Così sbiadito a quest’ora/lo sguardo del mare

Rileggendo Caproni in chiave neofenomenologica [1], si rimane come immersi nella palude delle atmosfere, attanagliati da quelle entità non discrete, vaghe ed indefinite che sono le quasi-cose, quasi-cose che ci afferrano, ci circondano e ci con-fondono impedendoci di analizzarle, di scomporle nelle loro unità minime, di rintracciare il perimetro del loro percorso. Esse, infatti, costituiscono sia gli agenti che i luoghi (i sentimenti spazializzati) che agiscono sul e nel soggetto-poeta che, di volta in volta, vi interagisce immergendosi nel loro spazio di estensione. Il tessuto di questa relazione tra soggetto e ambiente si esplica in quella compagine fatta di cose e quasi-cose che chiamiamo mondo e che Caproni riporta, abilmente, sotto forma di quel tessuto di versi, parole, interiezioni che costituiscono i testi delle sue poesie.
Crepuscolarismi
Nel suo essere fenomeno, il crepuscolo è colto attraverso un’intuitiva unità di significato che mette insieme oggetto e paesaggio nella misura in cui quest’ultimo si fa paesaggio con i suoi suoni, odori, colori, sapori che lo distinguono dalle tonalità fisiche ed emotive degli altri paesaggi. Caproni, il poeta della malinconia, per dirla con Anna Dolfi [2], in “Spiaggia di sera”, contenuta in Come un’allegoria, sua prima raccolta pubblicata nel 1936 a Genova, ci offre una velata atmosfera crepuscolare:
Così sbiadito a quest’ora
lo sguardo del mare,
che appare negli occhi
(macchie d’indaco appena
celesti)
del bagnino che tira in secco
le barche.
Come una randa cade
l’ultimo lembo di sole.
Di tante risa di donne,
un pigro schiumare
bianco sull’alghe, e un fresco
vento che sala il viso
rimane.
Qui la natura fenomenica del crepuscolo è colta nelle sue macchie d’indaco appena celesti che si riflettono negli occhi di un bagnino che tira in secco le barche. I due sguardi (quello del bagnino e quello del mare) si con-fondono tra loro, in un’atmosfera che degrada verso le tinte sbiadite e cangianti della sera, in cui decade ormai anche l’ultimo lembo di sole. Sparita l’atmosfera crepuscolare, ne sopraggiungerà un’altra, fatta di echi di risa di donne, il pigro schiumare del mare, dove qui per pigro è da intendersi il suo carattere lento, senza vigore, quasi smorzato, che insiste in modo ciclico e flebile sulla costa. Ciò che dell’atmosfera del crepuscolo ormai rimane non è altro che la quasi-cosa ventosa di cui possiamo sinesteticamente percepire la freschezza e il senso di sale che con sé trasporta. Cos’è dunque il crepuscolo caproniano: le macchie indaco appena celesti del mare? L’ultimo lembo di sole? Il pigro schiumare delle onde? Il fresco vento che sala il viso? Risponderemo che il crepuscolo è tutte queste cose colte nella loro unità di significato sinesteticamente.
«Si pensi al topos artistico sia di senso comune della luce seducente e protettiva delle candele, alla spugnatura utilizzata dai primi fotografi, per sollecitare una percezione più aptica e cinestetica, ma soprattutto alla diminutio della luce e della tensione corporea tipica del crepuscolo, il quale, appunto grazie all’erosione dei contorni e alla generazione di una vaga impressione complessiva, risulta molto più favorevole della luce diurna all’insorgere di varie tonalità d’animo» [3].
Ciò che rende atmosferico il crepuscolo è il suo essere progressivamente in fieri, il suo essere lo sfaldarsi graduale della luce, il suo venire flebilmente e progressivamente confondendo le forme, erodendo i contorni, facendo precipitare, ciò che si sta percependo, nel vago. Griffero, riprendendo Schmitz e Klages, scrive che il crepuscolare si configura come «dimensione indistintamente emozionale e climatica, in ultima analisi inanalizzabile poiché “patita” intermodalmente (sinesteticamente) – ecco perché lo si può dire “fresco”, “fioco”, “segreto”, “quieto”, ecc. – “cala” (non metaforicamente!) da fuori, in virtù di una quasi cosalità naturalisticamente irriducibile, su tutto» [4].
