E ci sono le seghe volgenti agli ultrasuoni

Da sinistra Andrea Zanzotto, Dino Azzalin, Alda Merini, Nicola Crocetti a Faido, Varese, Festival dei poeti, estate 1994 – Foto di Dino Azzalin – Foto: Jean Nimis, art. cit. infra

Per l’opera di Zanzotto la principale edizione di riferimento è quella dei «Meridiani», Le poesie e prose scelte (Zanzotto 1999), cui d’ora in poi si rinvia con la sigla PPS. Da qui si cita anche – con il semplice numero di pagina (da 1027 a 1050) – il testo di Premesse all’abitazione, prosa che, pubblicata per la prima volta in Bernari et al. 1964, non poté entrare nella prima edizione di Sull’Altopiano (Zanzotto 1964, di recente ristampata con un’appendice di scritti coevi inediti in Id. 2007), ma è stata invece inclusa nelle sue successive edizioni ampliate di Racconti e prose (Id. 1990) e Sull’Altopiano e prose varie (Id. 1995), assumendovi una preminenza variamente rilevata dalla critica (cfr. Cesca 1991, Forti 1991, Stracuzzi 2002 e Tamiozzo Goldmann 2008). Il testo del 1964 differisce da quello delle successive edizioni per poche varianti minime: kakanico > cacanico, p. 1031; «Le vecchie che non hanno mai voluto vendere» > «Quelli che…», p. 1031 (e poi, di conseguenza, in luogo del reiterato le vecchie figura la serie gli annosi, p. 1031, costoro, p. 1031, i vecchi, p. 1033, ed essi, p. 1033); bubboloni > bubboni, p. 1049.
Il problema della casa sullo sfondo di un paesaggio violato e di una paesanità stralunata dagli anni del miracolo economico; quando la privata iniziativa si disfrena e la società si rimescola, infregolita dalle nuove possibilità di guadagno. Una famigliola (quella di Zanzotto, ora allargatasi con la nascita del secondo figlio) che cerca solo una sistemazione più confortevole nella propria cittadina – l’imprescindibile Pieve di Soligo, «un paesetto che non ha centro ma ha saputo costruirsi intorno una sgangherata periferia» (p. 1027) – nel mezzo di quel Nord-Est, già prevalentemente agricolo, che in questi anni del boom è andato industrializzandosi, in un funghire impetuoso e disordinato di piccole e medie imprese, venute su – tra campi, abitati e declivi – anche a dispetto del buon senso e dell’orografia (così, p. 1029, il «capannone-mobili», costruito «proprio sull’orlo della gola del Soligo», su di un «margine in declivio di quarantacinque gradi largo sei o sette metri»). Una piccola formicolante Heimat che, in preda a una propria «nevrosi industriale campagnola» (p. 1030), non smette di riplasmarsi: protendendosi in ulteriori lotti e «fabbricabilità»; disseminandosi di cantieri e capannoni, tra agi e consumi fino a pochi anni prima impensabili («questi italiani che vogliono tutti ormai, anche nelle campagne, riscaldarsi a nafta e pavimentarsi a onice del Pakistan», p. 1032), ma anche tra nuove sofistificazioni (come il «sottovino al destrosio» di p. 1030) e nuove pervasive forme d’inquinamento («così da poter respirare poliesteri in polvere a tutte le ore», p. 1029), anche acustico. Tra cui, in primis – sottofondo implacabile in questo operoso Quartier del Piave – il rumore delle segherie («E ci sono le seghe volgenti agli ultrasuoni […]; seghe a segare filamenti nervosi, neuroni, a tutte le ore», ibid., dove anche l’addensarsi delle figure di ripetizione dice di tale ossessionante logorio), divenute simbolo dei nuovi negozi che assediano ogni otium (come insegna la vicenda delle «povere signorine Vallini», p. 1029) e qui richiamate a più riprese, sempre in forme retoricamente increspate («nell’amplificazione industriale con seminagione di seghe», p. 1030; metafora con allitterazione); fino a farne, nel finale, il segno privilegiato di un’epoca: «le seghe aguzzano il loro ingegno, aprono alla vera musica del tempo» p. 1050 (con modo di dire rivitalizzato, per cui questo aguzzare l’ingegno si profilerà anche come un concretissimo affilare di lame dentate) <1.
