Difficile credere che Irene Brin, una lettrice così ricettiva, faticasse a comprendere la proposta landolfiana

Quando, nel 1972, Tommaso Landolfi pubblica la raccolta di poesie “Viola di morte” presso l’editore Vallecchi, l’autore ha ormai alle spalle una carriera più che trentennale. Eppure all’interno della sua variegata e multiforme produzione letteraria, la lirica non si costituisce mai, fino alla pubblicazione di quest’opera e della successiva (Il tradimento), come realizzazione indipendente ma sempre come agente di contaminazione di una poetica che sembra mirare costantemente a un ibridismo di generi letterari. L’opera complessiva di Landolfi è percorsa da un’approssimazione cauta ma continua al linguaggio poetico e al verso, di modo che fin dalle prime prove il rapporto dialettico tra i generi della prosa, della poesia e del teatro si configura come un perenne terreno di confronto e di scommessa, rispetto al quale l’autore stesso sembra, però, negare la possibilità di una sintesi.
È l’aporia della «letteratura impossibile» che tormenterà Landolfi per buona parte della sua carriera, le cui estreme propaggini giungeranno a concretizzarsi pienamente in una delle ultime raccolte, “Racconti impossibili”, ma le cui radici sono ravvisabili fin dalla prima opera, “Dialogo dei massimi sistemi”. Questa raccolta di racconti presenta già, in nuce, i grandi temi che attraverseranno tutta la produzione landolfiana e le gravi riflessioni, i paradossi e gli interrogativi che assumeranno, per l’autore di Pico, un riverbero ossessivo negli anni a venire. Come ha ben rilevato Guido Guglielmi, il “Dialogo” è «l’opera che nel ’37 rivela Landolfi scrittore e lo rivela tutt’intiero (egli non potrà mai superare il grado di maturità subito raggiunto), è il libro di un grande poeta che scrive in una lingua non poetica».
[…] «Divina libertà» è definita la poesia dal nostro, com’è stato già ripetuto diverse volte. Ma cos’è la libertà per Landolfi? Un passo di “Des mois” può essere illuminante in proposito:
“Alla libertà noi non siamo davvero tagliati; lo saremo a una libertà provvisoria o condizionata o vigilata, ma non alla libertà. Tanto è vero che quando di essa raggiungiamo l’illusione, subito ci si presenta il quesito, tormentoso tra tutti, del come consumarla. Né in ciò vedo alcunché di strano: la storia del mondo, infatti, procede da una maggiore verso una minore libertà, via via fino all’odierna quasi totale schiavitù. […] Intendo che la coscienza ci dà l’idea della libertà, e ci mette miseramente in conflitto con noi stessi; ma poi non può andar oltre. La libertà rimane la nostra vera bestia nera: diavolo, ripeto, chi non conosce il senso di vanità e vacuità che ci assale ove mai ci avvenga di procedere a questa constatazione: «Son libero di far quello che mi piace»? e l’ansia con cui ci rimettiamo allora alle nostre trite e insufficienti abitudini, in cui peraltro vediamo la sola ancora di salvezza? Siamo schiavi delle nostre abitudini: […]. per far qualcosa di meno noioso e abituale dovrei lottare contro i miei reali sentimenti, impegnarmi, vincere l’angoscia generata dalla mia disponibilità, il che tutto viene a dire che il mio stato naturale è invece uno stato di sottomissione agli eventi o a che e la mia naturale via è quella tracciatami da qualcuno o qualcosa”.
Libertà desiderata, in un primo momento, e rifiutata quando la si ottiene. Libertà «aborrita», «ontosa», come la definisce Landolfi; e temuta, soprattutto. Da questo discorso di carattere generale si deve partire per comprendere il rapporto dell’autore con la sua poesia (anacronistica, anti-novecentesca) e con quella contemporanea.
Non di eludere le norme, di distruggere e rifondare la struttura del verso, di rivolgersi a nuovi ritmi e cadenze; non di ampliare il lessico, di creare neologismi, di vagliare con la poesia ogni tema attinente alla realtà, dalla società alla scienza, dalla politica alla cultura; non di questo si occupa la poesia landolfiana. Per Landolfi è proprio l’opposto: la libertà è tornare alla tradizione, seguire (non con fanatismo ma con fiducia e orgoglio) le norme tanto fieramente violate dall’avanguardia lirica italiana (e non solo italiana) del Novecento; e il riferimento intende chiamare in causa tanto i Futuristi quanto i Novissimi, i promotori di una poesia violentemente rivoluzionaria (la Neoavanguardia) tra gli anni ’60 e ’70, le decadi che assistono al corpo a corpo decisivo di Landolfi con il verso.
