È poi curioso pensare come il solo Berto sia stato marchiato con il segno di Caino, il segno del fascista

“Il brigante” <684 e “Guerra in camicia nera”, <685 se nominati insieme, danno quasi l’idea di un ossimoro, tanta è la loro apparente distanza ideologica. Provocatore per vocazione, infatti, Giuseppe Berto «pare attraversare da destra a sinistra tutto intero lo spettro politico italiano», <686 non solo a uno sguardo generale gettato sull’intera parabola della sua vita, ma anche focalizzando l’attenzione sulla semplice composizione di questi due libri.
Tenendo conto, inoltre, del costante impegno etico della sua scrittura, Berto viene a collocarsi, tra ideologia ed esperienza vissuta, in una concettuale terra di nessuno, a cavallo tra cultura di destra, cultura di sinistra e cristianesimo. Si tratta, come è chiaro, delle tre correnti di pensiero che hanno acceso il dibattito italiano sin da prima della guerra, quelle impersonate in “Conversazione in Sicilia” dalle prosopopee di Ezechiele, Calogero e Porfirio.
Alessandro Vettori, nel suo recente studio su Berto, pone in tal modo la medesima questione: «Da una convinta ammirazione per il rigorismo ideologico fascista, senza però mai diventare vuoto trionfalismo, in testi come ‘Guerra in camicia nera’, si passa impercettibilmente a una altrettanto persuasiva esposizione delle convinzioni marxiste, ad esempio nel romanzo “Il brigante”, ma senza poter mai inquadrare l’autore in una singola corrente che lo identifichi politicamente. Altrettanto vale per il rapporto di Berto con la fede cristiana. Originario della cattolicissima provincia veneta ed educato in un collegio di Salesiani, lo scrittore non cede alle forti pressioni familiari e sociali senza vagliare il significato di un’appartenenza all’ortodossia cattolica. […] La sua prospettiva di non allineato darà ai suoi scritti un’affascinante patina di novità su temi mai risolti, ma formulati nella dimensione del mistero e della fede». <687
È meglio in questo caso spiegare per esteso ciò che intende, in sintesi, Vettori.
Berto è sempre stato un amante dell’ordine <688 e delle cose ben fatte, come dimostra il suo perfezionismo; tuttavia, l’ammirazione non va al rigorismo ideologico del fascismo, ma al suo slancio anticonservatore. Ogni sua posizione al riguardo non è allineata con le linee di partito: «Noi non odiamo né gli inglesi né gli americani, anche se qui non fanno che predicare che bisogna odiarli. Anzi, abbiamo rispetto e ammirazione per la loro civiltà e per le loro conquiste nel campo sociale ed economico. Ma disapproviamo i loro sistemi politici, quel conservatorismo che, pur combattendolo in patria, essi pretenderebbero di imporre in campo internazionale». <689
Le sue posizioni non allineate non riguardano soltanto l’indifferenza nei confronti della propaganda contro inglesi e americani. Il passo che segue rende chiaro il pensiero politico di Berto all’altezza del 23 novembre 1943, mentre si trovava in Cirenaica. Com’è chiaro, in quel momento Berto è ancora un fascista convinto, non avendo ancora sperimentato il campo di Hereford. Eppure, il suo pensiero non somiglia a quello del fascista comune e riserva delle sorprese: «Un altro punto sul quale io e il mio amico ci troviamo d’accordo è la necessità della rivoluzione postbellica. Innanzitutto si tratterà di una rivoluzione nel fascismo e non contro il fascismo. Noi siamo convinti che la teoria del fascismo contiene i principi morali, sociali ed economici necessari alla civile convivenza di un popolo e dei popoli fra di loro, e che la necessaria limitazione della libertà, molto minore della attuale, è compensata da una garanzia di ordine e giustizia. Purtroppo, ce ne accorgiamo tutti, la teoria viene applicata male: ma questo non significa che bisogna cambiare il regime, bensì rendere efficiente quello in cui già ci troviamo. In sostanza, non si tratta d’altro che di eliminare la stupidità e la corruzione, di concedere una maggiore libertà politica perché un governo onesto non può aver paura dell’opposizione, e soprattutto di dare un reale valore dinamico al motto fascista “andare verso il popolo”. Siamo totalmente decisi a far questo, che se per ottenerlo occorresse combattere lo stesso Mussolini, noi lo combatteremmo». <690
La confusione di Berto riguardo l’ideologia fascista mi sembra qui piuttosto chiara. Il soldato volontario, cresciuto a pane e camicie nere, non ha chiarezza mentale, non trova la forza per poter dire di voler rovesciare il fascismo. La prima parte di questo testo è scritta da un uomo che vuol essere fascista, ma che tuttavia non lo è fino in fondo. Del fascista conserva qui l’ideale patriottico – il quale peraltro non è esclusivo dei fascisti – e la giustificazione della limitazione della libertà per il raggiungimento di un bizzarro bene comune. Tuttavia, nel suo futuro regime ideale, la libertà è molto meno limitata rispetto al presente, ovvero al 1943. Ritiene poi che debba esistere un’opposizione, rileva la presenza di una corruzione diffusa e, infine, fa suo più che mai il motto “andare verso il popolo”, dichiarandosi pronto a combattere Mussolini stesso per realizzarlo. In breve, Berto qui rifiuta la pratica totalitaria del partito unico, la corruzione del regime del tempo, il culto della personalità e promuove un motto fascista che, nel suo significato letterale, avrebbe avuto legittimità anche tra le labbra di un socialista – anche perché il popolo fascista non assume su di sé il significato razziale esplicitato nel Volk tedesco.