Le Premesse all’abitazione, pubblicate per la prima volta nel 1964 come una delle sette testimonianze di cui si compone Sette piaghe d’Italia <2, e datate 1963 (lo stesso anno, per dire, dell’uscita in volume della Speculazione edilizia di Calvino <3 o di un film come Le mani sulla città di Rosi), potrebbero anche essere inquadrate così: come una denuncia a caldo – e un frutto anomalo – di quei tempi “miracolosi” di trasformazioni dirompenti ed edificazioni selvagge.
Ma – come sempre in Zanzotto – gli elementi in gioco sono molteplici e il gioco stesso non prevede regole fisse. Il che varrà a maggior ragione per un testo di molti umori e di molte linfe qual è Premesse all’abitazione, nel quale anche la più oggettivata dimensione evenemenziale è sempre complicata da appercezioni e affioramenti ulteriori. Perché, qui, ci sono sì uno spaccato socio-economico e uno sfondo storico-politico ben definiti (con tanto di richiami al piano Ina-Casa <4, alla legge Tupini <5 o allo scandalo Antoniutti <6), e c’è sì una vicenda personale realmente vissuta in quegli anni da Zanzotto – la ricerca della casa – che si snoda per tappe ben scandite, attraverso luoghi identificati fin nella topografia più minuta (l’amata Cal Santa <7, via Castello, i lotti Rasel, etc.), tra personaggi vividamente tratteggiati (quali il contadino Bede che sposta le sue siepi per accaparrarsi pezzi di spazio pubblico; la signora Chiari che strascica la sua miseria in un «cocktail di puzzi»; Bergoni, l’imprenditore di mobili, polli e maiali, che esercita «un po’ di senseria […] come per obbi» <8; o l’esperto in cooperative giunto da Treviso che sa come
«spiccarsi i suoi salami», ossia ‘condurre i propri affari’), entro una società colta anche nelle sue tramature più specifiche (gli emigranti di ritorno combattuti tra una paesanità in parte perduta e al tempo stesso con più forza rivendicata <9; i vecchi possidenti, «più o meno feudali», che ora si danno alle speculazioni edilizie, soppesando «la fabbricabilità dei loro broli» nel centro del paese; le «forze del cielo», qui tutte terrene e incarnatesi in un’amministrazione comunale democristiana, nonché nella venerabile «Banca cattolica del Veneto» e in una parrocchia che oculatamente amministra i suoi vasti possedimenti). Ma, d’altro canto, questi dati così precisi emergono entro un discorso che avanza per insistenze e divagazioni, e che volentieri mette in discussione i propri statuti (a cominciare dall’io narrante, che s’interroga sulla possibilità di dire ‘io’ e sugli imprevedibili mutamenti del suo tempo interiore).
Un discorso immaginifico dal flusso sciabordante che – tra mulinelli e rapide – tende sempre a inabissarsi o esondare, vorticando su se stesso o ramificandosi altrove. Di modo che nessuno scenario è davvero fermo; nessun assunto pacificamente assumibile. C’è sempre un qualcosa che – da fuori e da dentro – preme, incombe o cova, rendendo precario ogni ipotetico fissaggio. Il dettaglio può così dilatarsi (o cedere) a dismisura; ogni microcosmo contemplarne di più vasti.
