Conflitto ed energia politica: Costantino Mortati e Carl Schmitt

Le tesi di Santi Romano (anche rilette alla luce delle interpretazioni di Paolo Grossi e Mariano Croce), per quanto colgano delle dinamiche giuridiche l’intrinseca relazionalità e vitalità sociale sottesa all’ordine, necessitano di essere integrate intingendo la “grammatica del diritto” nella “sostanza paludosa e magmatica della doxa”. È necessario addentrarsi nei “luoghi della decisione” e della sua “legittimazione”, ove si annida il potere.
In questa direzione si sprecano gli accostamenti tra Carl Schmitt e Costantino Mortati <97 nel segno dell’istituzionalismo romaniano – qui si predilige l’interpretazione di Alfonso Catania su un possibile trialogo tra Santi Romano, Costantino Mortati e Carl Schmitt.
Costantino Mortati che legge ed apprezza Santi Romano, ne condivide le esigenze teoriche e pregia il teorico della “crisi dello Stato moderno” di aver offerto strumenti analitici preziosi rispetto agli stravolgimenti sociali (allora) in corso; ribadisce che grazie alle tesi di Romano è stato possibile descrivere la fisionomia (nuovamente) corporativista degli “Stati amministrativi” e come vengano assorbiti nella dimensione giuridica determinati processi. Tuttavia, non può che muovere dei rimproveri.
Mortati appunta a Romano di proporre un “realismo troppo statico” finendo per tradire i suoi stessi obiettivi teorici, ovvero perseguire una scienza del diritto che non temesse l’impurità dell’agonismo sociale. Suggerisce di intercettare l’ethos comune preesistente e contestuale al giuridico e come in esso confluiscano istanze ideologiche, ma non va oltre.
Ed infatti sfuggono alla sua analisi proprio quelle dinamiche interne alla società di cui teorizza una mediazione pluralista; così non consente di capire come certi processi “omogenizzanti” oppure “disgreganti” possono avere luogo, se non registrarne gli effetti già dispiegati. Manca l’idea stessa di “azione politica” <98.
Mortati, quindi, chiama in causa un “pluralismo” attivo e mobile, secondo cui la politica è relazione tra pluralità ed ordine, tra conflittualità ed unità. E l’unità complessa (ambita) è obiettivo, movimento, indirizzo sorretto e sostenuto non da un ente essenzialistico ma da una “forza”.
Attrae questi temi nella dimensione giuridica, presupponendo una “costituzionalizzazione” della mediazione (non come agente impersonale ammnistrativo) ma esplicata in tutta la sua portata politica: da qui la “costituzionalizzazione dei partiti”, quali cinghie di mediazione tra lo Stato e la società, per usare una espressione di Lenin.
Nel partito “il punto in cui la consapevolezza della pluralità e dell’agonismo sociale viene ricondotto nell’alveo giuridico costituzionale unitario” <99.
A prescindere dal ruolo assunto dai partiti (centrale nella “costituzione materiale” di Mortati, un pò meno nella società attuale dominata nel mondo Occidentale dalla e-democracy e dai social media che hanno trasformato la comunicazione pubblica ed istituzionale) <100, ciò che rileva in questa sede del pensiero dell’autore calabrese, è che questo esprime la necessità di risalire per la comprensione e l’integrazione del sistema positivo, ad un ordine più semplice e più ampio che lo prenda in considerazione ove però l’ordine che precede e condiziona non è “istituzione”, ma “forza politica”.
La trama di relazioni ed interessi romaniana nelle tesi di Mortati viene rivitalizzata dalla forza e dall’energia politica. In questa forza fondativa, volontaristica e politica che si impone sulle altre, il pensiero di Mortati incrocia quello di Schmitt <101.
Ed è un incontro felice in cui, al di là delle divergenze teoriche, prende forma una congiunzione complessa tra istituzionalismo (romaniano) e decisionismo, esplorando le trame oscure ed il sottotesto della ‘Grund norm’: “si deve obbedire al potere costituito”.