Mi sembra da questo testo che Berto, inconsapevolmente, sia diventato fascista accostandosi più agli aspetti dottrinali che il fascismo aveva in comune con il socialismo rivoluzionario: il fatto non dovrebbe destare clamore, dato che la stessa cosa è effettivamente accaduta a Davide Lajolo. L’autore del celebre ‘Il “vizio assurdo”. Storia di Cesare Pavese’ <691 è anche l’autore del meno noto “Il voltagabbana”, <692 in cui Lajolo racconta la propria esperienza di fascista che si rende conto, all’alba dell’8 settembre, di aver creduto in un fascismo diverso da quello ufficiale. Diventa quindi un voltagabbana, abbraccia il movimento della Resistenza in qualità di comandante e, dopo la guerra, entra in Parlamento tra le fila del PCI. Anche lui aveva creduto in quegli scampoli di socialismo che il regime cuciva sulla propria bandiera al fine di attirare i giovani e gli operai.
La differenza tra Lajolo e Berto sta nel fatto che il primo ha ampiamente operato al fine di cancellare la propria vergogna, operando scelte politiche di impegno e iscrivendosi al partito comunista. Anche Berto ha più volte dichiarato, nel corso del tempo, la propria abiura definitiva al fascismo, perfino nel paratesto di “Guerra in camicia nera”; tuttavia, la propria ansia di giustificazione lo ha portato a scrivere un libro il cui contenuto, all’altezza del 1955, era assai fraintendibile. Più che spiegare la propria vergogna di fascista e i propri ripensamenti, in quell’occasione Berto ha solo creato un’aria di ambiguità intorno alla sua persona. “Guerra in camicia nera”, tuttavia, non fu il suo unico errore di percorso: anche la pubblicazione del “Brigante” infatti ebbe conseguenze poco gradevoli. Da un punto di vista letterario, si faceva promotore di una scrittura neorealista fuori tempo massimo.
Emilio Cecchi, com’è noto, stroncò il libro facendo uso di un’arma retorica da lui usata raramente, ovvero l’ironia: «Poco è da stupirsi che, per esempio in America, storie come ‘Il brigante’ debbano piacere. Laggiù vanno matti anche di certe economiche tazzine da caffè, stile ‘Cena delle beffe’, marcate “Italy”, e che sono fabbricate in Giappone». <693
In America e in Russia, infatti, Berto aveva venduto più di due milioni di copie, <694 ma si tratta per lui di una magra consolazione, di fronte all’insuccesso di pubblico e critica in Italia.
Da un punto di vista politico, invece, la guerra di Corea scoppiata nel 1950 aveva provocato una sorta di reazione anticomunista e “Il brigante”, a detta dell’autore, è insieme a “Le terre del Sacramento” di Francesco Jovine <695 l’unico romanzo veramente marxista mai pubblicato in Italia. <696 “Il brigante” è il romanzo marxista di un ex fascista, pubblicato nel 1951: per noi posteri, avvantaggiati da una visione più lucida, è più facile individuare qui un vero e proprio suicidio politico.
La pubblicazione marxista del ’51 e quella politicamente ambigua del ’55 condurranno Berto non solo all’emarginazione dell’establishment letterario, ma addirittura a una nevrosi d’angoscia decennale, dalla quale si libererà solo con la pubblicazione del “Male oscuro”.
“Il brigante”, a ogni modo, non si esaurisce nel suo significato politico. Si tratta di un romanzo che in realtà contiene al suo interno la maggior parte dei temi ricorrenti in Berto. Prima di tutto quello dell’infanzia dato che Nino, il narratore, è un bambino e tutta la storia è raccontata dalla sua prospettiva.