Cerchiamo di capire il perché di queste affermazioni. Prima di tutto, bisogna chiarire come il crepuscolo sia costituito da due diverse dimensioni: quella climatica legata strettamente alle condizioni metereologiche con cui si presenta e che appare, in un certo qual modo, fisicamente più tangibile (il freddo, il vento del crepuscolo possono essere apticamente percepiti) e la dimensione emozionale. Quest’ultima, anche se fisicamente meno “tattile” (pensiamo all’emozione della nostalgia: ci tocca ma è difficile dire in che misura e in che modo si manifesti) è indissolubilmente legata alla dimensione climatica, tanto da non poter essere da questa distinta. Non è dunque possibile ragionare per e su elementi discreti, separare dimensioni climatiche ed emozionali, perché quest’ultime dipendono fortemente dalle prime, anzi, ne sono, in un certo modo, le conseguenze. Inoltre, come abbiamo precedentemente affermato, in quanto il crepuscolo è patito (ovvero sentito) come un’unità sinestetica, esso è inanalizzabile, non scomponibile. «Inibita ogni spazialità direzionale, il crepuscolo ci rende estranee anche le cose più familiari, riducendole a semplici silhouettes, suggerendo così un’irrinunciabile esperienza smaterializzante sia del percetto, sia del percipiente […]» [5]. A smaterializzarsi sarà pertanto non solamente il percetto, le cose che compongono il crepuscolo, bensì anche chi paticamente le percepisce e vi si smarrisce, confondendovisi.
Ciò che esso produrrà sarà, pertanto, una perdita di orientamento cosale. Come abbiamo prima osservato leggendo Spiaggia di sera, ciò che l’atmosfera crepuscolare produce, è un sentimento di vaghezza in cui chi percepisce si confonde nel percepito per arrivare a cogliere l’unità quasi-cosale del crepuscolo, quella sua inconfondibile paticità quasi nostalgica: «che poi l’atmosfera crepuscolare sia meno intensa nelle latitudini o stagioni in cui quasi immediata è la transizione dal giorno alla notte, come pure in una vita urbana che oggi ne inibisce l’incanto col semplice gesto di accendere la luce, non toglie che, quando insorge, riduca comunque il soggetto [6] “al suo elemento primo e ultimo: un sentire presago”» [7].
Decosalizzare la luce: albe
Volgendo lo sguardo al crepuscolo caproniano, abbiamo iniziato a vedere come questo può essere considerato atmosfera in virtù della luce che caratterizza le sue molteplici tinte.
«È certamente superfluo ribadire le potenzialità atmosferiche della luce, la prima “responsabile delle impressioni su di noi”. Che sia l’oggetto di una percezione tetica o, più spesso, la condizione olistica ed intransitiva di successive, e corrispondentemente tonalizzante, percezioni tetiche e discrete, la luce instaura infatti col percipiente, esattamente come le altre forme, una comunicazione proprio-corporea» [8].
La luce, dunque, si fa atmosfera e al contempo la crea, generando spazi emozionali. Tuttavia, c’è da chiedersi, ogni qual volta che ci troviamo di fronte alla luce, siamo sempre in presenza di un’atmosfera? La risposta è no. «Nell’atmosfericità, quindi, siamo immersi in modo speciale quando la luce, forse perfino senza cessare di essere attrattore biologico, scontorna gli oggetti, toglie loro ogni intollerabile vividezza e simmetria, impedendo di fatto la riconduzione, come tale sempre razionalizzante, delle cose al genere a cui appartengono» [9]. Ciò che rende, dunque, un’atmosfera tale è la vaghezza che la contraddistingue. La luce, per farsi atmosfera, dovrà essere capace di decosalizzare le cose, ovvero renderle quasi-cose sfumando gradualmente la materia di cui sono composte. Al contrario, una luce accecante, un forte bagliore, non possono essere considerati particolarmente favorevoli all’atmosferizzazione. Infatti, come ci suggerisce Griffero, abbagliando lo spettatore, una luce accecante non fa altro che disorientarlo generando una quasi dolorosa contrazione, che finisce soltanto con lo spostamento dell’oggetto abbagliante: «potrà pure irritare e affascinare, alludendo aniconicamente – sottraendosi per principio allo sguardo – al divino, ma difficilmente il riflesso accecante favorirà quella medietà emozionale che, a nostro parere, meglio caratterizza l’atmosferico» [10]. Siamo dunque in grado di fare esperienza dell’atmosferico attraverso fenomeni di luce mitigata. Uno di questi, allo stesso modo del crepuscolo già osservato, è costituito dall’alba.