Lorenzo Giglio, «Il verso gettato al vento». Sulla poesia di Tommaso Landolfi, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2012/2013

Il tentativo di perseguire questa via per sfuggire alla schiavitù della prima persona si scontra tuttavia generalmente con il fallimento linguistico della mimesi: i racconti-dialogo di Landolfi, così come i suoi testi “teatrali”, sono infatti afflitti da scelte fonomorfologiche e lessicali antinaturalistiche e inverosimili, tormentati da una feroce discrasia tra contesto e registro, in ultima analisi soggetti alle medesime patologie cui l’autore vorrebbe rendersi immune spingendo il proprio ego dietro le quinte dell’enunciazione.
La nostra analisi ha portato alla luce anche una seconda strategia di superamento della pulsione egocentrica, ovvero il ricorso a forme testuali (cronaca, diario, lettera) che costituzionalmente prevedano – e quindi in qualche misura “giustifichino” – il ricorso alla prima persona. Il risultato è l’adozione di “prime persone” che sono altrettante maschere linguistiche sovrapposte all’io: frequentemente caratterizzate da sintomi di nevrosi, spesso sottilmente parodiche, talora modellate “sillograficamente” su altisonanti registri accademici, esse caratterizzano in particolare la prima fase della produzione landolfiana, quella precedente alla svolta diaristica. Nei diari landolfiani infatti le maschere vengono meno e all’allegoria si sostituisce un autobiografismo “fluido” (Cortellessa 1996), in cui l’io protagonista e narratore presenta tratti ambiguamente sovrapponibili a quelli dell’autore implicito. Il ricorso a prime persone fittizie non è tuttavia limitato agli anni trenta e quaranta: ne abbiamo infatti rilevato la presenza ben oltre il discrimine rappresentato dalle prime scritture diaristiche. “Durevoli” sono infatti i “tentativi landolfiani di far scaturire dalla granitica coscienza identitaria numerose geminazioni mascherate attraverso parodiche nominazioni” (Vincenzi 2010: 76).
Alla dittatura dell’io narrante si contrappone nella narrativa landolfiana la presenza di testi che non solo non sono affidati a un narratore in prima persona, ma non hanno nemmeno struttura mimetica. Sebbene essi sembrino, ad un primo esame, rappresentare un esempio di resistenza efficace all’egocentrismo della scrittura landolfiana, manifestano in realtà innumerevoli cedimenti: il discorso riportato rappresenta terreno particolarmente esposto ad incursioni della prima persona; emersioni dell’io narrante assumono poi con incredibile frequenza la forma di colpi di coda metanarrativi. È stato inoltre osservato che “quando la ‘diegesi’ mena le danze […] la falsificazione e la menzogna della letteratura s’appostano subito dietro l’angolo e tendono l’agguato, disseminando le trappole di una sovraesposizione del tono dell’enunciazione e di un’oralità sforzata, che sa di recita e sembra volgersi con le sue arti e i suoi trucchi retorici a una platea di uditori” (Carlino 1998: 57): vale a dire che laddove una pulsione sembra soccombere – quella alla prima persona – la presenza autoriale è manifestata dall’altra pulsione landolfiana, cioè quella all’artificiosità del bello stile.
La coazione landolfiana all’impiego di parole rare, costrutti preziosi e accezioni desuete è stata unanimamente e tempestivamente segnalata dalla critica, nonché diagnosticata con estrema lucidità dallo stesso Landolfi. In “Des Mois” egli scrive ad esempio: “son venuto qui affermando, sembra, in sostanza una poetica della parola o del modo che si presentino primi; i quali sarebbero per definizione i migliori, e la sola salvaguardia contro una perniciosa compiacenza di scrittura. Ma ecco, si danno persone cui, del tutto naturalmente, costituzionalmente, si presenta per prima e con invincibile diritto di precedenza la parola rara, il costrutto prezioso, l’accezione desueta, la lezione più difficile. Ebbene, cosa faremo di costoro?” (DM 779). La nostra indagine non ha fatto che confermare questa tormentata, irresistibile pulsione al bello stile: essa è infatti la componente base della narrativa del nostro, l’elemento al quale nessuno dei suoi testi riesce a sottrarsi. Landolfi tenta infatti di sfuggire in vari modi alla coazione alla prima persona: abbiamo visto tuttavia come tutte le sue “fughe dall’io” siano frustrate – e in ultima analisi sconfitte – proprio dalla perdurante soggezione all’aristocrazia della lingua.
