“Biglietto di Terza” si muove fra finzione narrativa e memoria autobiografica

Nel 1953, Giose Rimanelli, invitato dalla madre a trascorrere le vacanze natalizie a Montreal, si imbarca su un piroscafo da Napoli alla volta del Canada. “Biglietto di Terza”, scritto nel 1954, è il resoconto e il memoriale di questo viaggio in terra canadese. È stato pubblicato nel 1958 nella Collezione dell’Arcobaleno dalle Officine Grafiche Arnoldo Mondadori di Verona ed è il terzo titolo pubblicato da Mondadori (oltre a “Tiro al piccione” e “Peccato Originale”), e il primo libro in cui compare l’ambientazione nordamericana. Nel 1999 è stato ripubblicato dalle edizioni Soleil di New York. Quest’ultima edizione contiene lo stesso testo edito da Mondadori, ma con un’introduzione che l’autore scrisse nel 1997.
“Biglietto di Terza” si muove fra finzione narrativa e memoria autobiografica e non segue la struttura tradizionale del romanzo. Impressioni di viaggio, cronache, saggi e racconti sono raccolti in trentasette brevi capitoli, il cui filo conduttore è la ricerca di un posto dove mettere radici e con cui identificarsi. Rimanelli si è chiesto se i dieci mesi trascorsi in Canada non fossero effettivamente pochi per formulare una valutazione di questo paese di singolare complessità, ammettendo di essersi lasciato trascinare più da osservazioni di gusto letterario che da studioso scientifico. Sheryl Lynn Postman in “Voyage of the mind as “diversivo” trough Giose Rimanelli’s Biglietto di Terza” sottolinea il carattere autobiografico delle opere di Rimanelli come scrittore; cosa questa evidenziata anche da ciò che lo stesso Rimanelli ha scritto per la Rivista di Studi Italiani nel 1984
[…] L’Autore definisce questo memoriale di viaggio un suo diversivo essendo egli viaggiatore, osservatore di caratteri e ambienti, acuto analista delle cose degli uomini e, soprattutto, del sentimento degli uomini. La voce parlante del romanzo è in prima persona e rappresenta lo scrittore stesso.
Così ha inizio “Biglietto di Terza”: “Sulla rotta degli emigranti mia madre è tornata nel suo paese. Vi è tornata portandosi il materasso, i piatti e i bicchieri, un ritratto del padre morto, figli e il marito. Settemila chilometri di mare. <49 Nessuna vera allegrezza, tuttavia, sui volti dei miei compagni, ché la neve fuori, oltre i vetri, e il crepuscolo già fitto, toglievano loro ogni sensuale piacere, e il viaggio, per tutta questa notte e per tutto il giorno successivo, assunse il sapore di una traversata dell’oceano dentro una bottiglia” <50.
Davanti agli occhi del protagonista-visitatore-viaggiatore si apre l’immensità geografica del Canada imbiancato di neve. Una tale immensità e il senso di sbigottimento che esso provoca si desume dal colloquio fra un viaggiatore-immigrato e un ferroviere. “Quando arriviamo? Domani forse, dopodomani. Quanto è grande il Canadà? L’altro fece un grande gesto con la mano (…)” <51.
Rimanelli descrive il viaggio in treno Canadian Pacific verso Montreal, dopo lo sbarco ad Halifax, vagone dopo vagone, veduta dopo veduta, congiunzione dopo congiunzione: “Qui l’aria violentemente veniva a gelarti il volto, entrando dalle connessure, e qui anche i ferrovieri, bardati come minatori e con la lampadina elettrica sul petto, sostavano a chiacchierare in attesa del nuovo villaggio ove, prima che ferraglia stridessero, aprivano la porta e saltavano fuori (…). Ad una stazioncina saltò sui vagoni una mamma calabrese secca e scura e alta e vigorosa di forse cinquant’anni (…). Nel nostro vagone giunse il suo grido, prima di lei; disumano stridente e nello stesso tempo pieno di una inesauribile maternità (…) la gente si schiacciò contro le pareti del carro, e fece largo alla mamma calabrese che, in preda a una frenesia che non udiva (…) ripeté il suo grido. «Calmatevi, chi cercate?» «Pasqualì. Avete visto Pasqualì?» .(…) «Mio figlio cerco, Pasqualuccio mio. Non l’avete visto? (…) doveva arrivare con questo treno…». «Ma perché lo venite a cercare? Saprà che deve scendere a questa stazione». E lei quasi con rancore: «Sicuro, lo sa. Ma è notte, è notte» disse «Di notte non si riconoscono i segnali e Pasquale non capisce ‘u francise». Quando il treno ripartì vidi ancora la donna circondata da parenti, ferma nel freddo della stazioncina presso i binari, (…) che guardava i vagoni scorrere, il suo Pasquale non l’aveva trovato, ma forse non era con noi. «Un italiano», dice allora uno «sa lo stesso quando e dove deve scendere, anche se non capisce ‘u francese»” <52.
