Contrappongo l’universo parlato all’universo agito

Nella poesia di Luzi la costante tensione del discorso poetico verso un principio di alterità si concentra sull’elemento femminile: una presenza ininterrotta che funziona quale «vero e proprio complemento» della voce lirica <112. L’istituzionalizzazione del modulo dialogico è inoltre il segno dell’avvenuto superamento dell’astrattismo ermetico della prima maniera. La conquista di uno spazio dialogico corrisponde all’urgenza di riconquistare alla poesia lo spazio del reale, con una rinnovata volontà di presa poetica sulle cose: «Questa alterità è molto precisa: è un amore non so se reale o no. Era un desiderio di uscire dalla soggettività oppressiva ed oppressa dalle circostanze e riconquistare uno spazio, che questo slancio amoroso favoriva» <113. Nella ricerca del colloquio con l’Altro, oppure nella percezione della sua labilità, del «nulla», viene così a convergere la spinta verso il superamento di una condizione storica e poetica insieme, e il tu diventa la garanzia formale, oltre che tematica, di quel fondamentale passaggio. Se per un verso la sicurezza cognitiva dell’io tende quindi a ridursi e l’unità della coscienza si sfalda, sfrangiandosi in una molteplicità di voci a continuo confronto, per l’altro si accresce il margine dell’alterità, sintomo di una visione del mondo sempre in fieri, sempre aperta all’ipotesi, o meglio alla domanda, di un religioso «non ancora» <114. E sempre più si afferma, di conseguenza, il ricorso al modulo dell’interrogativa, laddove principale interlocutore non è più la donna, intermediario presente-assente, ma il Tu cristico, direttamente chiamato a rendere ragione da un lato delle perdite e dei lutti della storia, ma anche a testimoniare, dall’altro, l’attesa della parusia, di un avvento liberatorio definitivo. Il confronto dialettico con l’Altro, la ricerca di un’apertura si scopre come il tramite privilegiato per un diverso rapporto fra scrittura poetica e realtà.
La poesia esibisce una dialogicità teatrale dove le voci hanno un volto e un corpo e dialogano con un tono discorsivo che ricalca il parlato, la prosa: nisi quod pede certo differt sermoni, sermo merus. Questa poesia che sembra una conversazione scandita ritmicamente, non fissa dei puri stati d’animo ma coglie la vita interiore, magmatica, da quella esteriore, che intreccia descrizioni di luoghi e personaggi a frammenti di dialogo e si presterebbe bene ad essere recitata su un palcoscenico. Ogni cenno si trasforma in un discorso diretto che cerca di dare voce anche al non detto attraverso domande e sentenze. Il poeta ascolta le voci che vengono dai luoghi lontani della memoria e del sogno, ma spesso anche dal luogo concreto della storia e s’interroga sulla presenza della poesia nella vita e nella contemporaneità. Il poeta ascolta i movimenti dell’esistere e si perde nelle sue infinite voci senza afferrarne il senso. La vita scaturisce da un tempo indecifrabile, tempo della storia e insieme senza storia; il poeta esce dalla sua solitudine per cercare un contatto con gli altri attraverso il quale sopravvivere nella civiltà disumanizzante della tecnologia e dei consumi, perché l’uomo, più che nella società e nella socialità, è colpito nella sua soggettività in quanto egli stesso si sente continuamente dissociato, abusato, soverchiato. Allora si potrebbe ipotizzare che la poesia non nasce più dal tradizionale io lirico che monologa con se stesso, ma da un soggetto scisso che non sa più distinguere il vero dal falso e le cui certezze sono travolte dalla metamorfosi ma non dalla casualità, poiché comunque la vita segue una direzione divina, partecipa al progresso umano che è in atto.