Valgano in proposito le sequenze di esasperata tensione analogica delle pp. 1038-1039, là dove una mutevolezza di stati d’animo e scenari interiori («la noia annunciatrice di migliori orizzonti», «la nascosta luce delle idee parassitarie») è detta e drammatizzata attraverso un fitto accavallarsi di metafore e comparazioni («la flora tossica» del ricordo «conficcata nella testa come un chiodo a espansione, o ramificata in filiformi propaggini a miriade, come una capigliatura arrovesciata verso l’interno del cranio»); e dove anche l’immagine già lessicalizzata – nel passaggio seguente, quella del nodo gordiano, riferita all’inestricabilità delle idee ossessive – trova una nuova risonanza: o, meglio, viene rivissuta allucinatoriamente nel suo etimo, al punto da acquisire, sotto la volta cranica, le sembianze di una miniaturizzata città-labirinto: “Più spesso lo scolice della mia idea ossessiva era come l’ingrandimento (da
testo di anatomia) di qualche corpuscolo o glomerulo vivente, un nodo gordiano di forma sferica, una Gordio sferica con vie e case infinitesime gremite di finestre o porte, come perline veneziane infilate a labirinto”. (p. 1039)
E questo nel dispiegarsi di un immaginario certo solidale con quello dell’opera in versi <10; come mostra pure il seguito del brano che – in forme altrettanto rutilanti e segnate – sviluppa la metafora iniziale dello scolice (o ‘testa della tenia’) dell’idea ossessiva: “oppure questo scolice-lappola, durissimo, lucido «e nero come gran di pepe» fornito di vello-ganci-antenne, si attestava quale apparecchio, miniaturizzato e inserito nella materia grigia da qualche dottor Delgado, a emettere una nota continua, incapace di vere intermittenze […], talvolta obliterata e un po’ sorda sotto il fluire delle altre idee, talvolta, più che in primo piano, come librata in dominio su tutta l’area psichica e su tutte le cose, fascia di negazione fluttuante”. (ibid.)
Con una progressione analogica che insiste sull’«area psichica», di fatto facendone un terreno dilatabile – se non devastabile – ad libitum; qui perturbato da minacce in prima istanza astratte (l’idea ossessiva), che però presto si fanno concretissime: mostruosamente creaturalizzate e meccanicizzate insieme. In una ridda di mutazioni che – davvero dantescamente – convoca insieme modelli classici e cronaca contemporanea; per cui, alla citazione dall’Inferno di Dante (ben mirata: da Inf. XXV 84, dove ad essere non lucido, ma «livido e nero come gran di pepe», è il «serpentello acceso» che scatena la più eccezionale delle metamorfosi cui si assiste nella bolgia dei ladri) si somma il richiamo ai terribili esperimenti di psico-elettronica compiuti tra gli anni ’50 e ’60 dal neurofisiologo José Delgado.
Incarnazione prima di queste minacce, poi, è la tenia con i suoi organi prensili (lo scolice-lappola): un’immagine cara alle tormentose endoscopie di Zanzotto, il quale – nelle sue prose come nei suoi versi – ne fa una figura complessa (all’occasione articolata in proglottidi) del male che s’insinua e aderisce, di rovelli parassitari, di maledigestioni e ossessioni nidificanti (di qualcosa che può appiccicarsi e uncinare le circonvoluzioni del cervello, così come fa il verme solitario lungo i ripiegamenti dell’intestino) <11.
Ma, al di là del fuoco di fila di metafore e dei possibili reticoli intertestuali, quel che ora andrà osservato è come, in Premesse, tale analogismo che sovverte ordini di grandezza, involucri e confini tra dentro e fuori – che cerebralizza il paesaggio e “paesaggisce” la psiche <12 – si manifesti anche in forme paradigmatiche, che strutturano il testo in profondità. Per cui il paesaggio sonoro appena evocato (la «nota continua, incapace di vere intermittenze, ora «un po’ sorda sotto il fluire delle idee» ora «librata in dominio su tutta l’area psichica») si porrà come un’ulteriore variazione sul tema delle sonorità persistenti e disturbanti già declinato – con una stessa visionarietà da microfonista – nel motivo delle seghe a moto continuo (anche «di filamenti nervosi e neuroni», si ricorderà), volgenti fino alla soglia degli ultrasuoni: «sembra che ci arrivino (così almeno non le si udrebbe) e non ci arrivano mai che basti» <13. Analogamente, il brulicare a chiazze e «a nebulose» dell’«enorme formicaio nelle fondamenta» della casa (p. 1027) rispecchierà anche il fibrillìo imprenditoriale della piccola cittadina <14.
