Cristo si è fermato a Eboli fu dapprima esperienza, e pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità

Pubblicato nel 1945, all’alba di una nuova fase della storia italiana, ma scritto alcuni anni prima, “Cristo si è fermato a Eboli” narra dell’esperienza che Levi visse in Basilicata tra il 1935 e il 1936, confinato a Grassano e, successivamente, ad Aliano perché militante politico antifascista. L’opera si presenta dunque come rielaborazione postuma, memoriale e insieme intellettuale, di una precedente esperienza, e l’autore stesso non nasconde in alcun modo un così importante aspetto del testo: “Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte” <16.
In questa prima fase, è bene non raccogliere la grande mole di spunti che l’incipit dell’opera già ci offre – dal possibile riferimento al preambolo della “Nedda” verghiana <17, ai temi meridionalistici dell’aridità del suolo, della civiltà “altra”, dell’eterna rassegnazione contadina -, ma limitarsi a ribadire la franchezza dello scrittore torinese. Come sottolinea Brian Moloney, nel prosieguo del testo Levi non sarà sempre altrettanto sincero rispetto al proprio background di studioso del Mezzogiorno e di profondo conoscitore del meridionalismo <18, preferendo costruire per sé l’immagine di un osservatore tendenzialmente neutrale <19, impegnato a registrare reazioni e riflessioni che la Basilicata suscitava per la prima volta in lui: “Nel suo libro Levi mantiene il silenzio più assoluto: egli ci dice solamente che aveva conosciuto la Lucania mentre si trovava a Grassano. In realtà, dal momento che conosceva già qualcosa di ciò che avrebbe trovato al Sud, la sua permanenza a Gagliano ebbe l’effetto di fargli vedere il problema del Sud in termini di miseria umana, povertà e privazione, piuttosto che come un insieme di idee, ‘problemi’ e statistiche del
tutto astratti. L’occultamento della sua conoscenza pregressa è una strategia letteraria, adottata per evitare di alienarsi i lettori, che egli ragionevolmente riteneva fossero poco informati sui problemi del Sud, dopo un ventennio di silenzio fascista” <20.
Dati il carattere tutt’altro che improvvisato del testo e la particolarità di un intellettuale torinese perfettamente a conoscenza dei decennali dibattiti sulla Questione Meridionale, l’opera assume quindi un peso non indifferente nell’economia del più ampio orizzonte discorsivo sul Mezzogiorno che la letteratura contribuì a sviluppare durante il ventennio fascista. Occorre perciò entrare nelle dinamiche della scrittura, per identificare i caratteri testuali di una rappresentazione così importante per la storia culturale italiana, e per le implicazioni che risultò avere nel dibattito postbellico sulle condizioni economiche dell’Italia meridionale.
[NOTE]
16 C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino 2010, p. 3.
17 A proposito dell’incipit della famosa novella verghiana, tassello ineludibile per ogni analisi sul definitivo ingresso dell’ambivalente immagine del Mezzogiorno nella letteratura e nella cultura italiane, Moe riflette proprio sulla funzione di “cornice” che il tranquillo ripensamento postumo finisce per avere rispetto ai lettori impliciti, in prevalenza appartenenti alla borghesia dell’Italia centro-settentrionale di quegli anni: «Le prime pagine di Nedda prospettano un contrasto tra due mondi distinti: da una parte il salotto del narratore, spazio borghese fatto di agi, fantasticherie, e ricordi; dall’altra, il mondo di Nedda, la campagna siciliana in cui dominano stenti e miseria. A creare un legame tra i due, o, per meglio dire, a consentire il passaggio dal primo al secondo, è un volo della fantasia: fissando le fiamme nel focolare, il narratore riporta alla mente “un’altra fiamma gigantesca” che un tempo vide nell’“immenso focolare” di una casa colonica alle pendici dell’Etna […]. Questa scena descrive il processo immaginativo attraverso il quale il mondo della Sicilia rurale è “ri-visto”: Verga inizia da una descrizione non della Sicilia, ma del modo in cui prende forma la visione del narratore. È sintomatico che a rendere possibile questo atto immaginativo sia una sorta di cornice: il focolare domestico che viene prospettato come buono per “incorniciare gli affetti più miti e sereni”», Moe, Un paradiso abitato da diavoli cit., pp. 253-254.