La scelta dei bambini come personaggi per nulla secondari, almeno nei primi romanzi di Berto, ha una causa ben precisa. L’autore, dopo aver affermato nell'”Inconsapevole approccio” di soffrire di un duplice senso di colpa – in quanto essere umano e in quanto italiano fascista – e dopo essersi in certo modo assolto dal primo attraverso la teoria del male universale, così spiega il secondo: «essere assolto come uomo avrebbe dovuto comportare anche l’assoluzione come italiano e fascista, ma i sensi di colpa non si mettono quasi mai d’accordo con la logica, e così il Nostro sente la necessità di crearsi una supplementare innocenza. Ci arriva, o tenta d’arrivarci, scegliendo i protagonisti delle sue storie, ossia i rappresentanti del suo popolo, tra gli incolpevoli: bambini, vecchi, malati, poveri contadini che vivono sulla terra senza nulla chiedersi. […]. Il senso di colpa di Berto tende a scaricarsi nella compassione per le innocenti vittime della guerra che immagina e descrive con tanta partecipazione da trasferirsi in esse». <697
Il fatto che Berto si identifichi nei personaggi sopraffatti, soprattutto nei bambini – gli innocenti per antonomasia – conduce direttamente al vero motore della narrazione, il male universale. Le prime pagine del romanzo richiamano molto chiaramente il concetto, pur senza menzionarlo esplicitamente: «Tante volte in seguito ho cercato di ragionare e di rendermi conto della vera importanza dell’atto che feci. Ci sono azioni che si compiono così d’impulso, azioni qualsiasi senza valore, che però poi danno origine a un cambiamento della nostra vita e nella vita di coloro che hanno relazione con noi. E non so ancora se sia giusto vedere la nostra responsabilità in quelle azioni e sentirne il rimorso. Certo che se […] più tardi mi fossi tirato indietro o avessi comunque cercato di resistere agli avvenimenti, probabilmente tanti fatti non sarebbero accaduti. Ma allora ne sarebbero accaduti degli altri, e delle cose non avvenute non si può mai dire se sarebbero state meglio o peggio». <698
Anche in questo caso, Berto sostiene che il male sia la predestinazione di ogni uomo: proprio per questo non si è colpevoli. Quando tutti sono colpevoli, in realtà nessuno è colpevole. Berto, anni dopo, affermerà infatti che: «la guerra non è, in fondo, opera di uomini bensì opera di Dio, o manifestazione d’un “male universale” che determina la condotta degli uomini scaricandoli da ogni responsabilità». <699
Tale predestinazione si scioglie prima o poi dalla teoria e diventa atto, colpa reale. Quando l’atto stesso o i suoi effetti diventano palesi e un soggetto altro identifica il colpevole, quest’ultimo può provare vergogna morale. Tengo a precisare che il soggetto altro può anche essere il proprio Io: infatti la vergogna è ricorsiva e riflessiva, vale a dire che ci si può vergognare di se stessi.
Questo tipo di dinamica è molto vicina all’attuarsi in un passo del “Brigante” in cui Nino, dopo aver passato un’ora in commissariato in seguito a una rissa in cui ha avuto la peggio, con il viso pesto torna a casa: «Mi rialzai come potei e mi avviai verso casa. Per tutta la strada riuscii a non piangere. Non dovevo piangere. Sarebbe stato ridicolo se adesso uno come me si fosse messo a piangere perché si era preso un sacco di botte. Ma non erano le botte, lo sapevo bene. Era che avevo tutto il male del mondo contro di me, la perfidia e l’odio e l’ingiustizia, e io mi trovavo solo a sopportare tutto quel male, e desolato. E non c’era modo di combattere il male, nessuna via, all’infuori della rivolta». <700
In quell’istante Nino è solo, nessuno è in grado di vedere il suo volto e, all’occorrenza, di vederlo piangere. Tuttavia Nino è posto di fronte ad un se stesso ulteriore che lo osserva costantemente e che lo deriderebbe se lo vedesse lacrimare. Se Nino iniziasse a piangere, quindi, proverebbe vergogna di se stesso.
Facendo più attenzione, ci si accorge in realtà che la vergogna si attiverebbe soltanto se il vulnus fosse costituito dalle botte, vale a dire se la pretesa di Nino su se stesso – «sarebbe stato ridicolo se uno come me» – fosse disconfermata. Tuttavia il rovello è inutile, perché Nino non ha voglia di piangere per le percosse, ma perché sente su di sé un male superiore, quel male universale impossibile da fermare. In questo caso, Nino ricorda il prigioniero nei Lager che non soffre per i colpi ricevuti, ma per l’impossibilità a ricondurli a una colpa definita. Anche se il bambino parla qui della possibilità della rivolta, si tratta di un ultimo colpo di coda infantile, proprio di un ragazzino che non vuole darsi per vinto perché sarebbe contro la sua natura.