Per chi scrive le critiche rivolte alla “norma fondamentale” di Kelsen sono eccessive e fondate su un fraintendimento. Il sospetto è che si perda l’afflato filosofico sovrapponendone uno troppo “politico”, laddove invece l’unità della “norma fondamentale” si presenta come il “risultato” conoscitivo dell’oggetto posto in partenza – l’ordinamento vigente – di cui il concetto è mera dimostrazione del medesimo.
La ‘Norma fondamentale’ di Kelsen nell’interpretazione di Catania, infatti, è già carica di un preciso “realismo”, scientifico, misurato. Si può dire che costituisce esercizio empirico che affida al “lessico normativo” il codice di decifrazione di complessi fenomeni sociali, esattamente allo stesso modo di Newton che si esprime con un codice alfa-numerico per tradurre in una equazione la “legge di gravità”; un accostamento tra Newton e Kelsen non così arbitrario se si pensa che proprio alla gravità rinvia Hegel per spiegare il rapporto tra volontà e libertà – secondo cui l’una sta all’altra come la gravità ai corpi.
Formidabile sintassi “gnoseologica” del positivismo come “approach”, che ci ricorda di mantenere l’adeguato distacco da ogni pronunciamento sulle forme multiple del diritto, senza cadere in tentazione e cedere alle promesse d’ordine che ciascuna porta. Ciò non toglie che anche in Kelsen l’effettività è condicio sine qua non della validità (sufficiente, ma non necessaria, perché sia chiaro che residua uno scarto ed una tensione), solo che qui la doverosità e l’essere servono la conoscenza, non il diritto, né la politica. L’equazione non va risolta, ma solo spiegata.
Fuori dall’astrazione scientifica, che si adotta come punto di vista analitico, si intende restituire ai “significanti normativi” senso e portata, nonché termini entro cui questi possono trovare un nuovo lessico con cui adeguarsi all’evoluzione sociale, e questo può avvenire soltanto riportando l’universo giuridico alla sua dimensione fattuale-immanente, incarnata nella rete di pratiche sociali ed energie politiche che la attraversano (ancor più di quanto non abbia osato Romano).
Terreno di incontro/scontro tra Mortati e Schmitt non può che essere quello della “sovranità”; concetto storicamente denso e che torna nel dibattito politico contemporaneo tra gli accenni sulla crisi della sovranità statale ed una sua invocazione (a tratti ideologizzata) <102; qui viene intesa come “centro propulsivo della convenzione associativa” in cui si mescolano significati (storici) normativi e politici. Per entrambi gli autori nella sovranità è racchiusa quella “forza politica” capace di imporre il comando, pretendere obbedienza e di sostenere il sistema di valori che esprime e contribuisce a produrre <103.
Per Mortati la sovranità radica, forma, interpreta ed incita il sociale. Una forza di parte che impone la direzione, l’orientamento, lo scopo comune perché ha la forza normativa di farlo – ove comune sta per “imposto a tutti” che è capace di diventare di tutti e di identificare tutti in un solo indirizzo e valore, in un solo progetto <104.
Schmitt pensa ad essa come fonte primaria, decisione politica fondamentale che crea e presuppone un ordine, ovvero quella sovrastruttura giuridica che assorbe in sé un dato pregiuridico. L’elemento innovativo (novum) su cui pone l’accento Schmitt è dato dalla capacità del “gruppo dominante”, che assume una posizione riflessiva su sé stesso, di imporre la propria identità come identità politica comune <105.
Mortati pur accogliendo il discorso politico di Schmitt tende ad integrarlo in termini istituzionalistici e giuridici, immergendo quella decisione all’interno di una “normazione sociale” espressa sul piano sociologico come campo di forze entro cui si formano e devono negoziare la propria identità anche quei gruppi che riusciranno ad imporsi.
