Durable 5168 Made in West Germany

Non è certo esotica né geograficamente ostativa la frontiera con la Germania che Franco Fortini, con la moglie Ruth Leiser, attraversa nell’agosto del 1949, per percorrere un vario itinerario fra città devastate (Darmstadt, Düsseldorf, Colonia, Marburgo, Berlino e altre), «sacco in spalla e con ogni mezzo di locomozione», quasi una «avventurosa esplorazione». <2
Il grande film di “Rossellini, Germania anno zero”, una riflessione sull’innocenza e sul male assoluto, ha mostrato, l’anno prima, le rovine di Berlino attraversate da un adolescente al pubblico italiano. Nonostante le ferite della guerra e dell’occupazione, ancora recenti, la Germania fa parte integrante dell’esperienza culturale, di una sorta di mito giovanile e del retroterra, anche religioso, dello scrittore e della moglie. Per questi aspetti la Germania delle città e della cultura non è, veramente, al di là di un confine. La frontiera attraversata è, oltre e più che quella di un confronto con l’altro, quella di un confronto con se stesso e con la propria storia; una investigazione su fatti e situazioni, certo (il viaggio nasce da un invito a incontrarsi con giovani tedeschi, germinato, possiamo credere, da uno dei mille contatti informali fra popoli e fra giovani), ma anche un interrogativo politico e ideologico sulla storia e sui popoli. La formazione ideologica e politica di Fortini fin qui costruitasi (quella di un marxista eterodosso che proviene da un percorso tutt’altro che rinnegato e morto, di un azionista e valdese, lettore di Sartre e di Kierkegaard, oltre che ebreo per parte di padre), entra in gioco con la nuova esperienza del viaggio. Quest’ultima, a sua volta, sembra sottoporre a verifica, o anche rafforzare e alimentare l’elaborazione intellettuale e morale già maturata.
La prima pagina del diario, palesemente pensata e scritta a conclusione del viaggio e della sua elaborazione, va letta attentamente. Ne riprendiamo un ampio frammento: “poi mi sembrava affatto caduta la passione che avevo avuto in me fino dalla adolescenza per il mondo gotico e romantico del Wald e del Wandern. Lo immaginavo come l’ho poi veduto, in gran parte: polvere. E ancora, stizza e rimpianto dell’ignoranza per la storia profonda della nazione tedesca. E noia dei luoghi comuni. Ma, più di tutto, ripugnanza alla inevitabile amministrazione delle esperienze di viaggio; alla contabilità premeditata che ogni diario porta con sé e che tanto facilmente lo inchina al vizio dell’anima squisita; il senso che il recupero delle esperienze, il corpo organico dell’espressione, può essere tentato solo a partire dalla rinuncia al nuovo e al diverso; dalla accettazione di un ergastolo. Ripugnanza alla leggerezza e alla sete della vista che accompagna il viaggiatore in terra straniera (e insieme voglia di misurarmi su nuovi spazi, voci diverse)”. <3
«Il vizio dell’anima squisita»: ovvero la tendenza a trasformare l’esperienza del trauma in esperienza estetica, in valore culturale, in privilegio dell’intellettuale che si riconnette, corporativamente, alle corde profonde della cultura europea, all’esperienza del già vissuto, almeno fantasmaticamente.
Reprimere, controllare questo automatismo culturale comporta una scelta formale: lasciare che il diario sia diario, congerie di appunti, che gli incontri e i paesaggi (soprattutto desolate plaghe urbane) non ambiscano a continuità, non consentano a una ricostruzione compiuta, ma lascino in vista incompiuti torsi di esperienza, moncherini di immagini e conoscenze. Ed ecco la suddivisione del testo in tre parti (Diario tedesco, Appunti, I dannati della terra), cui si aggiunge una appendice del 1953 (Una risposta tedesca), quasi un preciso segnale di frammentazione, l’unica possibile realizzazione di «stizza», «rimpianto», «ignoranza», «noia», «vizio», «ergastolo» e soprattutto «ripugnanza»: una impressionante sequenza di vocaboli di segno negativo. E d’altro canto il segnale opposto di una costruzione, di un procedere conoscitivo nel quale le lacune sono parte integrante, cicatrici significative: l’indicatore di un ostinato lavorio sulla costruzione e sulla forma.