[…] Così, inevitabilmente, lo stesso paese natale cui il soggetto mostra di essere fisio-patologicamente radicato, lungi dal definirsi come luogo addomesticato o rassicurante, si rivela presto spazio frastagliatissimo e tutto segnato da traumi (primo fra tutti quello dell’eccidio del 10 agosto 1944, già rievocato in 1944: FAIER) <17, che variamente incidono o fermentano nel tempo interiore del soggetto (nel «fluire della [sua] psiche-vita», p. 1050). Come si enuncia nel brano che segue, notevole anche perché nelle amplificazioni del fraseggio – continue e volentieri concitate (soprattutto nell’incipit) – nel crescendo di definizioni metaforiche (spolpamento… cavernizzarsi… erosione del senso dell’essere) e nel complicarsi tridimensionale delle figurazioni (le ore che scattano fuori dal tessuto del tempo «come immagini […] dal rilievo di piccolissimi prismi paralleli guardati da diverse incidenze») è dato vedere il correlativo stilistico e insieme una prova tangibile di quell’esasperata reattività immaginativa di cui l’io si dice in balia: “Perché […] qui ogni luogo ogni albero ogni casa ogni ombra o luce che s’alzi cada scompaia può assumere per me i più pesanti significati, influire sul decorso del tono vitale, della profonda psiche, portarmi dalla stabile ferma esaltazione allo spolpamento, al cavernizzarsi dell’anima, all’erosione del senso dell’essere. Rapidi e imprevedibili sono i mutamenti del mio tempo interiore con le decine e decine di immagini del mio paese che si legano a una via o a un’altra; ore e giorni che in apparenza si sovrappongono in uno screziatissimo e inestricabile tessuto, ma che invece scattano fuori acremente distinti l’uno dall’altro, col loro aggressivo sapore di guasto o di paradiso, solo per minime mutazioni o movimenti: come delle immagini che scaturiscono, opposte, dal rilievo di piccolissimi prismi paralleli guardati da diverse incidenze”. (pp. 1034-1035)
Quella dell’io zanzottiano è del resto una ipersensitività che muove verso percezioni multiprospettiche e pancroniche (che nell’hic et nunc coglie anche, insieme, il residuo e il germe); e che si manifesta non solo nei punti nevralgici del testo (così in particolare, nel racconto della tragedia del 10 agosto 1944, che continua a deflagrare nella memoria alla vista di quei campi allora, e quindi per sempre, insanguinati), ma anche nelle sue zone apparentemente più marginali e descrittive.
Pure qui, infatti, ogni eventuale referenzialità può complicarsi, se non dissolversi nel proliferare delle possibili connotazioni.
[…] Premesse all’abitazione configura dunque spazialità instabili e interiorizzate, che sono individuatissime e insieme eccedenti. Al continuo mutare degli orizzonti d’attesa, però, certo contribuisce anche il genere ibrido di questa prosa: che, contaminando approcci e registri discorsivi diversi, si muove tra autobiografia e argomentazione saggistica; tra narrazione memoriale, divagazione aneddotica e causerie.
Un ibridismo che può esser misurato anche solo prestando attenzione all’articolarsi dell’incipit.
A cominciare dal titolo, Premesse all’abitazione, che è sintagma sottilmente polisemico e denso d’implicazioni <19. Perché l’abitazione, qui, designerà sì la casa o il luogo prescelto per la sua costruzione, ma anche, più astrattamente, l’atto di (andare ad) abitare e – in senso più lato – la questione dell’ubicarsi; mentre il fatto che si etichetti come mere premesse un testo pur così articolato sollecita una sua ricezione problematizzante e aperta. In linea con tale intitolazione, le primissime battute affrontano poi il tema dell’abitare con il passo della disquisizione saggistica, sia pure d’una saggistica sui generis:
“Che ci si possa trovare fermi, come presi in una tela di ragno dalla piccolezza della propria casa, è un fatto fin troppo comune. Stolto è protestare per quello che è situazione della maggior parte del genere umano. Abitare tra quattro muri male intonacati e trasudanti muffa, pagando l’affitto a un padrone qualunque, a uno squallido piccolo proprietario, a una squallida società anonima, a uno squallido potere statale, deve capitare, ed è ingiusto soffrirne, soprattutto se si pensa agli alloggi di cui fruiscono i tre quarti degli uomini”. (p. 1027)
Dove al carattere impersonale, concettualizzante e assertivo delle strutture sintattiche principali («Che ci si possa trovare […] è un fatto», «Stolto è protestare…», «Abitare […] deve capitare, ed è ingiusto soffrirne»), con le loro emergenze di un lessico più astratto o formale (vd. anche fruire), fanno da contrappunto gli spessori materici e le accensioni espressive delle circostanziali («come presi in una tela di ragno», «tra quattro muri male intonacati e trasudanti muffa»), con il loro lessico più risentito (squallido in anafora).