Conclusasi l’opera si ha l’impressione di non aver letto una semplice raccolta di poesie; l’uniformità, la concatenazione, l’ambientazione, il significato che scorre sotto ed unisce, l’idea chiara che si sta affrontando un viaggio di tipo dantesco, ci fanno pensare ad una «prosa pausata» <115. E’ un testo che si sviluppa per orizzontale, senza però abbassare i picchi verticali delle singole poesie. Si attenua la prospettiva lirica: la poesia ambisce al sermo merus oraziano, come ci indica l’autore stesso nell’epigrafe alla raccolta, dove si sceneggiano diverse situazioni di incontri in luoghi di passaggio tra l’io inteso come personaggio e «altri occasionali interlocutori» <116. L’alternarsi di dialogo e narrato ci rimanda facilmente alla Commedia dantesca, ma anche ai Quattro quartetti e alle opere teatrali di Eliot come The Cocktail Party. Un ritmo basato sugli accenti, con l’utilizzo a volte di parole discordanti che volutamente scardinano il verso donandogli una nota distorta, uno stridore che risuona perfettamente con l’ambiente tetro in cui l’opera si colloca. Parole come Eichmann, transistor, opossum, plancton, condor, ma anche molte altre, soprattutto in posizione di clausola, rallentano o troncano improvvisamente il ritmo, lasciano il verso a mezz’aria come incompiuto, e fanno perdere il fiato per la lunghezza. Eppure, anche nella dissonanza, senza fatica si riesce a seguire la versificazione e la narrazione, sia quando i movimenti sono veloci e ridotti a pochissime parole, sia quando il tempo sembra sospendersi e si sposta su di un altro piano, quello della mente. L’andamento ritmico narrativo nasconde un endecasillabo classico, «il metronomo della poesia è il verso» perché il verso «è una misura che esiste in natura come proiezione del tempo unitario e variabile del mondo» e «l’endecasillabo è una misura trovata sulla normale frequenza ritmica del nostro parlare» <117. La centralità dell’endecasillabo nella tradizione non è un fatto di autorità di tempo: è nell’anima della lingua. Si abbassa nel registro per mezzo dell’indeterminatezza delle persone agenti nello stile a tratti colloquiale o, meglio, colloquiale nei “giunti” semantici e scenici ma letterariamente connotato da metafore negli affondi. Non c’è da cogliere il simbolo nel reale con linguaggio allusivo, ma c’è da riconoscere che tutto è simbolo, cioè in sé allusivo di una dimensione più grande e superiore. E questa visione dischiude il verso a una più semplice e piana discorsività. Emblematico in questo senso l’alter ego rappresentato dal secondo personaggio incontrato in Presso il Bisenzio, «il più giovane […] e il più malcerto», che gli domanda se vale la pena di speculare nell’iperuranio piuttosto che dar voce al mutamento della civiltà. «Spingere più oltre […] la captazione del reale e l’identità di prosa e poesia – nell’unicum della lingua», come scrisse Luzi in una lettera a Sereni del 12 maggio 1963. La metafora del poeta come «scriba», il quale non solo vuole che la poesia partecipi all’esperienza del soggetto, non solo è cosciente di trovarsi all’interno di un dialogo incessante con altri esseri, con la natura, con la realtà, ma soprattutto sa che esiste un mondo esterno che non necessariamente “si costituisce” in relazione con l’io, ma che lo “anticipa” nelle condizioni storico-esistenziali ed è presupposto da un punto di vista ontologico in una dimensione che si pone al di là del soggetto stesso. Lo scriba si trova al di qua di ogni orizzonte intersoggettivo di matrice ermeneutica e presuppone una consistenza del reale indipendente dallo strumento conoscitivo come anche la possibilità di veicolarla sulla pagina mediante la ristrutturazione delle categorie logiche. Il sermo merus è il primo atto con cui viene affrontato il problema della parola novecentesca. «Contrappongo l’universo parlato all’universo agito “naturalmente” dalle creature viventi, dagli animali, dalla natura operante. E allora il linguaggio non passa attraverso la parola, è un linguaggio altro. E quindi è chiaro che c’è veramente una sconfitta in atto, in atto fino alla rinunzia, al mutismo, non più al silenzio, ma al mutismo dell’uomo moderno: e il terrorismo è un altro linguaggio aberrante che cerca di sostituirsi alla parola mancante» <118.
112 Mario Luzi, L’opera poetica, Milano, Mondadori, p. 1246
113 Ibidem
114 ivi, p. 1268
115 Gianfranco Contini, da Mario Luzi, in Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968
116 Stefano Verdino, Introduzione, in Luzi – L’opera completa, Milano, Mondadori, pag. XXXI
117 Mario Luzi, La creazione poetica?, in Naturalezza del poeta, Milano, Garzanti, 1995, p. 149
118 Mario Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti 1999, p.p. 234-235.

Riccardo Frolloni, La Parola come crisma: analisi di “Nel magma” di Mario Luzi, Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, Anno accademico 2014-2015, pp. 37-39

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.