L’effettività e la capacità di mantenersi salda e legittima e di proiettarsi nel tempo della decisione politica (sovrana) avrà a che fare con tali dinamiche, “istanze” ed “emergenze” <106.
Ciò che tuttavia è fuori discussione per entrambi è il presupposto della modernità che lega l’ordine al soggetto. Ogni progetto politico rimanda al soggetto. Pensare giuridicamente la politica significa pensare giuridicamente i soggetti dell’agire sociale e i soggetti sociali che imprimono (a partire da una realtà differenziale e pluralista, dunque conflittuale) una spinta unitaria, una unità progettuale.
Alle spalle dell’unità (dinamica) mai definitivamente compiuta, si esplica la dialettica hegeliana ovvero di una pluralità riconosciuta come tale, come articolazione e differenziazione di gruppi, ceti, classi, in competizione; gruppi antagonistici portatori di interessi diversi, che può risolversi (ma non esaurirsi) solo quando la pluralità si fa unità attraverso rapporto di forza che storicamente è riuscito ad imporsi e istituzionalizzarsi. Si atteggia sotto il segno di una più esaustiva significazione l’intrinseca normatività relazionale della società il cui ordine (che esprime) è funzionalizzato agli scopi (politici) prevalenti, determinati da diversi campi di forza e di poteri diffusi.
Quanto teorizzato da Santi Romano, alla luce delle riflessioni tanto di Mortati che Schmitt trova quel “dinamismo” e quel “movimento” che era solo accennato.
[NOTE]
97 Interessante confronto tra i due teorici del primo Novecento, Schmitt e Mortati, viene offerto (tra gli altri) da Carlo Galli di cui cfr. G. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 606 e ss.; ed ancora da Geminello Preterossi, ci cui cfr. G. Preterossi, Carl Schmitt e la tradizione moderna, Laterza, Roma Bari 1996, pp. 32 e ss. In questa sede si predilige il contributo offerto da Alfonso Catania di cui cfr. A. Catania, in Mortati e Schmitt, in Id. Effettività e modelli normativi. Studi di filosofia del diritto, cit.
98 Mortati spiega come il Partito unico fascista ha potuto polarizzare, mobilitare ed organizzare la società, ottenendo anche un certo consenso, attraverso le ideologie e parole d’ordine; aspetti essenziali che non possono essere liquidati. Cfr. A. Catania, Santi Romano e Costantino Mortati, cit., p. 127. Anche Ernesto Laclau tra i principali teorici del “populsimo” esalta proprio la funzione (simbolica) delle “parole d’ordine” operanti in ogni sistema politico per tracciare la frontiera costitutiva del “popolo” (passaggio dalla moltitudine alla comunità). Nel lavoro teorico di Laclau vengono proposte rielaborazioni del concetto di egemonia in Gramsci, tuttavia restano, a differenza delle tesi di Mortati, troppo arroccate entro prospettive decostruzioniste e teorie psico-linguiste che perdono di vista la dimensione materiale dei rapporti sociali già stratificati e che non possono mobilitarsi solo in forza di “slogan ad effetto”. Il popolo non è un “trono vuoto” da riempire a piacimento, bisogna negoziare con i residui di senso di cui sempre si carica, ma questo anche Laclau lo sa, la sua, infatti, resta analisi critica delle dinamiche politiche che tiene conti di aspetti materiali ed aspettative di senso costitutivi dell’ordine (E. Laclau, La ragione populista, ed. it. A cura di D. Taricco, Laterza, Roma Bari 2008). In questo spazio di riflessione sembra più funzionale alla “causa politica” il lavoro di Chantal Mouffe, la quale muovendo dalle intuizioni di Laclau, si addentra nelle congiunture della storia e prova a scendere a compromessi con la realtà sociale manifesta, recuperando tanto il lavoro teorico di Gramsci quanto le tesi costituzionaliste di Mortati (cfr. C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, cit.).