18 Sul tema, cfr. Moloney, Italian Novels of Peasant Crisis cit., pp. 143-151.
19 Ivi, p. 159.
20 Ivi, p. 143, traduzione mia.
Giuseppe Domenico Basile, Ai confini di un Mezzogiorno orientalizzato. La Lucania di Levi e la Calabria di Pavese tra stereotipo e alterità, Basiliskos, Anno II, Istituto di Studi Storici per la Basilicata Meridionale, 2015

Tuttavia, il “Cristo” non è in alcun modo un’opera improvvisata, poco meditata, sebbene sia stata scritta in pochi mesi e con pochi apporti correttorii, come dimostra la collazione dell’autografo con il testo a stampa. In essa si assommano esperienze multiformi e diversi tentativi di approccio al reale. È lo stesso Levi a indicarne il percorso, sempre all’interno della menzionata lettera “L’autore all’editore”: «’Cristo si è fermato a Eboli’ fu dapprima esperienza, e pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità (con “Paura della libertà”), per diventare infine e apertamente racconto, quando una nuova analoga esperienza, come per un processo di cristallizzazione amorosa <13, lo rese possibile» (CSFE, p. XIX). Nel corso di questo lungo processo di sedimentazione, le numerose esperienze biografiche continuano, rimandandosi tra loro, a specchiarsi e ad accrescersi rispetto a quel primitivo e mitologizzato incontro. Come il confino in Lucania rappresentava il luogo in cui il pregresso sentimento leviano di non appartenenza o di rifiuto della storia ufficiale coincideva simpateticamente con il senso di esclusione dalla medesima da parte del popolo lucano, così la prigionia coatta del 1943 attiva l’esigenza di una fuga memoriale dal presente, risintonizzando circolarmente l’autore sulle frequenze di quanto vissuto nel 1935 <14: la guerra, l’invasione e il nascente fronte resistenziale si impastano nel tessuto narrativo con il ricordo del confino in Lucania conferendo alla narrazione, che ne sgorga, un inconfondibile sapore di vita che si dibatte con la morte. La memoria ha agito, quindi, sulla costruzione narrativa dell’opera, «operando – come scrive Massimiliano Mila – quella scelta non intenzionale che è piuttosto una decantazione spontanea e da cui dipende la dote suprema d’ogni narrazione: la naturalezza» <15. Si spiega pertanto come la rappresentazione dell’esperienza confinaria, decantata lungo otto anni e maggiormente idealizzata dalle intemperie del presente, non sia descritta in modo traumatico, come accade a Pavese <16, ma positivamente rivalutata e integrata in un sistema teorico di più ampio respiro che, dopo aver assunto una forma provvisoria nella pittura e nella poesia del confino, uniche testimoni di una sua immediata rappresentazione e avantesto poetico pittorico dell’opera in oggetto, trova poi una sua concreta e teorica esplicitazione in “Paura della libertà” e si trasforma, dapprima, in racconto orale <17, e da ultimo nell’opera che ancora oggi viene letta.
Tuttavia, traspare nelle pagine del “Cristo” un certo disorientamento nell’animo del protagonista allorché giunge nelle lande lucane: «Chi era – si chiede l’autore nel 1963 – dunque quell’io, che si aggirava, guardando per la prima volta le cose che sono altrove, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero, tra quelle argille deserte, nella immobilità secolare del mondo contadino, sotto l’occhio fisso della capra?». Come un «giovane ignoto e ancora da farsi», liberato dall’isolamento introspettivo ed esasperante della prigionia romana, egli deve ora confrontarsi con la realtà oggettiva del mondo, trovandosi «nell’altrove, nell’altro da sé», per poter scoprire «se stesso, fuori dello specchio dell’acque di Narciso». “Certo, l’esperienza intera che quel giovane (che forse ero io) andava facendo, gli rivelava nella realtà non soltanto un paese ignoto, ignoti linguaggi, lavori, fatiche, dolori, miserie e costumi, non soltanto animali e magia, e problemi antichi non risolti, e una potenza contro il potere, ma l’alterità presente, la infinita contemporaneità, l’esistenza come coesistenza, l’individuo come luogo di tutti i rapporti, e un mondo immobile di chiuse possibilità infinite, la nera adolescenza dei secoli pronti ad uscire e muoversi, farfalle dal bozzolo; e l’eternità individuale di questa vicenda, la Lucania che è in ciascuno di noi, forza vitale pronta a diventare forma, vita, istituzioni, in lotta con le istituzioni paterne e padrone, e, nella loro pretesa di realtà esclusiva, passate e morte” (CSFE, p. XVIII).
