Da Colonia mi arriva finalmente il plico di Carlo

Nuto Revelli

Il disperso di Marburg
La terza opera individuata, in cui si affronta il tema dello “sguardo dell’altro” applicato al contesto della guerra partigiana, si discosta dai due romanzi che l’hanno preceduta per alcuni motivi sostanziali: prima di tutto, poiché non è un vero e proprio romanzo, ma il racconto, in forma di diario, di una ricerca storiografica che Nuto Revelli <24 ha condotto attraverso fonti orali e scritte per delineare l’identità di un disperso. <25
A ben vedere, l’autore costruisce un testo in cui non è centrale tanto il profilo del soldato quanto il racconto quasi in presa diretta della ricerca vera e propria, nel suo farsi quasi quotidiano: è una narrazione che plasma se stessa mentre nasce e cresce nell’incontro con i dati, con i testimoni, con gli amici. Il disperso ha quindi un lato fortemente metanarrativo in cui la voce narrante – lo studioso – e il protagonista – il tedesco di cui si cerca l’identità – si mescolano e si intersecano fino a scambiarsi i ruoli. A questo proposito scrive Giovanni Tesio, in una recensione al volume:
Ma è proprio in questo tentativo assiduo di trovare luoghi, di
precisare tempi circostanze movimenti, scavare archivi per risalire ad
un nome, per verificarne la consistenza, per accertarne l’identità che la
ricerca si delinea come vicenda interiore, come racconto di una
resistenza che viene dalla parte del soggetto e che all’altra Resistenza,
quella oggettiva, si accompagna in un rapporto di reciproca incidenza
[…]. Così facendo (e facendosi) Il disperso di Marburg diventa il
racconto del suo stesso esistere: la discussione del suo nascere […], la
controllata tentazione di dare libero sfogo ai ricordi personali e di
rituffarsi nel passato, ma anche la preoccupazione di non
sovraccaricare e pasticciare
. <26
L’oggetto di questa ricerca non è un compagno di Russia, o un partigiano, per cui sarebbe comprensibile l’interesse di Revelli, bensì un soldato tedesco non identificato che nel corso del 1944 risulta disperso nella zona intorno a Cuneo: forse disertore, forse catturato dai partigiani, forse fuggito, forse ucciso da qualche bandito.
Nuto Revelli ha sempre avuto a cuore la condizione dei dispersi. Nella sezione conclusiva del suo diario, Mai tardi, egli racconta la sua preoccupazione per la loro sorte e la conseguente decisione di stilare un elenco dei caduti al rientro in Italia, dopo il lungo viaggio dal fronte russo; e poi la lotta strenua contro la memoria fallace, il rincorrere le notizie più vaghe sulle sorti dei compagni, sul luogo e il giorno della loro morte, per poterne dare notizia alle famiglie. Revelli sente una sorta di pietà nei confronti del tedesco sconosciuto poiché è un disperso, come molti suoi compagni d’arme in Russia; questa condizione sfuma l’avversione naturale che potrebbe sentire per qualcuno che gli è stato nemico e permette il rapporto simpatetico.
