“Diceria dell’untore” si potrebbe definire un romanzo in rosso e nero

Il 25 novembre 1981 Attilio Bertolucci così scriveva a Gesualdo Bufalino: «Caro Bufalino, […]. Sono stato, per mezzo di Siciliano, uno dei primi lettori della “Diceria”: con tutto il sangue che lo macchia, è un’opera che aumenta la nostra vitalità. L’effetto del sangue, meno innocente, del Macbeth di Verdi» <1. Il grande poeta parmigiano indovinava sin da subito un aspetto centrale di “Diceria dell’untore”, ossia l’innegabile violenza visiva. La funzione plastico-costruttiva del colore, da intendere come elemento strutturale della visione, si dispiega pagina per pagina lungo tutta la “Diceria” e la bellezza quasi demoniaca del colore rosso si accompagna spesso a quella naturalmente inquietante del nero. Se Bufalino avesse avuto la libertà di scegliere le illustrazioni per la copertina, le avrebbe certamente individuate quasi tutte nella pittura espressionista. Questa non è tuttavia una suggestione visiva basata solo su un’impressione immediata: lo stesso Bufalino, in margine ad una lettera scrittagli da Elvira Sellerio il 30 gennaio 1990, appunterà con la biro una serie di nomi di artisti e di correnti pittoriche. Solo un nome resta purtroppo ad oggi indecifrabile (nonostante i reiterati sforzi di decifrazione, se ne comprende appena la lettera iniziale: “A […]” <2). Queste le parole di Elvira Sellerio: «Caro professore, le mando le bozze di “Diceria”: sono molto contenta di rifare i suoi due romanzi nella collana “Il Castello” della quale sono molto orgogliosa. Aspetto le sue correzioni e spero intanto di mandarle al più presto il volume di ‘Argo’. […]». <3
Molto probabilmente i nomi appuntati in margine alla lettera, scritti quasi come fossero un elenco, erano idee di Bufalino da suggerire per una copertina: «Abatellis, Ensor, David, Espress., A.[…], Soutine, Schiele» <4. Se, come scrive Zago, all’interno del romanzo “vi è una simbologia degli spazi (una claustrofobia che è però, pure, claustrofilia)” e anche una simbologia dei tempi, per l’analogia che può stabilirsi, da una parte, fra quella «tracotante» estate siciliana, dal gusto, vagamente lampedusiano, di biblica maledizione, e lo stato di quei malati, «così teatrale, in biblico fra vanagloria e spavento», e dall’altra la salute del protagonista, inaspettatamente riconquistata, e il contesto autunnale in cui si colloca […]” <5 così è da aggiungere anche una simbologia del colore. Di più: come scrive Fried, “Diceria”, «in qualità di romanzo postmoderno ristruttura anche simboli, metafore, archetipi: come la presenza dei colori, dei quattro elementi primordiali, della nave (o tartana, o arca, ecc) della Rocca […]» <6.
“Diceria dell’untore” si potrebbe definire un romanzo in rosso e nero: due tinte che dovevano colpire parecchio Bufalino se sono non a caso i colori che egli attribuisce al suo amatissimo Paul-Jean Toulet, delle cui “Contrerimes” lo scrittore di Comiso è stato finissimo traduttore. Nel saggio introduttivo alle “Controrime” <7, Bufalino scriverà parole che sembrano ben adattarsi alla storia dei due protagonisti di “Diceria”, a quella che lui stesso definisce, in una lettera del 1976 all’amico Romanò, una «vicenda, addirittura d’amore, in cui dominano vanità, tremore e teatro» <8. Di Toulet e della sua poesia egli sottolinea infatti “[…] il ritorno implacabile di due tinte, nero e rosso, nella cui guerra o forse viziosa alleanza, abbiamo già visto adombrarsi dolorose metafore di eros e morte… per cui avviene che ora fiotti alle sponde del quadro un mare di tenebra, con al centro una porpora che langue; ora trionfi lo squillo del
rosso, insidiato però da una macchia, nero pistillo, oscuro giacinto di piacere e pena. Non c’è controrima, si può dire (ed è strano che non sia stato notato), in cui i due colori non appaiono, aggiungendo di volta in volta un tratto più risentito al tragico pudore di un’anima e alla serietà della sua sofferenza: il rosso che è rubino, sangue vampa, desiderio; il nero che è notte, sesso, paura, peccato…” <9.