Il “Cristo”, «Bildung retroversa» <18 nel mondo ipostorico della Lucania, come sostiene Giuseppe Bonifacino, svela il volto liberatorio di due adolescenze distinte che maturano con pari energia <19: quella dell’esiliato, da una parte, che, dopo essersi specchiato nell’abisso dell’indistinzione e nel mondo degli «uomini nuovi», giunge (per contrasto) a una nuova definizione della propria identità; e quella dei lucani che, secondo l’autore del “Cristo”, in seguito a secoli di vessazioni e soprusi, si affacciavano allora per la prima volta alla Storia: «Così – scrive Levi, parlando di se stesso – egli si trovò a essere adolescente con un mondo adolescente e ineffabile, e giovane con un mondo giovanile di drammatica e pericolante liberazione, e adulto col farsi adulto di quel mondo, in tutti gli esseri fraterni di tutte le Lucanie di ogni angolo della terra» (CSFE, p. XIX).
L’identificazione del percorso esperienziale del soggetto esperiente e dell’oggetto esperito <20, accomunati dal medesimo rifiuto per la storia ufficiale, impone almeno due ordini di riflessioni tra loro strettamente connessi <21.
Innanzitutto, l’incontro con la Lucania costringe il confinato alla rottura del circolo narcisistico «come un Narciso cioè – specifica la Galvagno – che si è dovuto confrontare con lo spazio malinconico e desertico dell’al di là della superficie risplendente dello specchio» <22.
In termini psicanalitici, dunque, la fuoriuscita del soggetto dalla fase di auto-contemplazione, rivolta a una primaria costruzione dell’identità, dà adito a un investimento oggettuale che, in Levi, si concretizza in una dinamica relazionale in cui il «se stesso», teorizzato ne “I ritratti”, dopo essere venuto in contatto con l’oggettività arida delle terre lucane, riconosce in esse un fattore di profonda comunanza. Riconosce cioè in quelle terre desolate e umiliate dal dolore l’infanzia del mondo, chiuso in una dimensione archetipica su cui predomina una materna vitalità primigenia, che, così come ha dato vita a quel mondo, è la fonte battesimale del se stesso che Levi ha identificato nel «bagliore» materno. Solo grazie a questa «somiglianza» e all’«amore della propria somiglianza» (CSFE, XIX) – come scrive Levi adottando le parole di Scotellaro <23 – è permessa la catabasi nell’alterità lucana che non consiste nella «fuga nell’oggettività», bensì nell’instaurarsi di un rapporto amoroso fatto di fusione e di distacco tra il soggetto percipiente e la realtà percepita.
Proprio in virtù delle considerazioni teoriche che Levi compie negli anni precedenti alla stesura del romanzo, può essere compreso il carattere relazionale del “Cristo”. Infatti, il protagonista/narratore non è un individuo chiuso, alieno alle passioni e indifferente agli eventi, così come agli abitanti di Gagliano, bensì è il «luogo di tutti i rapporti» (CSFE, p. 223), è il luogo spaziale e temporale in cui il se stesso incontra l’altro. Solo in virtù di questa apertura, il personaggio di Levi può essere inteso come un personaggio costruito in antitesi all’uomo senza passioni, delineato nelle pagine di “Paura della libertà”.
[NOTE]
13 L’importanza del processo di «cristallizzazione amorosa» trova una sua semplice, ma efficace definizione nell’incipit di un editoriale, firmato da Levi e intitolato Cristallizzazione artificiale: «L’amore, secondo Stendhal, è un processo di “cristallizzazione”. Alla coscienza confusa, al sentimento vago, una immagine si fissa, e il mondo intero si determina in quella, isolata e unica». In «L’Italia libera», 6 ottobre 1945, s. 3, n. 239.