Le tre parti del diario, del resto, proiettano linee di forza che si integrano e riuniscono a distanza nella ricostruzione che il lettore è chiamato a compiere a partire dal frammento, elaborando così proprie posizioni ideologiche e politiche, ma anche morali. La riflessione sul male che Fortini propone in queste brevi pagine sono infatti lo sfondo che preme sul giudizio politico, sul ripudio delle ideologie progressiste e occidentali non più che sullo stalinismo e sulla rinuncia del comunismo a misurarsi, poniamo, con la materiale realtà di – citiamo a caso – mani bocca e occhi di una donna sola, forse una vedova di guerra, che è pervenuta all’«abitudine, ormai matura, al silenzio»; <4 o anche a «occhi, mani, visi di ragazzi», <5 fuggiti alla miseria e forse ai rastrellamenti dell’Armata Rossa, a Est. Ossia con la vita e la sofferenza, coi sogni e i desideri la cui realizzazione – lo leggeremo in tanti passi del Fortini maturo – sono fine e sostanza del comunismo. Qui il “Diario tedesco” si rivela una decisiva tappa non soltanto dell’antistalinismo, ma anche delle mature posizioni politiche di Fortini.
[…] Dopo le prime pagine di descrizioni delle rovine, ricordi e allusioni ai feroci bombardamenti al fosforo e ricostruzioni della tradizione politica tedesca (dalle guerre contadine a Bismarck), a Marburgo, nelle tombe dei Cavalieri Landgravi, leggiamo di un bassorilievo raffigurante «una coppia di piccoli monaci incappucciati e sorridenti [che] cantano le loro antifone ai piedi del cavaliere, e due angiolotti sorridono anch’essi mostrandone il volto al cielo o accennando all’anima fanciulletta che giunge le mani». <7 Ma, subito dopo: “a Berlino, in Kurfürstendamm, proprio al confine tra zona occidentale e orientale, c’era un comando della Gestapo. Nel cortile, tra macerie e rampicanti selvatici, un angelo gotico abbandonato porta l’indice della destra alle labbra, sorridendo. Ne vedo l’immagine in una rivista illustrata. E domani ritornerò in Italia. Ma quale silenzio domanda l’angelo, amorevole e ironico? Perché i silenzi ci hanno pur accompagnati, qua e là, tra Reno e Weser, per le città morte, come cadute in vuoti d’aria. Silenzio di rinuncia, di separazione? O l’attesa di cui sorgano parole ed atti? Questo vecchio dilemma tedesco è oggi anche il nostro? Un più disteso sguardo, che più accolga i contrari, che avvicini la paziente preghiera alla fatica di mutare le condizioni della vita; meno fragore, meno ansia». <8
È il quadro che chiude la prima parte del diario. Si potrebbe pensare – e certo a ragione – a un momento di distensione nella cronaca dura e tesa. Indubbiamente c’è qui la rielaborazione, quasi esibita, dell’intellettuale, dell’artista che si riprende una quota di spazio estetico, che raccoglie per sé materiale da elaborare. Ma il passo è già un’elaborazione: il trapasso fra vita dei popoli e sedimento delle arti, fra natura e cultura, fra storia e progetto utopico è già il piano di scrittura di questo testo.
La scrittura, atto di revisione, selezione, prospettiva, si radica nella contraddizione e nella tragedia, ma congiunge anche vite private e destini di popoli, storia e natura e arte, in un processo di scambio osmotico e reversibile che anche il Fortini poeta perseguirà. Il silenzio è certo una mancanza, ma anche uno spazio per l’utopia. <9
Ma c’è una parte che mostra più resistenza a una prospettiva, a una sintesi. Il quadro autonomo “I dannati della terra” (quello, lo ricordavo sopra, non a caso ripreso in “Dieci inverni”), mostra una materia umana e politica troppo bruciante per essere rifuso in un ordine complessivo. L’incontro con i giovanissimi profughi dalla Ostzone cacciati via dall’occupazione sovietica, dai rastrellamenti e poi dalla oppressione burocratica dei comunisti, e ridotti, di fatto, ai lavori forzati nella Germania “libera”. Qui le pagine, pur intrise di pietas e di indignazione, tendono più al giornalismo, all’inchiesta, al giudizio politico e ideologico. Quanto del Fortini antistalinista e antiburocratico, restio ai partiti (non alle posizioni di classe) e alle ortodossie e ostinatamente attratto dalle posizioni di minoranza, quanto del collaboratore a “Discussioni” a “Ragionamenti”, a “Comunità” a “Quaderni rossi” (e poi giù fino agli anni Sessanta e oltre) non si troverà non dico sospinto ma almeno rafforzato da questa esperienza?