In questa ricerca, il tema dell’altro – in questo caso il vero nemico, il tedesco traditore in Russia, e poi il nazista invasore, razziatore, il soldato delle rappresaglie e delle fucilazioni di massa – entra di prepotenza, e dall’inizio: <27
La prima volta che sentii parlare del «tedesco buono», del cavaliere
solitario, risale a una ventina d’anni fa […]. Mi dedicavo, in quei
tempi, al Mondo dei vinti, e anche se non volevo più saperne della mia
guerra e della guerra degli altri ero però sempre molto attento al tema delicato e controverso dei rapporti tra le formazioni partigiane e le
popolazioni contadine
. <28
Si affermano così due identità diverse – l’io e l’altro – che non sono mai giunte prima a parlarsi, a confrontarsi. Lo stesso Nuto confessa nelle pagine del diario un grande interesse per questa vicenda e insieme, un crescente imbarazzo nel trovarsi – lui che, soldato in Russia e poi partigiano, ha odiato i tedeschi dal profondo – improvvisamente e appassionatamente legato alle sorti di uno dei nemici. Egli racconta la fatica di resistere all’attrazione esercitata su di lui dalla storia del tedesco e lo sforzo di opporsi alla tentazione di immaginarlo come una persona buona, infrangendo così l’idea del nemico sanguinario e violento tout court. Revelli teme di identificarsi in questo giovane, che immagina provato dalle esperienze del fronte come lo era lui:
L’immagine di quel cavaliere solitario che s’intratteneva a scherzare
con i bambini mi infastidiva, mi sembrava troppo leziosa per essere
autentica. Rivedevo davanti agli occhi i bambini ebrei di Stolbtzj,
ridotti come passeri a cui avessero spezzato le ali, e continuavo a
pensare che tutti i tedeschi, e non solo le SS di Stolbtzj, erano bestie,
non uomini. Ma questa reazione istintiva, rabbiosa, non mi portava
lontano. Non bastava a rimuovere quell’immagine del «tedesco
buono», che introduceva una nota di disordine nell’ordine delle mie
certezze. «Forse non erano tutti uguali i tedeschi», mi dicevo nei rari
momenti di serenità, ma a denti stretti, come se temessi di concedere
troppo a un nemico che meritava solo odio e disprezzo […]. Quando
la fantasia mi prendeva la mano, mi immedesimavo pericolosamente
in quel «disperso», e lo vedevo giovane, ma già segnato dalla guerra,
già stanco «dentro» come un vinto. Proprio com’ero io dopo
l’esperienza del fronte russo. Ma non appena la pietà prendeva il
sopravvento, scattava l’allarme, e interrompevo i miei sogni a occhi
aperti
. <29
E ancora:
Christoph ha ragione quando mi suggerisce di dare libero sfogo ai
miei ricordi. Non è soffocandoli che riuscirò a tenerli quieti. Ma dovrò evitare che le due storie si sovrappongano. Soprattutto dovrò
evitare di immedesimarmi troppo nell’episodio di San Rocco
. <30
Da queste parole traspare la paura di Revelli di avvicinarsi troppo al disperso, di affezionarsi; quasi che questa indagine sulla figura di un nemico possa, in qualche modo, essere letta come un tradimento nei confronti della memoria dei compagni, morti in battaglia per mano dei tedeschi.
Di scoperta in scoperta, invece, lo studioso non riesce più a mantenere il distacco che si è imposto al principio dell’indagine. Al contrario, comprende che per una corretta rivisitazione dell’evento è necessario il proprio diretto coinvolgimento e il confronto con la memoria altrui. Di fronte ad alcuni contadini della zona che stanno raccontando ciò che ricordano dell’8 settembre, la voce narrante così riflette:
La conversazione che seguì, animatissima, mi rivelò che tutti avevano
un gran bisogno di parlare, e a briglia sciolta. Io non interferivo,
lasciavo che le voci si intrecciassero e sovrapponessero liberamente.
Chi rievocava il caos dell’8 settembre, chi infieriva contro i fascisti e i
tedeschi, responsabili di una serie infinita di stragi ed eccidi. Gira e
rigira, ognuno voleva raccontarmi la sua storia. Ciò che accendeva il
mio interesse era il gioco della memoria, il contrasto tra la mia verità e
la verità degli altri. La guerra rivisitata cinquant’anni dopo, questo il
tema che prendeva forma a mano a mano che il discorso saliva di
tono, cresceva. Io ascoltavo tutto, anche se percepivo che il tarlo della
«mia» guerra riprendeva a scavare.
<31
Attraverso questo confronto, utile forse solo ora che è passato del tempo dagli eventi, Revelli mette in campo se stesso, la propria memoria di quei giorni, tra il maggio e il giugno 1944, e la sua stessa idea della guerra. In questo passaggio, la voce narrante ribadisce che la distanza – temporale e anche, se possibile, emotiva – è indispensabile perché il «gioco della memoria» funzioni e si raggiunga un risultato costruttivo nel ripensare la guerra civile con un occhio nuovo, che sappia considerare anche l’avversario.