Osservazioni significative rilevate per meglio definire la poesia di Toulet ma che paiono ben adattarsi anche alle atmosfere cromatiche di “Diceria” e che Bufalino pare abbia quasi pensato per se stesso: la scrittura di “Diceria” d’altronde ha una gestazione più che decennale e Toulet è un poeta scoperto e definitivamente amato – assieme naturalmente a Baudelaire – appunto negli anni in cui probabilmente germinava il romanzo che avrebbe elettrizzato Bertolucci:
«Con tutti i libri deprimenti e anemizzanti che ci sono in giro, mi sentivo elettrizzato», scriverà infatti nella lettera sopracitata il poeta di Parma. Può forse sembrare semplicistico parlare di rosso e nero quando una consolidata tradizione di eros e morte ha già percorso secoli di letteratura, dopo che Stendhal aveva già elevato questi due colori a gloria letteraria (attribuendogli certamente ben altri significati); sono tinte che riconducono immediatamente all’Espressionismo, corrente artistica appuntata («Espress.») da Bufalino in margine alla lettera sopracitata. Uno dei maggiori e più inquietanti rappresentanti del tormentato movimento tedesco è Oskar Kokoschka, ossessionato dal colore rosso: colore «tragico e perturbante» scriverà Eva Di Stefano, “che suona sin dagli esordi [della pittura di Kokoschka] come una dichiarazione di poetica. Dispiegando una gamma dall’avvinato al lillaceo, è tinta dominante che arroventa la pittura, screzia i fondali, o stinge le figure. Lo si avvertirà sotto la pelle di ogni quadro del lungo percorso dell’artista, come se pulsasse sotterraneamente anche laddove dominano cromie di grigi altrettanto spietati o verdazzurri nottivaghi, fino a riemergere in superficie, irriducibile come uno sbocco di sangue. Il rosso, dichiarerà l’artista maturo, è il colore più amato perché contiene la passione della vita” <10.
Come nella pittura di Kokoschka, così avviene nelle pagine di “Diceria”; andando all’incipit infatti il lettore si ritrova in un’atmosfera nebulosa da sogno per poi precipitare in un’indefinita oscurità: «O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba nel vuoto» <11. C’è lo spazio per il grigio, colore privo di risonanza, inconsolabile, oppresso, che è «colore silenzioso e immobile», come scrive Kandinsky, e «più diventa scuro, più si accentua il senso di solitudine e di abbandono e cresce il suo senso di soffocamento» <12.
Nell’incipit del romanzo sembra quasi visualizzarsi una pittura di Chaime Soutine, altro nome che si riscontra negli appunti autografi di Bufalino in margine alla lettera della Sellerio: nella sua drammatica pittura, come scrive Varisco in un articolo che Bufalino conservò fra le sue carte, «le prospettive subiscono una forzatura visionaria con quei piani precipiti, quelle voragini diagonali, su cui gli oggetti non slittano ma restano in equilibrio per quegli attriti angosciosi che si verificano nei sogni» <13. La tonalità del grigio non tarda infine a scurirsi passando all’inesorabile nero. Come dichiara lo stesso Bufalino, il romanzo ha una struttura circolare che utilizza il nero in apertura e in chiusura. Rientrando pienamente in quello che Zago definisce «gusto analogico o anche […] dello sconfinamento» <14, Bufalino, nelle sue puntualizzazioni, adopera spesse volte termini appartenenti al linguaggio dell’arte: si avvale delle teorie di Le Corbusier per spiegare ad esempio la struttura circolare di “Diceria”, per rispettare “un’esigenza di costruzione e d’ordine. Sicchè un progetto unitario si evincesse dalle singole unità e cellule abitative, alla Le Corbusier. E ne risultasse un edificio dispar et unum. Esempio, uno solo: l’incipit e il desinit di “Diceria”; coi due motivi del pedaggio e della notte, comuni, come a chiudere il cerchio: “O quando tutte le notti […] l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi…; e alla fine “portarmi la mia “Diceria” al sicuro sotto la lingua, come un obolo di riserva […] sulle soglie della notte.” ” <15