Nel passo immediatamente successivo si vede chiaramente che l’accenno alla propria desolazione, alla solitudine nel sopportare il peso del dolore, ha un’importante vena edipica, un tema che tornerà violentemente nel “Male oscuro”:
«Così mi presentai sulla porta di casa, con le forze tenute su da un filo di orgoglio e il viso trasfigurato dalle botte. Mio padre mi guardò e rimase indifferente. Mia madre fece l’atto di accorrere, poi ebbe paura di mio padre, tornò a sedersi. Allora io presi la porta delle scale e andai a buttarmi sul letto, e bisognò lottare contro una voglia più forte di piangere, perché ora ero proprio abbandonato da tutti, perfino da mia madre». <701
Come in “Episodio”, la madre del protagonista ha paura del marito e si ritira, non ha il coraggio di contraddire la sua immobilità di fronte al figlio. A questo punto Nino si sente definitivamente abbandonato e in contrasto con il genitore, ma non solo per il possesso della madre: lungo il corso della trama, infatti, è chiaro che Nino combatte costantemente contro la vergogna, mentre il padre si ammutolisce e soccombe, soprattutto quando Miliella va via di casa. Si tratta quindi di due personaggi profondamente in contrasto anche da un punto di vista emozionale.
«Forse non gliene importava più come prima del podere e del raccolto, ma si attaccava alla terra perché era fatica, e lavorava sempre con rabbia, come se ciò avesse potuto liberarlo dalla vergogna. Perché per lui era vergogna, più che dolore». <702 «Ma io non ero come mio padre. Non provavo vergogna, io, di fronte a nessuno». <703
Nel “Brigante” riconosciamo quindi un libro profondamente bertiano – sebbene si tratti del meno fortunato – proprio a partire dalla presenza dei suoi temi ricorrenti: l’infanzia, il male, la lotta contro il padre e il complesso edipico, la vergogna, il suicidio e la colpa. Michele Rende infatti compirà una sorta di suicidio, una rincorsa verso la morte che, quattro anni prima, aveva già percorso Daniele nel “Cielo è rosso” e che, quasi trent’anni dopo, avrebbe ripercorso Gesù Cristo in “La gloria”.
“Guerra in camicia nera” non terminerà con un suicidio, ma con la partenza verso un luogo di prigionia, in cui il punto di morte dell’autore e dei suoi compagni subirà un mutamento, come abbiamo visto. Una dimensione, quindi, fuori dalla Storia e dal tempo. Le ultime pagine di “Guerra in camicia nera” sembrano profetiche dato che, in un libro scritto nella forma del diario di guerra, sono le uniche pagine in cui non viene specificata una data e un luogo; vengono infatti introdotte con un laconico: «Senza data, alcuni anni dopo». In questo explicit rinveniamo il racconto di un episodio, che porterà l’autore all’isolamento politico, e alcune considerazioni sulla vergogna. Vi si narra, dunque, il momento in cui i soldati italiani, ormai catturati dagli Alleati, vengono caricati su una colonna di autocarri per essere trasportati verso una meta a loro ignota. La colonna, a un certo punto, si ferma a un bivio intorno al quale inizia a nascere la città, fitto di case com’è. Così si viene formando una folla che insulta i prigionieri fascisti. Ma una bambina – ancora una volta una bambina – si tiene discosta, nei pressi di una fontana. Nel suo vestito celeste aspetta che la colonna le passi di fronte, una volta ripresa la marcia. Quando ciò accade, rischiando probabilmente un linciaggio, sale sul gradino della fontana e li saluta romanamente. Si tratta di un racconto equivoco, certo un errore politico concludere un libro così, nel 1955. Il conoscitore di Berto sa che questo tipo di racconto non vuole essere un’apologia al regime, ma una testimonianza di cosa pensava un soldato fascista che era diventato, mi si passi l’ossimoro terribile, “fascista in buona fede”. Si tratta quindi di una excusatio, un libro scritto per spiegare e per tornare ad avere legittimità di parola, per far capire al pubblico come si può diventare fascista e poi democratico, grazie all’esperienza. Tuttavia, concludere il libro in questo modo ha avuto come risultato l’effetto opposto.