99 A. Catania, Santi Romano e Costantino Mortati, cit., p. 127-128.
100 La figura dei partiti oggi è assolutamente inattuale, si registra uno svuotamento simbolico ed ideologico, non riuscendo più a porsi come soggetti collettivi di mediazione; hanno perso capacità rappresentazionale della realtà sociale (anch’essa sempre più frammentata, come si è già detto a proposito dell’incisività delle logiche anti-ideologiche neoliberali). Con essi si è interrotto un reale processo di “riconoscimento” su visioni condivise, prevalendo un discorso “particolarista ed individualista” quale unica verità universale spendibile. Il dibattito pubblico difatti sembra essersi spostato dai luoghi istituzionali alle “piattaforme offerte dai social media”. Sempre più autorevole sta diventando la figura dell’Influencer, capace di rivoluzionare persino il lessico della politica e le modalità di apparizione dei Leader di partito (che si prestano sempre più al gioco mediatico). Più è complessa la realtà sociale, più l’algoritmo semplifica la comunicazione pre-ordinando, attraverso figure facilmente riconoscibili ed influenti, mediaticamente spendibili, temi di discussione e declinazioni argomentative, gettate direttamente in pasto alla pubblica opinione, senza più alcuna mediazione critica, senza filtri, lasciando in altre sedi per nulla trasparente l’elaborazione dei dati raccolti con cui “aggiustare” decisioni istituzionali già assunte (dando luogo ad una democrazia a bassa tensione istituzionale, ma ad elevatissima rappresentazione mediatica). A preoccupare è proprio questa assenza di “mediazione critica” in quanto non costruisce consapevolezze argomentate sulle decisioni pubbliche, ma solo “apparenze”, frustra così l’espressione di un “consenso-dissenso informato”. Si genera solo confusione su cui poi è facile ingenerare influenze. Tornano utili a tal proposito le riflessioni di Adriana Cavarero proprio sulla e-democracy e la politica dei selfie, cui già si è accennato; Caverero, di fatti, cercando di restituire dignità alle intuizioni di Arendt sulla politica si sforza di ritrovare gli elementi strutturali e fonici qualificante la democrazia perché si possa tornare a dar credito alla “voce della massa” anche laddove si interrompe l’auto-narrazione popolare o la si squalifica nel calderone inquinante del “populismo”. Ogni risposta non può che essere all’interno dell’agglomerato sociale, bisogna solo saperla riconoscere, secondo il “senso comune” che la stessa società contribuisce a fornire. Cfr. A. Cavarero, Democrazia sorgiva. Note al pensiero politico di Hannah Arendt, cit.
101 Questo si realizza però nei termini però di un incontro/scontro. Nelle tesi di Mortati, infatti, prevale l’idea di “unità complessa” di Stato (composita per dirla con Romano, animata da plurime articolazioni interne e costantemente oggetto di mediazione di quelle forze socaili/politiche-istituzionalizzate, parte attiva nel processo costitutivo e di mantenimento dell’unità). Per Schmitt, invece, l’unità è (deve essere) omogenea, assume sembianze di entità esistenziale che precede la costituzione e la fonda, risolvendo il conflitto e non presupponendo articolazioni interne (assume tratti nebulosi ed irrazionali tutta conchiusa nell’atto decisionistico espresso). L’emergere dei partiti per Schmitt è già significativo di una crisi istituzionale dello Stato (A. Catania, Santi Romano e Costantino Mortati, cit., p.128).
102 Carlo Galli, che nella sua immensa ed autorevole produzione teorica più volte ha trattato il tema della “sovranità”; sollecitato dal dibattito degli ultimi anni, in risposta ad una politologia (che sa più di mitologia) da “mass-media” altamente fuorviante e fortemente strumentalizzata, ha profuso sforzo critico e narrativo per ricondurla nell’alveo delle categorie politiche (occidentali) chiarendone significati storici e presupposti teorici. Solo per citare il più recente dei contribuiti Cfr. C. Galli, Sovranità, Il Mulino, Bologna 2019.