Al centro del nero trionfa il rosso: è il sangue di Marta che morirà per emottisi; nel nome “Garance” (il vero nome di Marta?) sembra d’altronde essersi iscritto un destino. Una critica ben consolidata insiste sulla ludica scrittura di Bufalino, che lavora coi suoi inchiostri per sotterfugi, trastullandosi con le parole, senza darsi mai alla facile interpretazione, prediligendo volta per volta la fatica e il divertimento del gioco a nascondere: in “Diceria”, scrive Papa, «la scrittura procede secondo il noto procedimento barocco di dare sostanza carnale ai ghiribizzi della fantasia […]; del barocco, ma più ancora del rococò, qui non manca nessuna trappola» <16. Ciò può essere ben detto in special modo per i nomi. Se, come scrive Traina, «questo gioco di Bufalino con i nomi, e con reticenze su di essi, ricorda subito l’analogo gioco a nascondere operato da Montale verso donne, amate, conosciute, sposate o solo immaginate a partire da una fotografia» <17, è proprio da un nome scritto sul retro di una fotografia, se fittizio o reale non sarà mai dato sapere al lettore, che è segnato il destino di Marta. Non solo dunque all’interno del romanzo si ha il più scoperto scambio vocalico “Marta-Morta”, ricordato dalla stessa protagonista <18, ma compare il nome “Garance” con il quale, pare, la ballerina veniva chiamata dall’amante di una volta <19. Se Garance è certamente, come ci ricorda Bufalino nelle sue “Istruzioni per l’uso”, il nome di Arletty nel film di Carnè “Les enfants du paradis” (1945) <20, la sua traduzione dal francese è “garanza”, ossia “robbia” e quindi, per esteso, “rosso sangue” <21. Così l’io narrante racconta la morte della donna: «[…] mentre lei si sentiva salire alle labbra un irrefrenabile zampillo di rossa schiuma e di morte. Un sangue immenso, seminato di bollicine rotonde, le irruppe dal petto e allagò le lenzuola, enfatico, esclamativo» <22 . Con queste parole Marta racconterà le successive crisi che preannunciano il suo destino: «[…] infine sputai sangue: e l’epilogo si scrisse da sé» <23.
La pittura di Soutine, artista affascinato «dal gusto sensuoso della materia, dalla fisica e densa sontuosità del colore» <24, contribuisce ancora una volta a creare un adattamento figurativo di alcune scene di “Diceria” e a lasciare supporre le immagini che Bufalino avrebbe forse scelto per il suo romanzo: basti pensare, come scrive ancora Negri, «alla fiammata ardente dei “Gladioli” del 1919, una tela dove tutti gli elementi – il fondo bruno, la fragile brocca, gli steli appena abbozzati – sono subordinati al voluto trionfo del rosso pieno, denso e carnoso, quasi gocciante sangue, dei grandi fiori» <25. O forse è un altro dipinto? All’interno di “Diceria”, l’io narrante utilizza un ricordo cinematografico per descrivere il suo incontro d’amore e morte: “Ripensai ad un film di tanti anni prima, al sorridevole piagnisteo del suo titolo: ‘Amanti senza domani’. Rividi i due su un ponte di transatlantico. William Powell, lui, un losco galante che la sedia elettrica attende alla fine della traversata e a cui gli sbirri consentono benevolmente di passeggiare senza manette; Kai Francis, lei, spacciata dai medici, che ogni sera, per scordarsene, indossa una pelliccia più bella. S’incontrano, e ognuno sa della condanna dell’altro, ma finge di non saperlo. E ballano insieme, in un grande salone deserto, e si dicono parole sotto la luna…” <26.
C’è un quadro di Soutine che rappresenta una donna vestita di rosso con addosso una pelliccia nera e che potrebbe ricordare la donna che ogni sera, beffando la morte, «indossa una pelliccia sempre più bella». Le parole dette sotto la luna ricordano inoltre anche (e soprattutto) la “Danza della vita” di Munch, la cui pittura si caratterizza non solo per gli angosciosi soggetti ma anche per la violenta cromia, riflesso di una tormentata genialità. Secondo Argan, il colore della pittura di Munch deve bruciarsi «nella sua stessa violenza: non deve significare ma esprimere» <27. Nella “Danza della vita” il rosso fiammeggiante della veste della donna avviluppa l’uomo, vestito di nero: la linea di contorno serra ogni forma e la isola da quelle circostanti. D’altronde, l’aggressività dell’immagine dell’Espressionismo nasce proprio dal realismo simbolico di Munch e il simbolo per Munch, come scrive ancora Argan, «non è qualcosa che va oltre la realtà ma piuttosto qualcosa di morto che si mescola alla vita» <28: esattamente ciò avviene pagina per pagina, nelle storie di vita e morte raccontate in “Diceria”. Le sue immagini sono spesso prive di simboli inespressi e quindi sono ancor più inquietanti, aggressive e pericolose. Come sottolinea ancora Argan, l’immagine per Munch non deve provocare un’impressione nell’occhio ma deve piuttosto penetrare e infine colpire nel profondo. Per la collana “Il Castello”, Sellerio sceglierà un’altra versione della “Danza della vita”, non meno angosciosa e drammatica che probabilmente non dovette dispiacere a Bufalino.