Si delinea, in sostanza, un percorso di avvicinamento tra l’io e l’altro, che parte da posizioni completamente contrapposte per giungere, si può dire, quasi ad una sintesi: l’io di Revelli si riconosce nella persona del tedesco poiché entrambi hanno visto inesorabilmente segnati dalla guerra i loro anni di gioventù, a causa di scelte altrui. Scompaiono quindi gli schieramenti e le appartenenze di campo per dare spazio ad un confronto diretto con l’individuo, che appare nella sua umanità perché privato del ruolo impostogli dagli eventi. L’itinerario è sempre, però, condizionato dalle resistenze di Nuto, che non vuole lasciarsi trasportare, anche se inizia a correggere i propri pregiudizi. Nel brano successivo, infatti, lo vediamo scendere dalle sue posizioni intransigenti:
Nino mi dice: «Dobbiamo ancora accertare se era un tedesco, o un
russo, o un polacco». Poi aggiunge: «Se era un tedesco, di quelli di
allora, perché tutto questo tuo interesse?» «Io son convinto che fosse
un tedesco, ma non so nemmeno quali reparti, nel periodo compreso
tra i mesi di maggio e di agosto, erano presenti nella caserma di San
Rocco. Non provo alcuna pietà nei confronti dei tedeschi. Ma se è
esistito anche un solo tedesco diverso dall’immagine che io mi ero
fatto di loro, vorrei proprio conoscerne la storia
. <32
Nel suo progredire, l’indagine arriva ad annullare le paratie stagne create dal contesto bellico, che dividevano gli amici dai nemici e legalizzavano l’uso della violenza nei loro confronti omologandoli all’immagine del nazista violento, sanguinario, privo di qualsiasi pietà. Svelando, invece, il lato umano dell’avversario, questa ricerca rimette in discussione la figura del nemico e, di riflesso, anche quella dell’intera guerra di Liberazione, che rivela i propri meandri.
Si noti, però, che Revelli non sta rifiutando o criticando negativamente le proprie azioni di partigiano e la guerra nella quale ha combattuto. Il suo scopo, da acuto intellettuale, è spingere lo sguardo oltre le proprie convinzioni per ampliare il quadro della guerra civile, ma non rivedere il passato della Resistenza, mettendone in discussione le basi. Attraverso le parole del partigiano che ha ucciso il presunto disperso, il racconto ricrea per un attimo il clima della guerra civile, in cui la violenza era l’unica forma di comunicazione esistente con il nemico – si sente qui l’eco delle parole di Mendel l’orologiaio – e mostra al lettore quanto privi di scelta fossero i combattenti nei confronti dei tedeschi invasori:

Che cosa pensa di quest’episodio, oggi, quasi cinquant’anni dopo? –
RENZO: Non avevo ancora vent’anni, il più anziano di noi era
Andrea che di anni ne aveva ventidue. Eravamo giovani. Il destino ha
voluto che ci imbattessimo in quel tedesco, e va a distinguere in quei
momenti se era uno da ammazzare o meno. Per me i tedeschi erano
tutti uguali. Avevano ucciso il fratello di mio padre nei giorni dell’8
settembre, ne avevano combinate di tutti i colori, e se catturavano
uno di noi lo appendevano a un gancio. I tedeschi…Molti saranno
stati costretti a essere feroci, avranno dovuto eseguire degli ordini.
Non li odio più. Ma non li perdono.
<33

Anche la voce di Carlo – lo storico Carlo Gentile, che nel racconto figura come uno degli aiutanti di Nuto nella ricerca dell’identità del disperso – interviene a rimettere a posto i tasselli di una storia che la drammatica vicenda di Rudolf contribuisce a scomporre, mettere in disordine:
Carlo non accetta la mia ipotesi del «tedesco buono» e mi invita
amichevolmente a tornare con i piedi per terra. «[…] Per ciò che
riguarda Rudolf Knaut o i due autisti fucilati a San Matteo, questi
sono stati tre fra milioni di vittime della guerra, e certo non fra le
vittime più innocenti. La fine di Rudolf è stata una fine “stupida”,
però anche lui vestiva l’uniforme con l’aquila nazista. Se lui non fosse
morto allora chissà, forse un giorno o una settimana dopo avresti
potuto trovartelo di fronte come comandante di un reparto di
rastrellatori nelle tue valli; oppure se tu fossi caduto prigioniero, forse
sarebbe toccato a lui comandare il plotone di esecuzione. Nella
situazione di allora sarebbe stato certamente possibile. Forse Rudolf
Knaut era veramente un “buono”, forse non era nazista e odiava la
guerra, ma avrebbe potuto essere anche diversamente. […] insomma
anche lui era un ingranaggio della macchina bellica tedesca messa a
servizio dei nazisti. La stessa macchina che ha scatenato la guerra e
l’ha portata in tutta Europa.