Ma veniamo a ciò che l’autore scrive riguardo la vergogna, qui certamente connessa alla predestinazione e al male universale: «Molti, in attesa del sonno, parlarono della ragazza vestita di celeste. Ne parlarono con quel senso di vergogna che lei ci aveva fatto provare, per aver perduto dopo che le avevamo insegnato ad aver fede in quel gesto che lei continuava a fare anche dopo che noi avevamo perduto. Poi, col tempo, dimenticammo il senso di vergogna. Dovemmo fare un lungo cammino, prima di poter tornare a casa. E mentre il tempo passava, nell’eco delle cose che succedevano nel mondo, noi perdemmo la vergogna di aver perduto. Ci parve anzi di aver fatto abbastanza per non perdere. E nei confronti della ragazza vestita di celeste ci sentimmo meno responsabili di tanti altri. Il suo gesto rimase nella nostra memoria, ma spoglio di qualsiasi carattere di lotta e resistenza, come un atto di bontà pura. E così lo ricordiamo, con riconoscenza, perché poi non ci accadde di trovare molti altri atti di bontà nel nostro lungo cammino». <704
In questo passo assai controverso si nasconde un atteggiamento tipico di Berto: l’esposizione totale della propria colpevolezza, l’atto di sincerità smaccata tipico dell’autobiografo che cerca nel suo pubblico una redenzione. Berto non vuole fare come secondo Rousseau fece Montaigne, ovvero comunicare al lettore, tra tutti i propri difetti, solo quelli amabili. <705 Vuole, al contrario, sondare con esso il proprio dolore e la propria irrimediabile colpa.
Nel passo appena citato, il soldato non prova vergogna di fronte al nemico vincitore, perché questo fa parte dell’ordine naturale delle cose: le guerre si vincono o si perdono. Prova invece vergogna di aver creduto in un ideale, di avere perso e, nonostante tutto, di trovarsi di fronte a una bambina innocente che come lui, per educazione e determinismo, aveva creduto nella retorica di regime. Vale a dire che la propria pretesa di soldato viene disconosciuta non dai nemici, ma da una piccola bambina che sembra avere più “onore” e meno paura di loro: di fronte a lei prova vergogna morale, perché il suo gesto è plateale e viene agìto in pubblico.
Questo è ovviamente il pensiero di un soldato fascista, anche se un po’ disallineato: ma c’è da aspettarselo, dato che questo racconto è una mimesi dei pensieri dell’autore quando era giovane, non una esplicazione del proprio pensiero del 1955; per quest’ultimo la sede idonea è la prefazione, che citerò a breve.
Nel secondo capoverso dell’ultimo passo citato, la vergogna subisce uno svilimento, perché altrettanto accade all’idea di responsabilità e, quindi, di colpa. Dopo alcuni anni di prigionia, al soldato sembra di essere tornato momentaneamente in pari nella terribile bilancia che misura il dolore arrecato agli altri e quello subìto: proprio per questo sceglierà di non collaborare con il nemico, per portare il peso della propria responsabilità fino in fondo e, probabilmente, per espiare. Il gesto della bambina, una volta che l’ideale fascista è appassito nella mente del soldato, non ha più un valore militare o eroico, ma diventa un banale quanto commovente gesto infantile di bontà, l’ultimo prima del suo ritorno in Italia.
Oggi sappiamo che nella vita di Berto, dopo il purgatorio chiamato Hereford, nulla è andato in questa direzione, vale a dire che l’autore non si è mai sentito libero dalla colpa di essere stato un soldato fascista, la sua vergogna è rimasta intatta. Ha tuttavia dichiarato, ripetutamente, che il suo rapporto con il fascismo è consistito, dopo la guerra, in una «rottura intima, totale e definitiva: come sanno benissimo coloro tra i miei compagni che sono rimasti fascisti». <706
Venendo alla prefazione al libro, Berto esprime in questo luogo del testo una serie di concetti che – si direbbe miracolosamente viste le conseguenze – appaiono oggi in netta affinità con quelli espressi da Italo Calvino nella prefazione del 1964 a “Il sentiero dei nidi di ragno”, romanzo che racconta la vicenda opposta a quella di “Guerra in camicia nera”, ovvero la lotta partigiana.