[NOTE]
1 Presso la Fondazione Gesualdo Bufalino di Comiso sono conservate due lettere di Attilio Bertolucci. Nella lettera citata il poeta racconta della sua emozione nello scoprire che anche Bufalino, come lui, ha amato film come «[…] il bellissimo e ignoto ai più ‘Amanti senza domani’. Poi Toulet…», lasciando la frase in sospeso, come se da quei punti di sospensione si dischiudesse tutto un mondo di letture preziose e segrete che non necessitava più di alcuna spiegazione.
2 Una valida congettura mi è stata suggerita da Nunzio Zago, direttore scientifico della Fondazione Bufalino: la parola potrebbe essere “Anagrama” e si potrebbe collegare al nome della casa editrice spagnola (Anagrama, appunto) che pubblicando “Diceria” (‘Perorata del apestado’, 1983) ha utilizzato come immagine da copertina un’inquietante opera di Carlos Mensa dal titolo ‘La visita’. Il soggetto dovette piacere a Bufalino, se egli stesso la ripropose fra le illustrazioni che corredano il testo di ‘Qui pro quo’.
3 Le lettere di Elvira Sellerio scritte a Bufalino e conservate presso la Fondazione di Comiso sono 27.
4 La Casa Editrice Sellerio pubblicherà il volume “Diceria dell’untore” per la collana “Il Castello”, 1990, riportando in copertina un particolare della “Danza della vita” di Edward Munch, opera del 1916. Nella scelta di questa immagine torna in forma moderna la metafora medievale della vita come danza, tema sotterraneamente presente in “Diceria” e che verrà analizzato in seguito.
5 N. Zago, Per rileggere «Diceria dell’untore», in “Diceria dell’untore”, adattamento teatrale di V. Pirrotta, inaugurazione stagione teatrale 2009/2010, Catania, Teatro Stabile, p. 8.
6 I. Fried, Gesualdo Bufalino, «Diceria dell’untore», un barocco novecentesco, in Pirandello e la narrativa del Novecento, a c. di E. Lauretta, Palermo, Palumbo, 1998, p. 201.
7 P. – J. Toulet, Le Controrime, con saggio introduttivo di G. Bufalino, Toulet, sortilegio lontano, Palermo, Sellerio, 1981, pp. XXI – XXII.
8 A. Romanò – G. Bufalino, Carteggio di gioventù (1943-1950) a c. di N. Zago, Valverde (CT), Il Girasole, 1994, p. 205.
9 Kokoschka, testo a c. di E. Di Stefano, in «Art e Dossier», Milano, Giunti, 1997, p. 5.
10 Ivi, p. 4.
11 G. Bufalino, “Diceria dell’untore” [1981], Bompiani, Milano, 1992, p. 7 (nuova edizione accresciuta da pagine inedite e degli archivi dell’opera oltre che dalle Istruzioni per l’uso, prefaz. di F. Caputo e un’intervista di L. Sciascia).
12 W. Kandinsky, Il linguaggio delle forme e dei colori, in Id., Lo spirituale nell’arte [Über das Geistige in der Kunst, Insbesondere in der Malerei, 1910] a c. di E. Pontiggia, Milano, SE, 1989, p. 67.
13 All’interno del fascicolo dedicato a Soutine e facente parte della collana “I Maestri del colore” appartenuta a Bufalino, oggi conservata presso la Fondazione, si trova un articolo sulla pittura di Soutine dal titolo ‘Il pittore dell’angoscia’, con la firma di Marco Varisco. Non si riscontra né il nome della rivista alla quale l’articolo apparteneva né la data di pubblicazione: resta il solo fatto che fosse stato conservato da Bufalino, dato che testimonia l’importanza attribuitagli dallo scrittore.