<34
Quando il tedesco di Revelli avrà finalmente un volto, e mostrerà le sue fattezze di uomo comune, con un carattere, un passato, una storia famigliare, sarà ancora più evidente l’insensatezza, già sottolineata in Mai tardi e nella Guerra dei poveri, di un conflitto che ha contrapposto e fomentato l’odio tra due gruppi umani invece così simili tra loro, causando ad entrambi dolori e sofferenze. La voce narrante resta particolarmente colpita dalla fotografia del tedesco, quella di un ragazzo giovane, dallo sguardo limpido:
« […] Il suo aspetto mi sembra corrispondere all’immagine che ti eri
fatto di lui: sguardo sensibile, capelli ondulati, tagliati “alla tedesca”,
sicuramente molto alto e magro; a me dà l’impressione di un bravo
ragazzo […]». Osservo a lungo la fotografia di Rudolf, e provo una
forte emozione. Morire in combattimento fa parte del gioco, in guerra
si va con due sacchi, uno per darle e l’altro per prenderle. Ma morire
quando meno te l’aspetti, in un ambiente che giudicavi più di pace che
di guerra, è una beffa atroce. Quanto è stupida e assurda la guerra!
<35
Di fronte all’immagine di Rudolf, quindi, e alla triste storia della sua famiglia – si scopre infatti che l’uomo aveva un fratello maggiore, morto nella campagna di Russia; i genitori, rimasti soli, si sono chiusi nella disperazione, dopo aver perso entrambi i figli – Revelli è invaso da quel sentimento di pietà e di compassione che nelle prime pagine ha cercato di combattere ma che ora invece accoglie senza resistenze. È il momento del riconoscimento di se stesso nelle esperienze dell’altro:
Da Colonia mi arriva finalmente il plico di Carlo. Contiene la
domanda autografa del padre di Rudolf, per la dichiarazione della
«morte presunta» e altri documenti. Leggo subito la lettera che il
capitano Lemberg ha inviato ai familiari di Rudolf, e la commozione
mi prende alla gola […]. Ha ragione Carlo: siamo alla svolta decisiva.
Leggo e rileggo i documenti di Marburg, e il sentimento di pietà è così
profondo da annullare ogni compiacimento per il risultato conseguito.
Sono più triste che contento. Questi fogli di carta, apparentemente
così aridi, un po’ ingialliti dal tempo, mi restituiscono il destino di una
famiglia cancellata dalla guerra. Mi intimidiscono. Sembrano le pagine
intime di un testamento.
<36
La ricerca di Revelli si chiude, quindi, con la scoperta dell’identità del tedesco, del suo destino e del suo passato prima della guerra. In questo modo si conclude anche il processo di riconoscimento che ha prima allontanato Revelli dal disperso e poi l’ha spinto verso l’indagine. In quel tedesco che cercava aria fuori dalla caserma, passeggiava per i campi e salutava i contadini egli rivede un po’ del se stesso alpino in Russia, insofferente verso l’ambiente della caserma e sempre in cerca di contatti con la popolazione. Scrive infatti:
«Quando sei venuto a Cuneo per la prima volta – gli rispondo, – ero
convinto che quel tedesco avesse vissuto un’esperienza di guerra
almeno drammatica quanto la mia, e mi ero immedesimato in lui. Sì,
io ero tornato molto diverso dal fronte russo: solo la ribellione mi
dava la forza di vivere. E mio padre per troppo affetto mi parlava
delle mie medaglie, forse perché temeva che mi considerassi un vinto.
Nelle retrovie del fronte russo, dopo il disastro della ritirata, non
pochi di noi avevano cercato un dialogo con la popolazione, con la
gente delle isbe di cui eravamo ospiti. Era l’unico modo per
riaggrapparci alla vita.»