Subito dopo, però, l’impersonalità e il piglio fiduciosamente trattatistico vengono meno, per cedere il posto a un io narrante autobiografico che, dapprima palesatosi in sordina (nascosto in un pronome possessivo: «Il mio padrone», (ibid.), presto fa delle proprie disavventure abitative l’occasione per stagliarsi in tutto il suo esitante, emaciato e cagionevole consistere (solo «il fermento dell’allergia» gli «permette talvolta, in difetto di altre strutture, di dire “io” senza mezzi termini, senza dubbi», p. 1028). La narrazione si fa quindi meta-narrazione; e si dispiega in una serie di dichiarazioni di antiletterarietà che di fatto suonano come consapevolissime preterizioni […]
[NOTE]
1 Una soluzione espressiva che può richiamare, per contiguità fonica, quella più referenziale: l’ingegno delle seghe invece che il loro congegno (ma ingegno per ‘congegno, meccanismo’ è anche dell’italiano antico; cfr. GDLI, s.v.). Così, analogamente: la seminagione di seghe, invece che di spighe (voce poi sottesa a tutta la tragedia del 10 agosto 1944, consumatasi appunto tra spighe di granoturco ora alte e salvifiche, ora basse e funeste; cfr. pp. 1044-1045). Del resto, i procedimenti di disseminazione fonico-semantica sono stati da Zanzotto affinati proprio in questi anni, specie nelle poesie che confluiranno nella Beltà (1968).
2 Ossia Bernari et al. 1964: volume engagé che, dopo una breve introduzione redazionale dai toni accesi (In quest’aria di scandali, pp. 7-9), raccoglie, oltre a quello di Zanzotto, testi di Carlo Bernari, Leonardo Sciascia, Lucio Mastronardi, Domenico Rea, Dante Troisi e Franco Costabile.
3 Pubblicata per la prima volta nel 1957 su rivista (sul n. 20 di «Botteghe oscure») e quindi, in versione scorciata, nei Racconti calviniani usciti da Einaudi nel 1958, La speculazione edilizia è stata riproposta (nella sua prima versione integrale) come volumetto autonomo dei «Coralli» einaudiani proprio nel giugno del 1963.
4 Piano di rilancio dell’edilizia pubblica (promosso dal ministro del Lavoro Amintore Fanfani) che, nell’arco di 14 anni, tra il 1949 e il 1963, favorì la realizzazione di circa 350.000 alloggi, per lo più destinati a famiglie con basso reddito.
5 La legge, presentata dal ministro dei Lavori pubblici Umberto Tupini nel febbraio 1949, mirava a incentivare, mediante una politica di agevolazioni fiscali, la costituzione di cooperative edilizie.
6 Scoppiato nel febbraio del 1962 con la scoperta di un ammanco di oltre due miliardi di lire, lo scandalo portò all’incriminazione di due sacerdoti della diocesi di Vittorio Veneto.
7 La via dove Zanzotto ha abitato nell’infanzia, luogo topico della sua poesia (dotato di Zauberkraft ‘forza magica’; cfr. PPS: 1654), viene qui rievocata come rifugio provvidenziale per Zanzotto e altri partigiani in fuga dai nazisti: «la Cal Santa ci aveva protetti», p. 1045 (nomen omen).
8 Senseria e obbi: scelte lessicali che paiono suggerire, in questo dinamismo imprenditoriale, una bizzarra compresenza di apertura al nuovo e radicamento alla tradizione: per cui c’è sì un anglismo di recente diffusione (nell’accezione di ‘svago, passatempo’, le prime attestazioni di hobby sono solo degli anni Cinquanta; cfr. DELI e GDLI), ma vistosamente adattato alla pronuncia italiana (obbi) e d’altra parte riferito a un’attività – la senseria – che, così definita, evoca un mondo già allora sorpassato di piccole compravendite (oggi, poi, si parlerebbe piuttosto di società d’intermediazione o di procacciatori d’affari).
9 Questa contrastata condizione, già intensamente rappresentata nel Pesco degli emigranti (prosa del 1955, ora leggibile anche in PPS: 987-990), in Premesse emerge di scorcio, soprattutto là dove si parla di un lotto di terreni che il Comune intende destinare all’edificazione di un villaggio per gli emigranti: i quali però, piuttosto che sentirsi così ghettizzati, preferiscono costruire svantaggiosamente, «male o a caso, con tirchieria e con distorta dignità» (p. 1031).