«Ora sono intorno a noi. Perché sono scappati? Rispondono a voci alterne: “miniere, fame, Volkspolizei, fame”». <10 L’intervista si fa incalzante. Ciascuno racconta, in scorcio la sua esperienza: «”hanno messo i mongoli a guardia delle miniere. Prendono gli operai fuori delle fabbriche e li obbligano ad arruolarsi nella Volkspolizei”… Le cose che si leggono su tutta la stampa benpensante del nostro mondo; ma qui, occhi, mani, visi di ragazzi». Il rischio di far propaganda alle posizioni inglesi o americane non li riguarda: «vogliamo lavorare e mangiare. Odiamo i russi e i tedeschi che si iscrivono alla SED senza crederci, solo per avere dei vantaggi; e sono la maggioranza». <11
«Passati dalla Volksschule e dalla Hitlerjugend alla lotta a coltello per sopravvivere; e alla occupazione sovietica», come ricorda un dimesso insegnante che visita i campi, vittime di «misere e sciagurate biografie», questi giovani non possono essere del tutto attendibili. Ma la verità che si fa strada è quella di una squallida solidarietà fra poteri e potenti, ben identificabili talvolta, ma anche anonimi e impersonali, ai danni dei popoli; non solo oggi, ma anche nella profondità della storia tedesca e mondiale. Le saldature folgoranti fra l’antica storia che sempre si ripete e quella del presente è, nel passo che segue, ben leggibile: “certo, una buona parte di questi giovani mente o deforma, intenzionalmente o no, per giustificare la propria fuga; che altro chiedono, infatti, i funzionari alleati, le signorine dei comitati, e soprattutto i loro stessi compatrioti, se non d’essere confermati nei loro sentimenti? Soprattutto i tedeschi occidentali (come riconosce ogni osservatore straniero) han fatto dei russi l’alibi del proprio passato e della politica angloamericana, la riprova delle intuizioni di Adolfo. (Sono gli americani che han provveduto a dar sepoltura, nella Elizabethkirche di Marburgo, la Chiesa dei Cavalieri dell’Ordine Teutonico, fra i sepolcri degli antichi massacratori di ortodossi, alle ceneri di Federico il Grande e di Hindenburg, che Hitler aveva voluto sottrarre alla profanazione di barbari). Altri saranno pur vagabondi, sfaticati, criminali… ma ciò non muta il fatto che venti, quaranta, sessanta giovani al giorno varcano la frontiera”. <12
Qui, fra questi nuovi e ultimi dannati della terra (i Verdämmte dieser Erde di cui si legge nella Internazionale) «il comunismo aveva il compito più glorioso e difficile», ed è «tragico, non lieto per nessuno, che abbia moralmente perduto la sua battaglia». «So bene», conclude Fortini il suo diario, avviando un tema, quello dell’intellettuale “esule” o “ospite ingrato” nel consesso del mondo le cui opinioni contano, «che questo modo di pensare non trova luogo tra le opinioni politiche. Ma nemmeno il pensiero dei giovani morti degli Strafschächte della Sassonia, o suicidi ad Essen, vi trova luogo o parola». <13
[NOTE]

  1. Così R. Luperini nella Introduzione a Fortini 1991, 8.
  2. Fortini 1991, 66.
  3. Fortini 1991, 13.
  4. Fortini 1991, 19-20.
  5. Fortini 1991, 43.
  6. Fortini 1991, 49-50.
  7. Fortini 1991, 27.
  8. Su questo rapporto rinvio alle dense pagine di Lenzini 2013, 209-28.
  9. Fortini 1991, 42.
  10. Fortini 1991, 43.
  11. Fortini 1991, 43-44.
  12. Fortini 1991, 50.
    Felice Rappazzo, Frontiere di Fortini in (a cura di) Novella di Nunzio e Francesco Ragni, «Già troppe volte esuli». Letteratura di frontiera e e di esilio, Tomo I, Culture Territori Linguaggi, CTL 3, Università degli Studi di Perugia, 2014

In una poesia che tratta essenzialmente della cruenta leggenda circa l’origine del nome “lince” <328, non mancano puntuali riferimenti di tipo storico: oltre alla menzione diretta della guerra (v. 8), il caso più eclatante è rappresentato dal dodicesimo verso, costituito di sole indicazioni geografiche. Certamente Fortini non avrà voluto scindere l’aneddoto dal retroscena di realtà nel quale esso affonda le radici; viene però da pensare che quello della leggenda non sia che un pretesto per ritornare al secolo favorito da Manzoni. La violenza efferata delle linci, inoltre, potrebbe essere letta come una figura del sanguinosissimo conflitto seicentesco, e più in generale della violenza storica tout court.
L’ultima strofa, infine, lascia intravedere gli anni più recenti: si passa dalle guerre religiose del Seicento al dramma contemporaneo della Germania divisa in due.