La scena degli immigranti sul treno, che attraversa il Canada (mostro gigantesco, come immobile, sprofondato nel bianco perenne della neve) rappresenta il passato, cioè la memoria, il presente e il futuro. La memoria: persone e cose che si sono lasciate, il presente: cose e persone verso cui si va incontro e, infine, il futuro, cioè l’incontro con il paese nuovo. Il treno è il simbolo per eccellenza di questo procedere, “Il treno, che intanto s’era fatto del color bianco della neve” <53, che viaggia all’infinito e nell’infinito del Canada stesso. Il viaggio, che il personaggio principale farà nell’UP NORTH, sottolineerà la vastità sterminata di questo paese e il senso di straniamento che ne deriva.
Il senso di alienazione nei rapporti interpersonali si evidenzia dal confronto-scontro linguistico: l’inglese, il francese, l’italiano e il dialetto degli immigrati. Nella stessa famiglia del protagonista il fratello Antonio parla
francese, il fratello Gino inglese e la madre, che fa da ponte fra i due, parla l’italiano e il dialetto molisano oltre all’inglese. Nel capitolo “I due fratelli” <54 il protagonista, appena arrivato alla stazione di Montreal, è accolto dai due fratelli: Antonio e Gino. Ed è subito Gino a ricordargli che: “«Facchini? E che sei pazzo? Un facchino, da qui all’uscita, vale minimo cinque dollari, tremiladuecentocinquanta lire, e se incominci a seminare i soldi che ancora, si può dire, scendi dal treno, stai fresco. Qua i soldi si sudano e si mettono in banca. Non si regalano, impara». (…) Il ragazzo che avevo abbracciato l’ultima volta al molo di Napoli, cinque anni prima, non esisteva più. (…) «Ragazzi, ma che succede?» chiesi sbalordito. Uno parlava in inglese e l’altro rispondeva in francese. Entrambi erano in grado di intendere le due lingue; mi parve tuttavia evidente, da questo primo incontro, che i due fratelli vivessero in continua polemica. Infatti il più giovane s’era fatta un’educazione inglese, gusto, lingua e un discreto disprezzo per i francesi; Antonio un’educazione francese, gusto, lingua e un discreto disprezzo per gli inglesi. E fra loro raramente parlavano italiano e, sempre per polemica e puntiglio, uno interrogava in inglese e l’altro rispondeva in francese. Forse per tener salde le loro rispettive conquiste in terra canadese”.
I fratelli rappresentano, ormai, due mondi lontani, non soltanto, quindi, due lingue diverse, ma sicuramente valori diversi dove l’antica unione familiare non ha più posto. Prevale l’interesse economico, che la nuova società in cui si trovano a vivere, considera di primaria importanza per il raggiungimento di uno status sociale, e che, ormai, permea anche i rapporti familiari e interpersonali più stretti. Ed ecco la meraviglia-stupore dell’Io narrante che non ritrova più, nel ricordo lontano, i fratelli che ora ha davanti. Essi sono altro, ormai, e presi da altro.
Il tempo e la lontananza possono dividere anche i fratelli. Non per lo scrittore che dedicherà loro ancora due capitoli: “L’America di Antonio” <55 e “L’America di Gino”, <56 dove si divertirà a ritrarli nelle varie vicissitudini personali nel nuovo mondo. Tutto ciò viene registrato dalla mente dello scrittore, con sofferenza, sicuramente, ma anche con una sottile vena umoristica che l’aiuterà a superare la propria personale “solitudine”. Ed eccolo presto affrontare le impressioni e le necessità del nuovo paese in cui si trova: “Corremmo fino a casa sul ghiaccio delle strade. Pareva festa per via di tutte quelle rutilanti luci e le squadre di uomini che spalavano la neve. La maniera che i cittadini adottano per sbarazzarsi della neve è impressionante. Quando la neve viene, e viene come lava, come cateratta, a valanghe impossibili, tutta la città si mette in allarme, come per scongiurare una disgrazia, un terremoto, un’alluvione, e riversa sulle strade un’attrezzatura di soccorso simile a quella riservata per i grandi incendi: macchine d’ogni grandezza e tipo, macchine e autocarri, ancora macchine trattori e diavolerie meccaniche. Macchine, macchine, macchine e pochissimi uomini, i conduttori delle macchine. In una notte la città è pulita come in estate”. <57
Il protagonista è sorpreso dall’efficienza del nuovo paese e dalla capacità di poter fronteggiare ogni evenienza meteorologica, grazie alle attrezzature all’avanguardia e alla disponibilità economica del governo canadese. I servizi, che vengono offerti alla cittadinanza, hanno un prezzo elevato, in particolare per quanto riguarda la pulizia delle strade, come viene messo in rilievo dallo scrittore: “Più tardi mi capitò sottomano una statistica la quale comunicava che in un inverno, per il solo spargimento di sabbia e sale per le strade, Montreal aveva speso circa tre miliardi di lire italiane, Toronto 670 milioni, e Ottawa – che è una piccola città – 335 milioni”. <58