La terza ed ultima pulsione che la nostra analisi linguistica contribuisce a mettere in rilievo è quella al metadiscorso, che in Landolfi si realizza innanzitutto sul piano linguistico. L’ossessione di Landolfi per l’accuratezza e completezza espressiva è infatti vero è proprio leitmotiv della sua produzione e si manifesta ora come riflessione sulle proprie scelte linguistiche e contrappunto metalinguistico (frequentemente parentetico), ora come infinita e frustrante “approssimazione” a un irraggiungibile ideale di adeguatezza formale.
Il metadiscorso è in Landolfi anche metanarrazione: la nostra analisi ha portato alla luce innumerevoli esempi della tendenza del nostro autore alla complicazione metanarrativa del racconto – talora fino all’implosione del racconto stesso. Il moltiplicarsi dei livelli diegetici può del resto essere messo facilmente in relazione con il ricorso a maschere linguistiche e “prime persone” fittizie: Landolfi ricorre infatti alla costruzione di barriere sia linguistiche che narratologiche nel tentativo di allontanare da se stesso la responsabilità ultima di un gesto artistico fallimentare, e il lettore dal fulcro della sua nevrosi. Giustamente è stato osservato che il filo rosso della narrativa landolfiana è la “tendenza all’uso di maschere, e in primo luogo di una maschera aulica e manieristica variamente sottoposta a complicazioni, fratture e tormenti: instancabile impresa di travestimento e copertura, appunto” (Zublena 2013: 7).
La nostra indagine ci consente di concludere che la maschera manieristica landolfiana è sempre presente, e sempre combinazione (con proporzioni e quantità variabili) delle tre pulsioni qui enucleate: il venir meno della protezione allegorica nella produzione diaristica non determina alcuna cesura sul piano linguistico e stilistico. Zublena ha osservato che “la differenza fondamentale – dal punto di vista stilistico, quello che qui più ci interessa – tra il primo e il secondo Landolfi sta proprio nella qualità e nella quantità degli sfregi o degli irrigidimenti che questa maschera ha subito. Si potrebbe infatti pensare che lo squisito guardaroba manierista si laceri per mettere a nudo un corpo autentico nella stagione dominata dai tre diari […] Caduta la maschera non appare il volto, ma un’altra maschera. A fabbricarla è il linguaggio, l’artificio (della recitazione interrotta) in luogo dell’atto, e sempre entro le coordinate modali di un confessare (un dire di dire, un dire al quadrato) ove l’autentico si manifesta unicamente quale funzione subordinata all’autonomo articolarsi della costruzione finzionale.” (Zublena 2013: 7). La scrittura di Landolfi rimane quindi costantemente e trasversalmente maniera, al di qua della grazia rappresentata da un’inattingibile naturalezza assiuolesca.
Wanda Santini, Le maschere della scrittura. Appunti linguistici sulla narrativa di Tommaso Landolfi, Tesi di dottorato, Università di Toronto, 2015

Ora le questioni di donne sono piuttosto questioni atte a sondare la disponibilità di una qualsiasi donna a salire i gradini della considerazione sociale e, pertanto, sono spesso interne alla persona medesima di Irene Brin la quale talora preferisce porre il proprio talento a disposizione di una scelta di campo più o meno esplicita.