103 C. Mortati, La Costituzione in senso materiale, cit., pp. 121 e ss.
104 Ivi, pp. 76-77.
105 C. Schmitt, Teologia politica. quattro capitoli di dottrina della sovranità (1922), in Id. Le categorie del politico, cit., pp. 39-40. Nella decisione politica (che precede ogni norma) per Schmitt il “gruppo” dominate riconosce sé stesso e (pre)tende al riconoscimento della comunità in quella identità (imposta). In tal senso il popolo precede (in parte) e segue (come tutto) la decisione politica (ricalcando il teorema dell’élite di Mosca – ovvero l’impossibilità di superare la scissione tra governanti e governati, retrodatata al momento costitutivo dell’ordine, in una concettualizzazione “psico-politica” identitaria, statica e conservatrice). Tale imposizione identitaria omogenizzante, in Schmitt assume toni drammatici per il carattere esistenziale che assume la decisione. La fondazione del “noi” infatti non può ammettere fratture o contraddizioni interne perché rappresentano una nevrosi, uno squilibrio, perdita di identità; ne va della vita e della morte della “comunità”. Per questo non è ammesso un fuori e la decisione deve assolvere il tutto (omogeneo e stabile). L’identificazione della società presuppone l’annientamento dell’Altro: pura logica riconoscimentale-dialettica (ivi, p. 134).
106 Della decisione politica di Schmitt difatti Mortati lamenta proprio la sua indeterminatezza, i suoi sviluppi incerti ed oscuri che si traduce in una contrapposizione della decisione al momento normativo, diviene “subiettività non normativizzata” – perfettamente espressa da uno Stato totale (omogenizzato) in cui è assolutamente assente ogni dimensione temporale; mentre una Costituzione che coniughi politico e giuridico non può prescindere dalla durata, data da uno scopo che legittima l’azione governativa nella sua realizzazione mediandone condizioni di fattibilità con la società da cui promana ed a cui si rivolge. È necessario oltre che un quid teologico, teleologico (sul punto C. Mortati, Costituzione, in Enciclopedia del diritto, vol. XI, Milano 1962, p. 162; cfr. C. Mortati, La Costituzione in senso materiale, cit., pp. 77, 89 e 100). In Mortati (quindi) la norma-decisione supera l’aurea di indeterminatezza schmittiana nella conversione costituzionale in “norma scopo”, ove la Costituzione (su tutte) non è solo registrazione del fattuale, ma anche basilisco di un “indirizzo politico”: sostanziale e situata, decisa e decisiva, filtro di senso dell’ordine giuridico di cui ne orienta l’interpretazione (e l’evoluzione). Lo scopo (politico) determina la funzione (normativa) che lo Stato amministratore della contingenza è chiamato a realizzare, non distaccandosi e sovra-ordinandosi alla società, ma mediando con le sue articolazioni interne e differenziali, perché convergano in unità politica. Questo vuol dire anche che da un punto di vista istituzionalistico sottesa all’unità politica si esprime una struttura sociale con un suo ordine intrinseco e giuridico in cui si intersecano e articolano plurimi e complessi sistemi di interessi e valore intorno ai quali il gruppo sociale si cementa ed unifica, facendo emergere un apparato autoritario e coattivo, da cui deriva una articolata distribuzione di compiti e poteri che riflette i rapporti di forza ad esso sottostanti e si presenta come strumento di rafforzamento del potere sociale già attivo. Dalla società allo Stato attraverso la Costituzione materiale che giuridifica e stabilizza attraversa la norma di scopo una forma di eticizzazione della politica, si esprime una radicale adesione dello Stato alla società stessa, almeno nella tensione del progetto fondamentale, politico e giuridico (A. Catania, Mortati e Schmitt, cit., pp. 113-114).
Daniela Longo, Antropologia della vulnerabilità: profili filosofico-giuridici del pensiero queer, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2019/2020

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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