Ma, nonostante i servizi e la disponibilità economica del nuovo paese, permane negli abitanti di Montreal un senso di solitudine, dovuta anche ai diversi idiomi parlati. La difficoltà intercomunicativa e la solitudine degli abitanti della metropoli canadese vengono descritti magistralmente da Rimanelli in questa scena, dove i personaggi sono trasportati da un autobus chiamato Nowhere, una delle cose strane della città di Montreal, simbolo del continuo vagare umano, senza una ragione e una meta precisa: “Guardavo ora dal finestrino la fuga di case, la neve e il ghiaccio. Il ghiaccio, sotto le ruote, gemeva; e sul ghiaccio l’autobus slittava, ruggiva, si contorceva sfiorando spigoli di case, distributori di benzina, pali di fanali. Un’altalena. Era il primo pomeriggio e la città, sotto i fiocchi bianchi, pareva addormentata. Guardai uno per uno i miei compagni di viaggio, e anch’essi parevano addormentati, figure di sasso antico, anime di condannati che il Caronte sordo portava a Dite. Anche tre donne sedevano come affrante sui seggiolini di velluto nero, con espressioni morte sui visi. Una di esse, con capelli giallicci che le sfuggivano da sotto un cappellino di raso bianco a lustrini, teneva il volto nascosto in una veletta color tabacco dalla quale la sua bocca livida risaltava come una larga fessura ricucita. La sua mano stringeva quella di un uomo robusto, dalla pelle contadina, ed entrambi si sostenevano poggiando l’uno contro l’altro la testa. Alle scosse dell’autobus i due sussultavano, si guardavano, abbozzavano un sorriso e tornavano a stare nella posizione di prima”. <59
In questa descrizione del Nowhere Rimanelli ha ritratto il significato che vuole assegnare alla vita e soprattutto l’angoscia dell’esule che si vede privato di quei valori che solo danno significato alla sua esistenza.
[…] Radici, che al contrario, Rimanelli ha ben salde e per le quali si troverà ad affermare alla fine di “Biglietto di Terza”: “Perciò, ora, prima che l’ottobre finisca e l’ultima foglia sarà caduta dagli alberi, io riprenderò il mare per l’Europa”. <95 Prima di ripartire, però, Rimanelli dirigerà a Montreal il giornale «Il Cittadino Canadese». E dopo l’esperienza editoriale canadese, il viaggio rimanelliano, come ogni vero viaggio, si conclude con un ritorno, il ritorno del protagonista in Italia perché ancora egli non può e non vuole vivere in America: “Qui calerà la notte bianca, furiosa di nevischio e freddo, e bisognerà mettere il colbacco e le mutande lunghe, bisognerà foderare di pelliccia il volante della macchina e attendere che il sonno venga a toglierti ogni visione mentre stai seduto sul seggiolone a dondolo, nella casa sprangata, isolato da voci. C’è soltanto lo speaker della televisione che cercherà di tenerti compagnia; lo speaker come la voce del tuo passato e del tuo presente,che cercherà di farti ridere, di farti dimenticare l’incolmabile buio dell’inverno canadese; e che ti ricorda, infine, che sei pur sempre in America, il paese dove io non posso, non mi sento di vivere”. <96
Ed è l’addio al Canada: “M’imbarcai con l’ultima nave in partenza da Quebec, l’Atlantic. Una ventina di studenti franco-canadesi andavano a Parigi per la prima volta. Il desiderio di Parigi era nei coriandoli che sperperavano, nelle canzoni, nel baccano che imposero agli altri passeggeri. (…) Risalimmo il fiume San Lorenzo, fino ad Anticosti, fino a Terranova, accompagnati dai delfini. Poi venne di nuovo l’Atlantico, e il sonno che dà il mare (…) sarò a Roma, ai primi di novembre il sole è ancora caldo (…). La nave sembra ferma nell’Atlantico, ed è già più vicina a Roma che non il Canadà”. <97
[NOTE]
49 G. Rimanelli, Biglietto di Terza, cit., p. 7.
50 Ivi, p. 32.
51 Ibidem.
52 Ivi, pp. 35-36.
53 Ivi, p. 37.
54 Ivi, pp. 38-41.
55 Ivi, p. 48.
56 Ivi, p. 54.
57 Ivi, pp. 40-41.
58 Ibidem.
59 Ivi, pp. 74-75.
95 Ivi, p. 221.
96 Ibidem.
97 Ibidem.
Rosina Martucci, La forza della scrittura in Giose Rimanelli, con uno studio critico del manoscritto (inedito) “La macchina paranoica”, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno accademico 2015-2016

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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