<37
Scopre così che, come lui, Rudolf aveva una famiglia, un fratello soldato, una vita lontana dall’esercito fatta di passioni, inclinazioni e abitudini del tutto estranee alla violenza. E, appunto, si riconosce in quest’immagine, che perde i contorni del nemico da uccidere per assumere quelli di un uomo comune, da comprendere e compiangere.
Per concludere quindi, possiamo affermare che, a molti anni di distanza dai fatti, Revelli tenta di avvicinarli da un’ottica molto diversa rispetto a quella direttamente autobiografica adottata fino a quel momento. Sceglie il punto di vista di un nemico che però non si svela immediatamente e va rincorso a ritroso nel passato, tra fonti orali, scritte e memoriali. Questa indagine conduce la voce narrante a riconoscersi nella storia dell’altro, che perde i contorni dell’avversario per assumere quelli di uomo.
Con Il disperso di Marburg si chiude il cammino tra i romanzi che si avvicinano alla guerra partigiana con un occhio “altro”.

[NOTE]
24 NUTO REVELLI, Il disperso di Marburg, Torino, Einaudi, 1994, da cui cito.
25 Un lavoro simile ha condotto Davide Pinardi nel suo romanzo Il partigiano e l’aviatore. Vite troppo brevi di vincitori e vinti ugualmente dimenticati (Roma, Odradek, 2005). La sua indagine, condotta sulla falsariga della ricerca di Revelli, verte su due figure: un partigiano e un aviatore dell’esercito italiano.
26 GIOVANNI TESIO, La Resistenza in alcuni scrittori piemontesi: Ginzburg, Calvino, Pavese, Fenoglio, Revelli, in ID., Oltre il confine. Percorsi e studi di letteratura piemontese, Vercelli, Mercurio, 2007, p. 173.
27 Dopo la ricerca per Il disperso di Marburg, Revelli continuerà ad interessarsi al tema dell’altro, accantonando la passione per la storia corale che fino a quel momento aveva mosso le sue ricerche, dal Mondo dei vinti all’Anello debole. Il prete giusto (Torino, Einaudi, 1998) in cui l’intellettuale presta la propria penna per raccogliere la storia di vita di don Viale, è esempio di questo interesse. Don Viale, parroco di Borgo San Dalmazzo, è un “giusto” e un “vinto” allo stesso tempo: “giusto” poiché, prete ribelle e antifascista, ha prestato la propria opera alla causa della Resistenza e ha così messo in salvo decine di ebrei in fuga; “vinto”, come Rudolf Knaut, poiché sospeso a divinis dal Vaticano nel 1968, per motivi mai chiariti. Come esiste una relazione tra le due figure, così esiste tra le due opere. Secondo Gianluca Cinelli, che ha condotto un approfondito studio sull’opera omnia di Nuto Revelli, le riflessioni avviate nel Disperso hanno permesso la stesura del Prete giusto. Egli sostiene che «Solo dopo l’esperienza della ricerca sul disperso di San Rocco, dalla quale Revelli uscì più che mai convinto che è nella singolarità dell’esperienza umana vissuta e patita che è possibile trovar la pietà della storia, la vicenda di don Viale apparve sotto una nuova luce […]. Don Viale è un “vinto” così come lo era in condizioni e per motivi diversi Rudolf Knaut, uomini che la storia ha colpito nella loro dignità umana a causa del loro ruolo storico […]. Entrambi emergono dalla storia “nudi”, chiedendo che sia riconosciuto l’uomo dietro la divisa e dietro l’abito per quel che hanno compiuto e per quel che sono stati.» (GIANLUCA CINELLI, Nuto Revelli. La scrittura e l’impegno civile, dalla testimonianza della Seconda Guerra Mondiale alla critica dell’Italia repubblicana, Torino, Nino Aragno Editore, 2011, p. 254.)
28 N. REVELLI, Il disperso di Marburg, cit., p. 6.
29 Ivi, pp. 7-8.
30 Ivi, p. 71.
31 Ivi, p. 15.
32 Ivi, p. 35.
33 Ivi, p. 111.
34 Ivi, p. 151.
35 Ivi, p. 137.
36 Ivi, p. 147.
37 Ivi, p. 156.

Sara Lorenzetti, Narrativa e Resistenza: “invenzione” della letteratura e testimonianza della storia, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, Anno accademico 2015-2015

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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