In questo senso vanno intese le sferzate che Irene Brin lancia all’indirizzo di Tommaso Landolfi prima e del gruppo fiorentino degli ermetici poi. Nella finzione della signora affascinata o della ingenua ragazza che prova attrazione per il primo uomo col quale trova familiarità appena varcata la soglia di casa, ella intende denunciare quella che Piero Bigongiari (uno degli obiettivi della sua penna acuminata nelle pagine di questa annata) chiamò, a metà degli anni Ottanta (Bigongiari, 2002: 129) <5 , la parola di “terza generazione” (Guerrieri, 2016: 383) <6:
“Landolfi! Con il suo ostentato amore a certe forme antiquate e la sua segreta passione per le formule recentissime, falsamente paesano, e nel profondo del cuore mondanissimo, Landolfi realizza compiutamente il tipo del Giovane Cugino, mistero e delizia di ogni famiglia borghese. Le sue citazioni, la sua epigrafica soddisfazione: e quell’oscillar perpetuo tra Leopardi e Lautréamont, quel labirinto di parentele letterarie, di affinità elettive. […] Naturalmente il Giovane Cugino Nazionale scrollerebbe le spalle, come, appunto, fanno i giovani cugini: e nebulosamente ripartirebbe, verso il Mar delle Blatte, e noi resteremmo là, con sentimenti feroci, di odio amoroso, di ammirazione diffidente”. (Brin, ibid.: 155-156)
Il sottocutaneo richiamo al Mar delle blatte <7 forse si può riconnettere alla pungente satira del fascismo che alcuni hanno visto o hanno voluto vedere nel funambolico bestiario surrealista dello scrittore di origine ciociara (ancora oggi la questione è aperta, ma francamente essa appare piuttosto pretestuosa), ma è di certo mordace e brillante la riduzione della verve linguistica di una vera e propria scuola poetica alle evoluzioni sentimentali e irruente di un giovane artista in vena di conquiste. L’insistito e non del tutto chiaro appellativo di “Giovane Cugino” forse ha a che vedere anche con un curioso antecedente letterario che, per materia, timbro tonale e ambientale, non doveva essere ignoto a Irene Brin, ossia “Le médicin confesseur, ou la jeune émigrée” di Victor Ducange <8, passato in Italia con una traduzione dal francese nella seconda metà dell’Ottocento dal titolo “Il medico e la giovane emigrata”, storia di una baronessa che intendeva affidare sua nipote Clotilde al “giovane cugino” medico, ignara (o forse no) del naturale fascino che costui poteva esercitare sulla ragazza. Il medesimo fascino che Irene Brin assegna a Landolfi, una “simpatica canaglia” della prosa che si diverte – a suo dire – a sottrarre al lettore la bussola dell’intessuto linguistico e a disorientarlo con inserti deliberatamente irreali (Franchini, Pacini, Soldani, 2007: 434-435).
Appare, tuttavia, difficile credere che una lettrice così ricettiva non solo delle novità nazionali ma anche, se non soprattutto, delle lettere europee, faticasse a comprendere la proposta landolfiana. Resta, quindi, il dubbio che dietro le sue parole vi fosse il desiderio di spartire nomi fra schieramenti, forse anche editoriali, che a loro volta riflettevano questioni più profonde. Se a Landolfi Brin oppone il meno conclamato Nicola Lisi (“sì, diciamo e pensiamo molto male di Tomaso – sic! – Landolfi: ma non riusciamo a dimenticarlo; succede proprio così con i Giovani Cugini. Però non dimentichiamo neppure Nicola Lisi, e di lui pensiamo e diciamo molto bene, da molto tempo” [Brin, ibid.: 156]) ciò si deve – è probabile – a simpatie per consorterie intellettuali alle quali la scrittrice si sentiva vicina: Nicola Lisi (Lisi, 1976) era parte – come d’altronde il già citato Lupinacci – di «Primato», la rivista che Giuseppe Bottai aveva inaugurato pochi mesi prima (Tronfi, 2011: 309-324 passim; Candeloro, 2002: 127).
Silvia Lattuada, Arti del tessile e dell’ago nell’editoria di Gio Ponti tra “Lo Stile” e “Fili”, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016

Una questione, quella del rapporto fra parola e immagine, fra lingua e comunicazione e fra arte e significato, che assume una dimensione macrocosmica nel “Dialogo dei massimi sistemi” di Tommaso Landolfi (1908-1979), come mostra Ignazio Sanna, il quale si sofferma sulla storia surreale di Y. Questi è divenuto poeta e traduttore di una lingua inventata senza territorio e senza parlanti tranne il poeta stesso, cioè Y, dunque di una lingua che appare statica, perché priva del movimento insito nel processo comunicativo che richiede almeno due parlanti per far viaggiare il significato.
Una situazione paradossale e folle, che mette alla prova la polisemicità del linguaggio poetico e le possibilità interpretative dell’opera d’arte.
Tatiana Cossu, Premessa in Immagini, memorie e saperi in movimento, Medea II, 1 (2016), Università degli Studi di Cagliari

Tommaso Landolfi è uno dei narratori più eccentrici nel panorama della letteratura italiana. Le sue opere sono costituite per lo più da una personalissima mistura d’ironia, provocazione e assurdo, con trame e personaggi spesso al confine con il surrealismo <67. La lingua dotta e ricercata, tendente al barocchismo, con la quale sono scritte ha prodotto il duplice effetto di assicurargli al tempo stesso un posto tra gli autori più raffinati e uno tra gli autori più negletti dal pubblico, al netto di un recente, timido, ritorno di interesse. Cifra caratteristica della scrittura landolfiana è infatti un’estrema padronanza del lessico, esplorato in direzione della costruzione di un linguaggio elevato, preciso e dettagliato, al servizio del racconto fantastico, soprattutto nei primi anni <68.