14 Giulio Ferroni a questo proposito sottolinea la coincidenza tra «tempo della storia e tempo del discorso», «entrambi tempi di prigione, tempi in cui l’io è per motivi diversi chiuso in una piccolissima porzione di mondo». In G. Ferroni, Il “Cristo” libro di frontiera, in Aa. Vv., Carlo Levi. Il tempo e la durata in “Cristo si è fermato a Eboli”, cit., p. 19. 15 M. Mila, Esplorare l’Italia, in Id., Scritti civili, Torino, Einaudi 1995, p. 15.
16 Sul confino di Pavese a Brancaleone Calabro e il mare come quarta parete di una prigione cfr. C. Pavese, La prigione, Torino, Einaudi 1990 e D. Stazzone, Il romanzo unitario dell’infinita molteplicità. Carlo Levi e il ritratto, cit., p. 97.
17 È nota la frequenza con cui Levi intratteneva gli amici, raccontando gli episodi principali del Cristo, poi realmente confluiti in seguito nell’opera. Cfr. C. Muscetta, Leggenda e verità di Carlo Levi, in Id., Letteratura militante, Napoli, Liguori 2007, p. 82.
18 G. Bonifacino, scrittura come utopia. In margine al Cristo di Levi, in «Quaderni di didattica della scrittura», 1/2013, gennaio-giugno, p. 29.
19 Così commenta la De Donato: «La stessa giovinezza, tesa in un impulso di straordinaria energia, tutta lume e intelligenza, che egli vede rifulgere nell’immagine del suo amico e maestro Piero Gobetti, vero antesignano di quel processo di formazione». In G. De Donato, Le parole del reale. Ricerche sulla prosa di Carlo Levi, cit., p. 9.
20 Lo stesso incontro, letto in particolare in una prospettiva antropologica, è stato intravisto da Maria Antonietta Grignani all’interno delle poesie del confino: «Le poesie di Levi danno ragione al contributo controcorrente di Giovanni Nencioni per una (futura) antropologia poetica, più attenta a ciò che unisce l’io all’integrum civitatis che non a quello che lo tiene in disparte». Introduzione a C. Levi, L’invenzione della verità. Testi e intertesti per Cristo si è fermato a Eboli, cit., p. IX. Cfr. anche G. Nencioni, Antropologia poetica, in Id., Tra grammatica e retorica, Torino, Einaudi 1983, pp. 161-175.
21 Si sposa qui la tesi della De Donato che fa coincidere, in merito al rifiuto per la storia ufficiale, la dimensione dell’interiorità dell’artista (il «dentro») con il mondo lucano (il «fuori»). Al contrario Franco Vitelli contesta questo giudizio critico, sostenendo che «la civiltà contadina è il polo mancante alla vitale dialettica dello sviluppo storico da recuperare a pieno titolo senza contemplazioni decadenti e fissata una volta per tutte in una sua stagione chiusa e ferma». Per quanto si è concordi nel rifiuto della tesi decadente delineata da Falaschi, si è altresì convinti che l’idea di una civiltà contadina come polo dialettico da recuperare al fine di rivitalizzare la civiltà occidentale non possa essere ricondotta a Paura della libertà, ma debba essere letta diacronicamente come uno sviluppo successivo, databile intorno alla fine degli anni Quaranta. Quindi la tesi di Vitelli può essere accettata solo se considerata come passaggio successivo rispetto all’iniziale coincidenza tra Levi e i lucani in merito a un netto rifiuto della Storia. Su questa posizione si colloca anche Giovanni Battista Bronzini che scrive: «Da questo momento (siamo nel 1950) il mondo contadino sembra perdere la sua specificità di luogo e di tempo per assumere un valore universale di elemento organico alla nostra civiltà». In G. B. Bronzini, Il viaggio antropologico di Carlo Levi. Da eroe stendhaliano a guerriero birmano, cit., p. 38. Cfr. F. Vitelli, Per un’introduzione al Cristo si è fermato a Eboli, in «La nuova ricerca», Anno XII/12, 2003, p. 293.
22 R. Galvagno, Carlo Levi, Narciso e la costruzione della realtà, cit., p. 41.
23 La citazione si trova in R. Scotellaro, L’uva puttanella. Contadini del Sud, cit., p. 25.
Riccardo Gasperina Geroni, Il sacro fluire delle forme. Per un’interpretazione critica dell’opera di Carlo Levi, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2016

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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