Nella Turingia tetra gatti immani
di dilatate immobili pupille
dimostra a dito, in suo corso, il viandante,
custodi degli spazi inabitati
che il Comunismo desolò lasciando
solo quei minacciosi e consci e strani.
La Turingia è infatti una regione tedesca centro-orientale, che di conseguenza dopo la Seconda guerra mondiale finì sotto il controllo sovietico. La leggenda seicentesca, insomma, riserva spazio addirittura ad un brevissimo reportage sull’occupazione russa della Germania orientale (vv. 48-49).
La poesia “Limes”, rifacimento o traduzione <329 anch’essa narrativa e dal tono aneddotico, riporta invece all’Impero romano. A rimandarvi contribuisce il nome «Decio Costanzo» (probabilmente d’invenzione, al v. 3), ma soprattutto la menzione della città di Roma (vv. 9, 19) congiuntamente a quella del Danubio (v. 18), che tratteggiano una situazione “periferica”, a est (da cui il titolo Limes) dell’Impero. <330 È possibile ravvisare anche qui dei cenni alla contemporaneità, seppur molto indiretti: nell’incertezza dei tempi (evocata, nella poesia, dalla minaccia delle invasioni barbariche, ai vv. 9-10); nell’espressione «sonno d’aprile» (v. 19), che unisce il leitmotiv fortiniano della volontà d’annullamento a quello della primavera, rappresentazione allegorica dell’assenza di conflitti, utilizzata normalmente in contesti contemporanei. <331
Infine nell’atto della diserzione, raccontato, si direbbe, con un certo compiacimento; per Fortini, espressione del pensiero eretico e di una posizione politica controcorrente.
L’ultimo cenno geografico interno all’Appendice si trova nella poesia Durable 5168 e rimanda ancora alla divisione postbellica della Germania, questa volta però relativamente alla parte occidentale. Potrebbe passare facilmente inosservato: è inserito nel primo verso, che riporta la denominazione di un paio di floppy disk nei quali l’autore aveva salvato le proprie liriche durante i suoi ultimi anni. <332
Durable 5168 Made in West Germany
piccolo libro d’ore per due dischetti
il mio sommario dunque è tutto qui?
(Ma io dimoro là, dove mi metti). <333
«West Germany» sembra essere semplicemente parte di una dicitura, priva di alcun valore storico. Il componimento in effetti è incentrato sulla vecchiaia del poeta, sul rapporto intergenerazionale («la tetra nipote» al v. 8) e con i nuovi supporti tecnologici, che cambiano il modo di fare poesia – e non solo. <334 Proprio ad essi, come ad una materialissima divinità postmoderna, l’anziano poeta rivolge ora la sua supplica d’annientamento (vv. 10-12).
L’attestazione «Made in West Germany», ad ogni modo, rappresenta un’indiscutibile testimonianza del drammatico periodo di suddivisione del territorio tedesco. Legata, nello specifico, agli anni direttamente a ridosso della riunificazione: tra la fine degli Ottanta e i primissimi Novanta, quando i floppy disk cominciavano ad entrare nell’uso comune. Si tratta in questo caso di una “traccia” storica, all’apparenza involontaria; ma il fatto che l’autore, a distanza di così pochi componimenti, faccia riferimento alle due Germanie per ben due volte, invita naturalmente a non escludere un suo interesse di fondo per la vicenda.
[NOTE]
328 «In caute schiere a mezza notte i gatti / silvestri, per sfrenata fame acerbi, / strazio di quelle viscere menando / il cattolico cuore lacerarono / (solo i mustacchi sdegnando e le chiome / che ritorte stringeva in lunga treccia) / e le frattaglie ai pie’ dei pini sparsero / finché nullo di lui segno rimase / fuor che l’ossa scomposte. / Ma il suo nome, / che alle cose consegue e «Lince» suona, / calò nelle latèbre e nelle reni / di quei felini, quasi che le mamme / (in ferocissime nozze convulse) / dell’animale di vista acutissima / cui ornano crudeli ispidi ciuffi / le fini vette delle orecchie e i baffi / di imperïale moschettiere, avessero / il seme accolto che poi fecondo / fino ai gatti moderni e vive e vige.» (vv. 24-43)
329 È presente infatti un’epigrafe che recita «da Horia Goga».