Tra questi è emblematico in questo senso il “Dialogo dei massimi sistemi” (1937), compreso nel suo primo libro, la raccolta di racconti omonima. Fin dal suo esordio dunque lo scrittore mostra un profondo interesse per il linguaggio e il suo articolarsi nelle diverse lingue delle culture umane.
Non sorprende che sia stato traduttore dal russo (oltre che dal tedesco e dal francese), e da par suo, di Gogol e delle liriche di Pushkin e Lermontov, fra le altre cose. Come ricorda Paolo Albani, autore peraltro con Berlinghiero Buonarroti di un dizionario delle lingue immaginarie <69, “[i]l bernoccolo dell’inventore di lingue lo scrittore di Pico, da sempre ossessionato da una sorta di religioso e superstizioso amore e terrore delle parole, lo ha sviluppato fin da ragazzo quando si arrovellò, votato all’insuccesso, a foggiare una lingua personale, una lingua vera e propria con tutte le sue regole”. (Albani 2012)
Lo stesso Albani dà conto della struttura, ipertrofica e straripante, del ‘Landolfiano’, lingua evidentemente nata dalla mente del nostro autore, che Landolfi portò a conoscenza del mondo in un articolo intitolato “Qualche notizia sull’L.I”, pubblicato sulla rivista “Letteratura” nel 1941, in seguito ripubblicato sul Corriere della Sera il 14 agosto 1978 <70.
Il punto focale del racconto è l’utilizzo in poesia di una lingua inesistente o meglio, anzi peggio, inventata. E inventata secondo modalità che dispiacciono a Y, l’amico dell’io narrante, autore di tre poesie scritte in questa lingua fantasmatica. Il titolo stesso, “Dialogo dei massimi sistemi”, che fa chiaramente riferimento al “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” di Galileo Galilei <71, evoca una dimensione per così dire macrocosmica della questione in discussione. Laddove nel caso del testo seicentesco i due sistemi a confronto erano quello tolemaico e quello copernicano, nel caso del “Dialogo” di Landolfi s’indagano il rapporto tra lingua e comunicazione, da un lato, e quello tra arte e significato dall’altro.
Il racconto prende forma a partire dalla pretesa da parte di un capitano inglese, un marinaio conosciuto casualmente, d’insegnare il persiano a Y.
[NOTE]
67 Ci si è domandati se ci sia mai stato un vero e proprio contributo italiano al movimento surrealista. Prendendo spunto dall’antologia curata da Gianfranco Contini Italie magique, pubblicata in Francia nel 1946, Alvaro Biondi indaga tra i prosatori e i poeti italiani del secondo e terzo decennio del XX secolo. Risultato dell’indagine è che in linea di massima alcuni autori hanno avuto a che fare più di altri con il surrealismo, e tra questi «Tommaso Landolfi può essere ascritto, sempre con caratteri del tutto originali, alla linea del surrealismo italiano» (Biondi 1981: 78).
68 «Il vocabolario di Landolfi è fitto di toscanismi – infatti saldamente ancorato al toscano – di termini arcaici e parole definitivamente scomparse dall’uso comune, resuscitate dallo Zingarelli o dal ben più venerabile Tommaseo-Bellini, e di neologismi e parole fantastiche. Sul filo di questa eccentricità lessicale, anzi proprio a partire da questa, si innescano i meccanismi del fantastico landolfiano» (Castaldi 2010: 362-363).
69 «Non è dunque un caso che Paolo Albani abbia scelto Aga magéra difúra come titolo per il dizionario di lingue immaginarie, recuperando il primo verso della poesia in pseudo-persiano presente nel Dialogo dei massimi sistemi» (Sacchettini 2008: 120).
