] socio di Monti […] una manovra finanziaria per cui L[onganesi] sarebbe stato privato di quella libertà di gomiti che ha attualmente. Longanesi si sottrasse per tempo alla minaccia, trovò un po’ di soldi a Roma (credo presso la Confindustria) e prese il “B[orghese]” tutto sulle proprie spalle: il “B[orghese]” soltanto, non la Casa Editrice. […] Tu continua a collaborare come continuo io. Per me il rischio è molto maggiore; ma non pianto Longanesi» (Raffaele Liucci, L’Italia borghese di Longanesi, cit., p. 119 nota 99).
142 A tal proposito Arturo Fratta riporta i dati emersi da una relazione di Stagno del 1958 nella quale figurano le esatte percentuali degli aumenti di vendita avvenute negli anni del suo mandato: 84% a Napoli e provincia, 99% a Benevento, 101% a Caserta, 109% ad Avellino, 126% a Salerno, 76% nelle altre regioni, con un aumento complessivo dei ricavi pubblicitari da 250 milioni a 664 milioni di lire (Arturo Fratta, Il Mattino di Ansaldo, cit., p. 46).
143 Saltuario ospite della casa di Casella dal 1944, Malaparte citò in giudizio il direttore del «Mattino», suscitando l’ilarità dell’intero mondo giornalistico, per rivendicare la proprietà del letto che aveva provveduto ad allestire comprando materasso e corredo, e che era stato abusivamente occupato da Ansaldo al momento del suo arrivo a Napoli. Della vicenda ha fornito un’ironica descrizione Marcello Staglieno, Il letto di Malaparte, in «Millelibri», II, 3, febbraio 1988, pp. 52-55.
145 Gianfranco Merli, Ricordo di un amico, in Ansaldo e Livorno, cit., pp. 13-24.
146 Il lunghissimo articolo che commemora Stalin fu pubblicato, con il titolo La statura dell’uomo, in «Il Mattino», LVI, 65, 6 marzo 1953, p. 1; la lettera di Alberto Mondadori a Ansaldo in data 17 marzo 1953 è edita in Alberto Mondadori, Lettere di una vita 1922-1975, a cura e con un saggio introduttivo di Gian Carlo Ferretti, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 433-434. La morte di Togliatti a Yalta fu invece annunciata nell’editoriale L’ultimo segreto, in «Il Mattino», LXXIII, 221, 22 agosto 1964, p. 1.
147 Giovanni Ansaldo, Stenografie di viaggio, prefazione di Giuseppe Marcenaro, Torino, Aragno, 2008; il volume contiene le annotazioni diaristiche relative ai viaggi in Egitto (dal 1° al 28 dicembre 1951), in Germania (dal 18 luglio al 30 luglio 1954), negli Stati Uniti (dal 23 ottobre al 24 novembre 1954), in Portogallo (dal 1° al 19 febbraio 1955), in India (dal 3 al 17 marzo 1959), in Russia (dal 3 all’11 febbraio 1960), e in Inghilterra (dal 18 maggio al 2 giugno 1960), oltre alla trascrizione di molte delle corrispondenze inviate a Napoli.
Diego Divano, Bibliografia degli scritti di Giovanni Ansaldo (1913-2012), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2010/2011

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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