330 «Tornava attraverso la sera / stringendo ai cuoi la mantella / Decio Costanzo, Legio Fulminata. / Voci venivano dai fiumi. // Guardò il giovane che ora mangiava / inquieto fra i soldati. / Inutile parlargli, domani / verso occidente l’avrebbero mandato. / A Roma, d’uomini c’era bisogno / per murare alte mura. I tempi erano incerti. // Quando fu notte alta uscì dal campo / senz’armi. Provò il ghiaccio. / Molto lontani dall’altra riva i canti / credeva udire. «Per uno / che viene, un altro vada», / pensava disertando. // Nell’alba lo cercarono i soldati. / Con tuono il disgelo spezzava il Danubio. / Roma era ancora nel sonno d’aprile. / Il giovane scita si svegliava felice.»
331 È infatti frequentissimo l’uso nelle Sette canzonette del Golfo: si veda ad esempio Come presto… («Ma è domenica, è marzo: non senti / che un altr’anno, e il suo peggio, svanì?», vv. 13-14) oppure Aprile torna… Cfr. par. 4.3 del presente capitolo.
332 Fonte: http://www.ospiteingrato.unisi.it/tra-le-poesie-scartate-di-franco-fortini/
333 Vv. 1-4
Beatrice Benà, «Ecco scrivo, cari piccoli». La storiografia poetica di Franco Fortini, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2017/2018

[…]
Alla luce dei razzi verdi
Questa sera ci accamperemo.
Domani il carro armato
Stritolerà Berlino.
Un lanzo di ruggine e teschio
Strizza la polpa di latte
Della ragazza Germania
Graffita nel norfumo.
Con le due mani sul cuore
Tenore di pietra e cemento
Schiller è decapitato
A metà d’una canzone.
Non resta che una cavalla
Squartata dai contadini
Maledetta corsa nera
Nella neve di Fulda.
Vergini e cavalieri rapiti da morte, coro
Di martiri gotici e spade, per sempre
La leggenda d’Europa è spenta, l’acqua
È gelata nei fiumi, il borgo è chiuso
Porte finestre e stalle, l’Uomo d’Arme
Sta sulla fonte di pietra del mercato
Col suo corno e la scure, le catene
Scendono sotto la neve…
Ma le case anche a noi
L’hanno bruciate, aprite le porte, gente,
Profughi siamo, dateci un giorno, un sonno
Nel fieno, un morso di pane di segale.
Franco Fortini, Basilea 1945

Come ha scritto Romano Luperini – amico, collega e tra i più esperti conoscitori della sua opera – Fortini è stato una figura ormai rara di intellettuale che pur conoscendo gli specialismi «non li pratica nella loro separatezza, convogliandoli piuttosto, e superandoli» (Un giorno, pp. XI-XII). Lo fa non solo in quanto sempre teso verso l’orizzonte della totalità, ma anche in conformità a una precisa scelta di posizionamento ideologico, contro la iperspecializzazione dei ruoli imperante a livello lavorativo e contro le divisioni disciplinari che servono solo la causa del capitale: «Che la divisione del sapere dal “sapere comune” corrisponda agli interessi della classe dominante e non a quelli del “progresso scientifico” dovrebb’essere ormai una di quelle certezze la cui assenza o presenza è sufficiente a qualificare l’interlocutore» (Insistenze, p. 267).
Chiara Trebaiocchi, Re-schooling Society. Pedagogia come forma di lotta nella vita e nell’opera di Franco Fortini, Tesi di dottorato, Harvard University, Cambridge, Massachusetts, 2018

Nelle due lettere riportate in appendice al saggio di “Verifica dei poteri”, le posizioni di Fortini, benché corrette dal giudizio di Spitzer, rimangono pressoché invariate. Esse vengono inoltre sviluppate attraverso un ragionamento più conciso e accompagnate da esempi testuali che, nelle differenti analisi compiute dai due autori, mostrano chiaramente lo scarto di visioni inconciliabili. Il dibattito si impernia sul “Canto notturno del viandante” di Goethe suggerito da Spitzer nella sua prima replica a Fortini e che quest’ultimo, accogliendo la provocazione del critico – «che cosa ha da fare colla storia sociale una poesia come quella che ogni tedesco probabilmente dichiarerebbe la più eccellente scritta nel suo idioma» <73 – riesce a collocare nei termini della sua concezione estetica, distaccandosi dagli aspetti più rigorosi della critica marxista. La celebre lirica di Goethe verrà in più occasioni tradotta dallo stesso Fortini, ma sarà esclusa dalla raccolta di traduzioni del Ladro di ciliege pubblicata nel 1982. <74
[NOTE]
73 VP, pp. 208-209.
74 PI, p. 825.
Andrea Agliozzo, Mutarsi in altra voce. Funzioni della metrica nell’opera di Franco Fortini, Tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari Venezia in cotutela con Sorbonne Université, 2019

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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