14 N. Zago, Bufalino e le arti figurative in I segni incrociati. Letteratura italiana del ‘900 e Arte Figurativa II, a c. di M. Ciccuto, Lucca, Baroni Editore, 1998, p. 367. Nunzio Zago è stato il primo studioso che si sia occupato, fra le altre cose, del rapporto dello scrittore di Comiso con le arti figurative.
15 G. Bufalino, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Atti del wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere (Taormina, 14-16 ottobre 1988), Taormina,“Agorà”, 1989, p. 59.
16 E. Papa, Lo splendore barocco in «Nuove Effemeridi», Palermo, V, 1991, n. 18, p. 70.
17 G.Traina, Presenze linguistiche e tematiche della poesia montaliana in “Diceria dell’untore” di Gesualdo Bufalino, in «Siculorum Gymnasium», N.S.a. XLIII n.1-2, Gennaio-Dicembre 1990, p.264.
18 Queste le parole di Marta: .«Non lei [la Morte], è Marta ch’è morta. Marta-morta, elementare scambio di vocale, da Angolino della Sfinge, nella pagina dei giochi. Sono morta, un pezzetto per volta», G. Bufalino, “”Diceria” dell’untore”, cit., p. 87.
19 Così infatti racconta Marta: «Ricordo il suo braccio bruno, un’estate come questa, in una barca. […]. Io sono bella, snella, pulita; […]. Il mio costume è nero, con un’àncora di filo d’oro nel petto. E lui mi chiama Garance…», cfr. G. Bufalino, “Diceria dell’untore”, cit., p. 63; dopo i funerali della donna, il protagonista assisterà, insieme al Gran Magro, al rogo di tutti gli oggetti che le sono appartenuti: «Anche un mazzetto di foto, che avrei preteso di risparmiare, seguì la medesima sorte, e fra le molte una – dove lei era sulle ginocchia di un oberleutnant in uniforme – con una dedica dietro “A Garance”», G. Bufalino, “Diceria dell’untore”, cit., p. 124.
20 ‘Les enfants du paradis’, comparso in Italia con il titolo ‘Amanti perduti’, è il capolavoro di Marcel Carné, girato in Francia (fra Parigi e Nizza) tra 1943 e 1945, su sceneggiatura e dialoghi di Jacques Prévert ed interpretato da Arletty (Garance), Jean-Louis Barrault, Pierre Brasseur. Nelle scene iniziali del film, la bella Garance risponderà a Federico, colpito da un autentico colpo di fulmine nel vederla passeggiare fra la folla: «Mi chiamo Garance. È il nome di un fiore». Lui le risponderà prontamente: «Rosso come un incendio!». All’osservazione dell’uomo sulla sua bellezza, Garance sorridendogli ribatterà: «Sono bella perché sono viva».
21 Cfr. C. Ghiotti, Novissimo Ghiotti – Vocabolario italiano-francese e francese-italiano, ed. curata da G. Cumino, Torino, G. B. Petrini, 1964, p. 503.
22 G. Bufalino, “”Diceria” dell’untore”, cit., p. 120.
23 Ivi, p. 91. Nella presenza del sangue, Fried individua una componente barocca: «Il sangue fa parte della malattia: della tubercolosi mortale e simboleggia anche la sofferenza per gli altri, per la purificazione del mondo. Il sangue dei martiri cristiani, la rappresentazione della loro sofferenza fa parte anche dell’immaginario barocco», in I. Fried, ‘Gesualdo Bufalino, «Diceria dell’untore», un barocco novecentesco’, cit., p. 202.
24 Soutine, testo a c. di R. Negri, Milano, Fabbri, collana “I maestri del colore”, 1966, [p. 3].
25 Ivi, p. 4.
26 G. Bufalino, “Diceria dell’untore”, cit., p. 52.
27 G. C. Argan, L’arte Moderna. Dall’Illuminismo ai movimenti contemporanei, Firenze, Sansoni, 1998, p. 202.
28 G. C. Argan, L’arte Moderna, cit., p. 238.
Ornella Bonarrigo, Parole e temi dello spazio nell’opera di Gesualdo Bufalino, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Catania, Anno Accademico 2008-2009

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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