10 Si rileggano in particolare i primi versi de La quercia sradicata dal vento (da IX Ecloghe), dove una «tricosa Gordio», ossia una Gordio capelluta (cfr. l’arrovesciata capigliatura di Premesse) e a tal punto intricata «da atterrire il filo della spada», è apposizione analogica di una «non placabile idea» (PPS: 219).
11 Cfr. in particolare Pagine dissepolte, «abbiamo sentito lo scolice uncinato nidificarci nella mente» (PPS: 1015); e, nell’opera poetica, Diffrazione, eritemi (dal Galateo in bosco), dove il tema della tenia è pervasivo, sviluppato anche iconicamente («Partita a tenia, a ossiuro, ad anchilostoma? / Risalendo la tenia…», PPS: 556), e persino raffigurato con un disegno-ideogramma che funge da stacco strofico (cfr. PPS: 558). Ma si vedano anche Per la solenne commemorazione della morte del «Servus Dei» G. T. (da IX Ecloghe), dove così s’invita a guardare il defunto servus dei: «vedi lui vorticoso / di filamenti, fisimoso / di ganci come lappola, vedi la sua testa di lappola» (PPS: 228);
Eatherly (ancora da IX Ecloghe), «Ma tu muori ogni giorno, per farti superstite / in una morte scolice, morte zecca » (PPS: 231); e Retorica su: lo sbandamento, il principio «resistenza» (da La Beltà), lo «scolice della / sacramentale contraddizione» (PPS: 307). Per ulteriori riscontri e suggestioni interpretative, oltre ai commenti di Dal Bianco in PPS: 559 e 1582, si vedano Bandini 1974: 181, Cesca 1991: 217-218 e, soprattutto, Stefanelli 2011: 157-162, che ha anche il merito di mostrare come le tenie zanzottiane possano aver raccolto più di una suggestione dalle immagini vermicolari sviluppate da Jung nel suo saggio su Joyce, «Ulisse». Un monologo (1932).
12 Se ci è consentito modificare il comportamento sintattico – da intransitivo a transitivo – di un verbo tutto zanzottiano: «Ho paesaggito molto» (cfr. dalla Beltà, il XVIII testo di Profezie o memorie o giornali murali; PPS: 347).
13 Sulle sonorità «dislocate nei vari strati e livelli di realtà» delle prose di Zanzotto si legga il bel contributo di Favaro 2005.
14 L’assimilazione del microcosmo paesano a quello di una minuscola e perturbata comunità di animaletti sarà poi esplicita in un brano di Tra lingue minime e massime (1987), là dove Zanzotto – in quanto dialettofono di un dialetto minore come il solighese – dice di sentirsi, «nella realtà distruttiva dell’oggi, […] partecipe dell’ambiguo tepore di una società di vermiciattoli brulicanti, dai quali sia stato bruscamente levato via il sasso che li negava e insieme li proteggeva» (PPS: 1302).
17 1944: FAIER è una prosa uscita su rivista nel 1955 e poi ripresa, con esigue varianti, in Zanzotto 1964 (per ulteriori informazioni, vd. PPS: 1702). Sui legami tra questo racconto e Premesse, si veda Tamiozzo Goldmann 2008: 40-42.
19 Sull’importanza attribuita da Zanzotto alla scelta dei titoli si vedano le riflessioni dell’Autoritratto del 1977: «la semantica del titolo è rivelatrice e decisiva. Il titolo nasce per me come individuazione di una struttura in mezzo ad un coacervo» (PPS: 1209); o, sul versante critico, quelle dedicate, in Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo) (1987) a Stella variabile di Sereni: «un titolo tra i più divinati che si potessero dare», perché «è veramente tutta una poetica con le sue regole che in questo sintagma […] si esprime» (PPS: 1315).