70 «Un altro esempio di lingua inventata da Landolfi compare sul numero 3 di “Letteratura” del luglio-settembre 1941, in un articolo intitolato Qualche notizia sull’L.I, in seguito ripubblicato sul “Corriere della Sera” del 14 agosto 1978 con varianti di carattere soprattutto formale e con il titolo redazionale Volete imparare questo alfabeto? Ennesima parodia (uno «‘scherzo’ in ‘parafrasi’» l’ha chiamata Sanguineti), in questo caso della Linguistica, in forma di breve trattato, genere così caro a Landolfi. Dopo aver premesso che le notizie sul Landolfiano, un linguaggio strutturato in tre versioni contrassegnate rispettivamente “L.I, L.II e L.III”, sono desunte da un vasto trattato rimasto incompiuto a opera di un amico defunto, Landolfi offre una dettagliata descrizione di questa curiosa lingua. I generi sono quattro: maschile, femminile, neutro e astratto, mentre i numeri sette: singolare, duale, triale, decale, centale, miliale e milionale (quest’ultimo sostituisce il nostro plurale). Il sistema è molto chiaro: le quantità intermedie sono caratterizzate dal numero immediatamente inferiore, salvo il caso dei multipli di 2, 3, 10, 100, 1000 e 1 milione. I casi ammontano a 146, di cui solo 125 dotati di desinenza caratteristica, e sono esattamente il doppio dei complementi, cosa che si spiega con il fatto che ogni complemento ha due aspetti, l’astratto e il concreto. Il verbo ha diciotto aspetti, nove concreti e nove astratti ossia: il lentivo, il rapidivo, il buttivo o improvvisivo, il gioivo, il tristivo, l’egualivo, il prossimivo, il lungivo, l’egualivo spaziale. Questa impostazione flessiva, precisa Landolfi, assorbe senza residui “gli incoativi e i futurivi propriamente detti delle nostre lingue indoeuropee”. Ogni tempo presenta tante persone per quanti sono i numeri. Tra i molteplici ausiliari, si trovano i due verbi morire e nascere, usati nella costruzione detta del conativo all’infinito. Le coniugazioni sono 1200. Ogni verbo inoltre può essere transitivo o intransitivo. Aggettivi, pronomi, articoli, preposizioni sono tutti declinabili e seguono per quanto riguarda genere, numero e caso, il sostantivo cui si riferiscono. Nessuna parte del discorso ha un posto fisso nella struttura della frase. Dal punto di vista del sistema di notazione grafica il Landolfiano può definirsi un sistema semi-ideografico comprendente una serie di ideogrammi (ognuno corrispondente a un radicale) e una serie di diacritici a valore alfabetico. Gli ideogrammi sono 118.000, ma non è escluso, scrive Landolfi, che altri ne vengano alla luce una volta rintracciate le carte 428-702 dell’Archivio di Praga, rapite alla fine del secolo scorso. L’alfabeto del Landolfiano comprende 381 segni che formano 1524 lettere dato che il loro valore muta secondo la posizione (in alto, in basso, a destra o a sinistra della cosiddetta base). La scrittura del Landolfiano è bustrofedica in quanto un testo si legge da destra a sinistra, e viceversa alternativamente, sempre in senso orizzontale e cominciando dal basso. Per consuetudine nei testi stampati un quadratino delimita il campo di ogni cosiddetta base, mentre un quadrato più ampio intorno al primo assicura lo spazio necessario ai diacritici. Rivolto al lettore, Landolfi conclude il suo scritto con queste considerazioni: “Ahimè lettore, mio lettore, stavolta, su queste precise parole il manoscritto del mio povero amico è rimasto interrotto, verso la pagina numero… beh, non voglio spaventarti. Ma forse è nato chi lo continuerà. Resterebbe verbigrazia ad occuparsi ex novo della fonetica, aspetto assai complicato e dibattuto della faccenda. Spero a buon conto, quando farò passare le schede di sottoscrizione per l’impresa che ho in animo e di cui ho detto in principio, di poter contare sulla tua adesione”» (Albani 2012).
71 I personaggi del racconto di Landolfi, come nota Anna Dolfi, rimandano a quelli galileiani: «tre personaggi, novelli Simplicio, Salviati, Sagredo, pongono e dibattono fuori di ogni metafora il problema dell’arte. Il “grande critico” (un Simplicio forse imbevuto di una cultura ormai tradizionalmente e sofisticatamente moderna), Y (il pratico Segredo) e un amico (l’acuto, demistificante Salviati) discutono intorno al problema estetico della lingua» (Dolfi 1981: 194).
Ignazio Sanna, Traduzione e significato nel “Dialogo dei massimi sistemi” di Tommaso Landolfi in Immagini, memorie e saperi in movimento, Medea II, 1 (2016), Università degli Studi di Cagliari

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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