Il libro di Berto è prima di tutto introdotto da un’epigrafe firmata da Ippolito Nievo: «Io non son facile a farmi amici e camerati di questi entusiasti di mestiere». A partire da questa frase dovremmo capire che l’autore dichiara, sin dal principio, la propria profonda differenza rispetto ai commilitoni di allora. Ippolito Nievo qui sembra ricalcare il pensiero del soldato protagonista in “Economia di candele” e “Gli eucaliptus cresceranno”. Per rendere chiaro questo concetto, analizziamo più da vicino la prefazione al libro, che così ha inizio: «Se pubblico questa cronaca di guerra a oltre dieci anni di distanza dagli avvenimenti che vi sono raccontati, è perché ho fiducia che si tratti di un lavoro semplice e onesto, e Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno. Credo che finora nessuno abbia scritto sulla guerra, e in particolare sulle camicie nere, sia per difenderle che per offenderle, cose libere da quell’accanimento con cui abbiamo combattuto gli uni contro gli altri, e soprattutto libere dalla retorica, la quale, essendo il più costante dei nostri difetti, pare debba passare in eredità da una generazione all’altra» <707
In questo passo Berto evidenzia l’alta temperatura del dibattito politico di metà anni Cinquanta, durante i quali egli stesso vuole porsi come giudice super partes e scrivere delle camicie nere senza prenderne le difese o accusandole. Inoltre, è già chiaro quale sarà il suo obiettivo critico durante tutto il corso della vita: la retorica. Riconosciuta come il peggior male messo in atto dal regime, proprio perché l’autore stesso è stato abbindolato dalla propaganda di regime, nel dopoguerra la retorica di qualsiasi genere diventa il bersaglio preferito del moralista Berto. Abbiamo già visto, chiaramente, come l’atteggiamento guerresco e il fare epico siano addirittura accostati alla sfera del ridicolo, nella scrittura bertiana. La prefazione così continua: «Non pretendo né desidero che questo mio diario abbia valore di documento storico. Mi accorgo benissimo che “io”, la prima persona del diario, è un personaggio come di romanzo, e personaggi sono pure gli altri intorno a lui, perché tutti, pur condizionati ad avvenimenti che io conosco assolutamente veri, si muovono in un’aria di fantasia. Tuttavia spero che il mio lavoro conservi sufficiente sapore di realtà da testimoniare in me, e in tanti altri che come me servirono il fascismo con la convinzione di servire l’Italia, una essenza morale valida anche oggi». <708
In questo passo invece, Berto presenta il libro come un’opera che si situa a metà strada tra realtà e finzione. A ogni modo, dato l’uso della prima persona e della datazione di ogni paragrafo, è chiaro che l’io narrante vuole qui rispecchiare il modo di pensare e di agire di un giovane Berto non ancora convertito alla democrazia: ricalca quindi, e in modo dichiarato, il pensiero di un uomo ancora fascista e quindi ancora colpevole. Ovviamente il passo in cui si fa riferimento a «un’aria di fantasia» è recepibile non solo come un’auto critica letteraria – peraltro corretta, perché l’aria di fantasia è realmente presente – ma, nella pratica, come tecnica per alleggerire la propria responsabilità riguardo allo scritto. Confondere le acque del patto autobiografico <709 è una mossa retorica tipica in Berto, come si vedrà più in là nell’introduzione al “Male oscuro”. Si tratta di una forma di reticenza e quindi di un atto di vergogna.
L’ultima frase del passo era ovviamente fraintendibile nel 1955, ma oggi abbiamo l’obbligo di leggere queste frasi con superiore lucidità: Berto qui non sostiene che la morale fascista sia valida ancora oggi, ma che il suo coinvolgimento nel fascismo era stato “in buona fede”, cioè nella convinzione di costruire un mondo migliore, come appunto è capitato a Davide Lajolo, ad Alberto Moravia, a Elio Vittorini.
Berto vuole sottolineare la propria buona fede ed è assurdamente cosciente che si tratti, in quel momento storico, di un errore: «questo è un libro» scrive «che dispiacerà a molte persone». Vale a dire che è pienamente cosciente di compiere una sorta di suicidio politico, del fatto che sta seguendo in pieno una propria pulsione di morte.
È interessante vedere, inoltre, come dà seguito al proprio pensiero: «Questo è un libro che dispiacerà a molte persone, ma io sarei addolorato se dispiacesse ai miei vecchi camerati […]. Temo tuttavia che a loro dispiacerà inevitabilmente, e per scusarmi posso dire soltanto che non ho scritto di proposito alcuna cosa che potesse offenderli, ma di aver preso sinceramente come norma la mia misura delle cose, che era diversa dalla loro allora, e più diversa lo è, forse, oggi». <710
Ancora una volta un mea culpa, questa volta diretto ai suoi compagni, accompagnato tuttavia da una dichiarazione forte nei loro confronti: l’affermazione della diversità tra lui e loro; diversità di allora (fascista non allineato) e di oggi (democratico, non fascista). In questo luogo del testo ha inizio, inoltre, l’esposizione di uno di quei pensieri che Berto ha in comune con il Calvino della “Prefazione”, ovvero le scuse nei confronti di quelle persone reali che, diventate personaggi, hanno probabilmente subìto una distorsione da loro non sicuramente apprezzabile: «Se parlo anche dei difetti delle camicie nere, della loro indisciplina e della loro occasionale paura, se le faccio combattere e morire da uomini e non soltanto da eroi, è perché in questo modo io le ho capite, e così le ho descritte». <711
In questo caso, Berto replica l’atteggiamento narrativo adottato prima della guerra nella scrittura della “Colonna Feletti”: non narra retoricamente le vittorie del regime, la loro ridicola eroicità – come direbbe lo stesso Berto – ma la loro sostanza umana, al di là della retorica. Nel corso della narrazione, infatti, le camicie nere sembrano tutto tranne che ardite, e l’autore mostra un esercito italiano quasi grottesco a causa della sua palese disorganizzazione. Si tratta di militari incapaci di mimetizzarsi, poveri di mezzi, costretti ad assalti assurdi dato che gli viene richiesto, in almeno un’occasione, di attaccare dei carri armati inglesi con dei vecchi fucili della precedente guerra in Africa.