L’alba, primo spazio emozionale del giorno, è una costante della poesia di Caproni: minacciosa, misteriosa, malinconica, l’alba finisce col divenire correlativo oggettivo di qualcos’altro, dello stato interiore del soggetto stesso. Vediamo ora come questo si realizza a partire da un testo contenuto in Come un’allegoria:
Alba
Una cosa scipita,
col suo sapore di prati
bagnati, questa mattina
nella mia bocca ancora
assopita.
Negli occhi nascono come
nell’acque degli acquitrini
le case, il ponte , gli ulivi:
senza calore.
Manca il sale
del mondo: il sole.
Il giovane Caproni descrive con sottile abilità un paesaggio atmosfericamente connotato, dove i singoli elementi (le case, il ponte, gli ulivi) sembrano risvegliarsi in mancanza di qualcosa: del sale del mondo: il sole. La mancanza di una luce abbagliante, la sua quasi assenza, non fa altro che contribuire a creare atmosfericamente una situazione emozionale: nell’atto stesso del nascere e dunque nell’atto stesso di assumere la loro natura cosale, le cose si decosalizzano, sfumando i loro contorni agli occhi di chi le percepisce. Singolare da notare è che il testo nasce con la parola ‘cosa’ (una cosa scipita) e che dunque sta progressivamente perdendo una delle proprietà che la rendeva “cosa” nel senso di “oggetto definito e definibile”. Siamo dunque nell’ambito delle quasi-cose colte nel loro essere fenomeno, mutamento progressivo. Scrive Baldacci:
«Come un’allegoria si fissa in prevalenza su due momenti topici della giornata, due fasi di passaggio: l’alba e il tramonto. Il sopore mattutino e il pallore serale, ciò che sorge e ciò che si dissolve dialogano (sino quasi a riflettersi) uno nell’altro. Così la fine della giornata porta con sé l’eco “di ingenue grida” (CA:16), il raggio della gioventù sempre in fuga, e la prima luce del mattino conserva ancora l’impronta della “notte che sbianca”» (CA: 17) [11].
Noi riusciamo a cogliere sinesteticamente il sapore dei prati nella misura in cui questi sono bagnati, come se volessimo percepirne, a livello tattile, nella freschezza che li contraddistingue, il sapore. L’impressione che il testo genera è quella di “un’inalazione del prato”, nella misura in cui, del prato stesso, riusciamo a cogliere il suo essere, qui e ora, bagnato in presenza di una bocca che, ancora assopita, sta ancora nella sua “posizione” di attesa. L’essere assopito, d’altra parte, coincide con uno svincolarsi progressivo e fenomenico dalla dimensione del sonno, e dunque dall’atmosfera della notte. Siamo dunque in un momento di passaggio tra due atmosfere, tra due diversi spazi emozionali. Per dirla con Heidegger, siamo nel momento di disvelamento dell’essere, dell’apparire dell’ἀλήθεια, della verità che si dischiude al mondo, e in questo senso, l’alba in quanto fioca e debole luce che succede alla notte, può essere intesa come prima manifestazione del giorno, primo suo disvelamento.
In questa atmosfera di progressivo permutare, gli occhi non sono altro che gli acquitrini che sorgono dalle acque, come se nascessero per riflesso di qualcosa (in questo caso dell’acqua), autogenerandosi da ciò che già potenzialmente li include dentro. In una dimensione che si fa mancanza, a mancare è il sapore-sapere del mondo (il sale), nella misura in cui per sapore dobbiamo anche intendere ciò che dà significato al mondo, che ce lo fa percepire e dunque “sapere”, conoscere quasi concretamente. Riguardo a ciò scrive Mengaldo:
«Qui, e non è la prima volta, la consonanza si stringe in paranomasia; ma, a parte che siamo in chiusura, sale è metaforico, la locuzione ricalca quella religiosa, divenuta notoria, del «sale della terra», e proprio perché si riferisce con un Witz poetico al sole, la concretizza. Dunque il circuito fonico è in funzione epigrammatica, diciamo pure intellettuale, e rovescia l’uno nell’altro astratto e concreto» [12].