Pietro Benzoni, Su “Premesse all’abitazione” di Andrea Zanzotto in “Le forme dell’analisi testuale”, a cura di P. Benzoni e D. Vanden Berghe, Cesati, Firenze, 2018

19-20. il mio desiderio è un segno / di sangue sulla neve: tutto ciò che si conserva dell’esistenza del soggetto e dei suoi desideri (termine etimologicamente derivato da sīdus, sīderis, ‘stella’, che di conseguenza richiama ancora una volta il valore del sole) consiste in una traccia di sangue. Il rapporto carnale e intimo tra l’io lirico e l’ispirazione poetica è già annunciato in Cielo vivente di supreme bufere (vv. 22-23). La vivace metafora evidenzia il contrasto cromatico tra il rosso del sangue e il candore nivale (cui corrisponde quello tra il segno grafico della scrittura e il bianco della pagina), che Zanzotto approfondisce più tardi nella prosa 1944: FAIER («nella neve insaguinata») e ne Gli Sguardi i Fatti e Senhal («ma già dèisangui / già scola da un’incisione sulla neve neveshocking / rossoshocking», vv. 9-11). Bortolazzo accosta a questa violenta conclusione l’avvio di alcuni versi redatti nell’anno 1945 in memoria delle vittime fucilate in paese durante la guerra: «Oggi la neve sul bianco del collo / ha un filo di sangue / che viene dalle vene di dieci morti» [Bortolazzo 2002, 381].
[…] Il tema lascia sporadiche tracce in altri loci: esso è ripreso in Dietro il paesaggio unicamente nella lirica Notte di guerra a tramontana, per divenire in seguito centrale all’interno della prosa 1944: FAIER (racconto datato 1954). Attraverso la descrizione del paesaggio il contesto naturale convive con quello culturale, ovvero si coglie nella natura l’impatto della civiltà e della storia. Il poeta dà voce inoltre alla propria sensibilità e all’insicurezza percepita – nel momento stesso in cui scrive – di fronte alla tragicità del conflitto.
Anjelica Manzan, «Ho cominciato ben presto a “comporre”»: i Versi giovanili di Andrea Zanzotto, analisi e commento, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico, 2018/2019

Fonte: Fondo Ambiente Italiano

Può colpire, retrospettivamente, il fatto che il bucolismo diffuso della trilogia e la sua plurivocalità siano per così dire in nuce nell’Epilogo (IX Ecloghe) del 1962, con i «(codici vari per tutti i suoni)» accennati dalla ‘persona c’ e la «(catena di dattili, spondei etc.)» accennati dalla ‘persona d’ in un enunciato parallelo (forse risposta) all’evocazione de «l’anancasma che si chiama vita […]» della ‘persona a’. La poesia per Andrea Zanzotto è stata sempre quell’agire dichiarato peraltro alla fine di Premesse all’abitazione:
“[…] E persisto anche a non dimenticare che il vero compito è un altro […]: tentare la lode, lasciarsi scuoiare da Apollo, collaudare: perfino ciò che, a mente e a mano inesperta, sembra inservibile e oscuro. Credere nella costruzione
originaria, diretta, in soggetto predicato e complementi, in quella che fa case dove si può abitare; incoraggiare il verde dell’infanzia, riabilitare i verts paradis, insieme con i bambini, segnando, se possibile, strade di accesso: ma dopo essersi accollati i pesi degli adulti, anziché averli rifiutati” <62.
Abitare il mondo da poeta impegna quindi un «collaudo» (o se si vuole una «notificazione di presenza») <63 pressoché permanente, in cui vengono giocate le più varie xenoglossie e glossolalie della Heimat, tramite le quali l’essere tenta di superare l’«anancasma», l’ansia che caratterizza l’esistenza già registrata da poeti come Leopardi e Hölderlin (fra altri) che sono stati per Zanzotto dei ‘totem poetici’, regolarmente invocati nella sua opera in quanto voci apotropaiche contro il terrore <64.
[NOTE]
62 A. Zanzotto, Premesse all’abitazione (1963), in Le poesie e prose scelte cit., p. 1050.
63 Notificazione di presenza sui colli Euganei è il titolo di una delle poesie di IX Ecloghe.
64 Quello espresso in Vocativo nel titolo Là nel cielo, là nel terrore (Le poesie e prose scelte cit., p. 195).
Jean Nimis, Glossolalie, xenoglossie nella «Pseudo-Trilogia», I Le lingue nella poesia di Zanzotto in (a cura di) Giorgia Bongiorno e Laura Toppan, Nel «melograno di lingue». Plurilinguismo e traduzione in Andrea Zanzotto, Firenze University Press, 2018

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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