Le scuse chieste da Berto ai suoi commilitoni sono inutili, perché il suo modo di pensare di giovane soldato era già troppo antiretorico per poter cadere nelle ingenuità dell’epicofascista.
Nella “Prefazione” di Calvino, come ho anticipato, si ritrova un concetto simile: «Le deformazioni della lente espressionistica si proiettano in questo libro sui volti che erano stati dei miei cari compagni. Mi studiavo di renderli contraffatti, irriconoscibili, “negativi”, perché solo nella “negatività” trovavo un senso poetico. E nello stesso tempo provavo rimorso, verso la realtà tanto più variegata e calda e indefinibile, verso le persone vere, che conoscevo come tanto umanamente più ricche e migliori, un rimorso che mi sarei portato dietro per anni…». <712 In questo passo, Calvino racconta il proprio senso di colpa: l’aver fatto poesia in sede di realtà, l’aver peggiorato ad arte i caratteri dei suoi compagni per comunicare più poeticamente (negativamente) le vicende della Resistenza. Tuttavia, questa scelta ha un senso che va ben oltre la “poesia negativa”: «Già nella scelta del tema c’è un’ostentazione di spavalderia quasi provocatoria. Contro chi? Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata» <713 In questo passo si vede ancor più chiaramente come il pensiero di Calvino stia per prendere la direzione di quello bertiano, benché stia parlando dell’esperienza politica opposta.
La «spavalderia quasi provocatoria» è, come abbiamo visto, uno dei modi d’operare più consueti allo scrittore di Mogliano: anch’egli la utilizza per collocarsi nel mezzo – come giudice non assolvente – tra i detrattori delle camicie nere e gli ultimi agiografi.
[…] Per quanto riguarda, al contrario, la lotta contro i sostenitori di una Resistenza edulcorata e agiografica, Calvino ha parole non meno dure e, come sarà chiaro dopo la lettura del passo, coincidenti con quelle di Berto: «Cominciava appena allora il tentativo d’una “direzione politica” dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare l’”eroe positivo”, di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria. Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in seguito, qui in Italia, simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito. Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria: quando scrissi questo libro l’avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere d’una nuova retorica».
Torna nuovamente, ma per bocca di uno scrittore partigiano, il problema della retorica, l’arma fascista per eccellenza che rischia di intaccare nel dopoguerra anche i partiti di sinistra, la qual cosa risulta ovviamente insopportabile per qualsiasi intellettuale. Non è possibile nascondere lo stupore di fronte a un confronto di questo tipo: l’autore di “Guerra in camicia nera” e quello del “Sentiero dei nidi di ragno” avevano entrambi paura che quel tipo di retorica potesse tornare.
Anche una figura in precedenza coinvolta nel movimento fascista, Elio Vittorini, ha immediatamente rilevato questo problema, proprio per il fatto di essere stato abbindolato dalla propaganda in giovane età, come in fondo accadde a Berto. Elio Vittorini fu infatti uno dei primi intellettuali di sinistra – sicuramente il caso più eclatante – a discutere più violentemente sulla direzione politica della cultura. La lunga polemica con Togliatti, che lo portò ad abbandonare il partito, altro non è che una asprissima discussione sul fatto che lo scrittore deve essere libero di fare ricerca artistica, che non gli è possibile vedersi semplicemente come “pifferaio della rivoluzione”: ancora una volta le coincidenze con il pensiero di Berto sono lampanti, visto che quest’ultimo, negli elzeviri del “Carlino”, ha criticato a lungo lo zdanovismo, promuovendo al contrario l’idea che lo scrittore dovesse essere sempre libero da ogni costrizione esterna, soprattutto se politica. <716
In breve, troviamo d’accordo tre fra i maggiori esponenti del neorealismo – l’inconsapevole Berto, Calvino e Vittorini – sul fatto che lo scrittore debba essere libero e che il pericolo più insidioso per la cultura politica italiana sia l’insorgere di una nuova retorica.
È poi curioso pensare come il solo Berto sia stato in seguito marchiato con il segno di Caino, il segno del fascista.