Possiamo quindi considerare la coppia minima sole-sale come ciò che rende possibile la conoscenza, nella misura in cui, il conoscere si configura anche come un co-nascere. Cos’è infatti la conoscenza se non un co-nascere di nuovo al mondo, di volta in volta con occhi nuovi? Scrive B. Mattei:
«Una sorta di sensibilità anonima registra gli eventi, rivela paradossalmente un intreccio, quasi una reversibilità tra l’io e il mondo, soggetto e oggetto, vedente e visibile. La realtà sembra farsi l’altra faccia della potenza visiva del soggetto. Oppure entrambi, realtà e soggetto sembrano depotenziati, levigate superfici riflettentesi. La poesia dell’alba diviene allora celebrazione di un enigma: quello della visibilità della realtà e dell’essere, nel loro reciproco incrociarsi, nel loro permutare metamorfico» [13].
[1] Si fa qui riferimento alla Nuova Fenomenologia di ambiente tedesco sviluppatosi intorno agli anni ’60 del ‘900 che vede tra i suoi protagonisti studiosi come E. Straus, H. Schmitz, Böhme G., poi ripresi in Italia dal filosofo T. Griffero. Cfr. “Atmosferologicamente: per un’estetica degli spazi emozionali in G. Caproni”, in Dialoghi Mediterranei, n.41, gennaio 2020.
[2] A. Dolfi, Caproni, la cosa perduta e la malinconia, San Marco dei Giustiniani, Genova, 2014.
[3] O. F. Bollnow, Le tonalità emotive, trad. di D. Bruzzone, pref. di E. Borgna, Vita e pensiero, Milano, 2009.
[4] T. Griffero, Quasi-cose, la realtà dei sentimenti, Bruno Mondadori, Milano, 2013: 129.
[5] E. Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, trad. di G. Terzian, pref. di E. Paci, Einaudi, Torino, 1971: 133-134.
[6] T. Griffero, Quasi-cose, la realtà dei sentimenti, cit.: 131.
[7] G. Böhme, Anmutungen. Über das Atmosphärische, Tertium, Ostfildern, 1998.
[8] G. Böhme, Arkitectur und Atmosphäre, Fink, München, 2006.
[9] T. Griffero, Quasi-cose, la realtà dei sentimenti, cit: 125.
[10] Ivi: 122
[11] A. Baldacci, Giorgio Caproni, L’inquietudine in versi, Franco Cesari editore, Firenze: 22-23.
[12] P. V. Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, Introduzione all’opera in versi, I Meridiani, Mondadori, Milano, 2016: XV.
[13] B. Mattei, Otto poesie sull’alba. L’alba nella poesia di Ungaretti e Caproni, “In Limine”, n. 10, 2014.
[14] Fabio Magro fa notare come la struttura del sonetto in questione presenti una struttura affine allo schema del sonetto elisabettiano: ABAA BABb CDCC DD (Fabio Magro, Per uno studio della rima in Caproni. I sonetti, in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, vol. II: 1439-1462, segnatamente: 1451).

Clarissa Arvizzigno, Albe, nebbie, crepuscoli: la poetica delle quasi-cose in Giorgio Caproni, Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Clarissa Arvizzigno, ha conseguito una laurea triennale in Lettere (curriculum classico) presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Riflettere-riflettersi: la poetica dello sguardo in Palomar e in Ora serrata retinae. Studiando il ruolo della vista come strumento fenomenologico per la conoscenza del reale, si è occupata di Italo Calvino e Valerio Magrelli esaminandone analogie e differenze soprattutto in chiave estetica. Successivamente ha conseguito la specialistica in Italianistica presso l’Università di Bologna discutendo una tesi sull’opera di Caproni letta in chiave neofenomenologica. È impegnata in ricerche su temi di estetica e di letteratura comparata. Ha collaborato con alcuni portali antimafia online.

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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