[NOTE]
683 G. Berto, Due risposte, in Soprappensieri, cit., p. 151, già in Il resto del Carlino, 2 febbraio 1964.
684 Giuseppe Berto, Il brigante, Einaudi, Torino, 1951.
685 Giuseppe Berto, Guerra in camicia nera, Garzanti, Milano, 1955.
686 Alessandro Vettori, Giuseppe Berto: La passione della scrittura, Marsilio, Venezia, 2013, p. 123.
687 Ivi, pp. 123-124.
688 Sebbene in Guerra in camicia nera (p. 34) e in altri luoghi della sua opera affermi il proprio odio nei confronti dell’inutile ordine della vita militare, soprattutto quella in caserma, la Prefazione a La cosa buffa recita così: «Sia chiaro ch’io sono per l’ordine, e che ciò è inutile», p. 7.
689 G. Berto, Guerra in camicia nera, cit., p. 39.
690 Ivi, pp. 39-40.
691 Davide Lajolo, Il “vizio assurdo”. Storia di Cesare Pavese, Il Saggiatore, Milano, 1960.
692 Davide Lajolo, Il voltagabbana, Il Saggiatore, Milano, 1963.
693 Emilio Cecchi, Troppi morti in Di giorno in giorno. Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954), Garzanti, Milano, 1954, p. 247.
694 Dario Biagi, Vita scandalosa di Giuseppe Berto, cit., p. 110.
695 Francesco Jovine, Le terre del Sacramento, Einaudi, Torino, 1950.
696 Dario Biagi, Vita scandalosa di Giuseppe Berto, cit., p. 248. Cfr. inoltre Giuseppe Berto, Prefazione, in Il brigante, Marsilio, Venezia, 1997.
697 G. Berto, L’inconsapevole approccio, cit., pp. 73-74.
698 G. Berto, Il brigante, cit., p. 12.
699 G. Berto, L’inconsapevole approccio, cit., p. 68
700 G. Berto, Il brigante, cit., p. 179.
701 Ivi, pp. 179-180
702 Ivi, pp. 173-174.
703 Ivi, p. 177.
704 G. Berto, Guerra in camicia nera, cit., p. 196.
705 «Avevo sempre riso della falsa schiettezza di Montaigne che, fingendo di confessare i propri difetti, pone molta attenzione ad attribuirsene solo di piacevoli». J.J. Rousseau, Le confessioni, cit., p. 600.
706 G. Vigorelli, Domande a Giuseppe Berto, cit., pp. 64-65.
707 G. Berto, Guerra in camicia nera, cit., p. 9.
708 Ibidem.
709 Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, cit.
710 G. Berto, Guerra in camicia nera, cit., pp. 9-10.
711 Ivi, p. 10.
712 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno in Romanzi e racconti, I, Mondadori,
Milano, 1991, p. 1190.
713 Ivi, p. 1192.
716 Cfr. G. Berto, Soprappensieri, cit., pp. 438-449. In questo intervallo di pagine sono contenuti tre articoli, La libertà di scrivere, Scrittori e libertà e Libertà e paura, pubblicati sul Resto del Carlino rispettivamente il 29 giugno, il 12 luglio e il 7 agosto del 1966.
Saverio Vita, Autobiografi della vergogna. La vergogna come dispositivo narrativo nella letteratura autobiografica e testimoniale del secondo dopoguerra, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2016

Berto, come abbiamo già visto, non è mai stato una figura accomodante per il suo tempo; un po’ per sua natura, un po’ per scelta. Poco allineato, del tutto estraneo all’egemonia culturale del Partito Comunista, emarginato rispetto al mondo dei cosiddetti «salotti romani», nei quali egli provava a infiltrarsi. Le sue conoscenze, però, erano molte, poiché ormai la sua attività non era solo letteraria.
[…] La divisione più netta, in questo caso, è segnata dall’appartenenza a un ceto intellettuale organico al Partito comunista italiano, al quale si contrapponevano tutti quelli che, per motivi diversi, non vi aderivano. Berto rientrava tra questi ultimi, ed era un caso esemplare: pur essendo uno scrittore noto, rimane comunque privo di quel capitale simbolico e culturale necessario a rientrare nel campo del potere di quella cerchia di persone. Lo rende poi ambiguo l’aver pubblicato sia per Longanesi sia per Einaudi, due case con una concezione opposta del lavoro editoriale, e con entrambe non aveva avuto buoni rapporti: sia con Leo Longanesi sia Giulio Einaudi avevano apprezzato il suo lavoro, ma da parte loro non c’era stato un totale appoggio all’autore.
In seguito all’insuccesso del “Brigante”, che fu però lodato ed ebbe buone vendite in America e in Unione Sovietica, a Berto occorreranno altri quattro anni prima di pubblicare un nuovo romanzo. Nel mentre, continuò a lavorare per il cinema, mestiere che portava avanti per motivi essenzialmente economici; anche perché, pure in quell’ambiente egli era visto con sospetto: non veniva considerato uno del mestiere.
Marco Renzi, Giuseppe Berto: dal Cielo è rosso a La Gloria, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2017/2018

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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