György Lukács è certamente il più famoso critico di stampo marxista del Novecento, e i suoi Studi sul “Faust” uno degli esempi più celebri di critica marxista in letteratura. La loro comprensione è fondamentale per questo studio, in cui ne ricostruiremo le argomentazioni tentando di sottolinearne anche alcuni aspetti critici. Il punto di partenza per il suo ragionamento è l’idea che il Faust possa essere universalizzato e la sua vicenda rappresentare «il cammino e la sorte di tutto il genere umano». <170 Una tesi sostenuta tramite un esaustivo elenco delle questioni affrontate dalla tragedia: “Come sorgono e si sviluppano nell’individuo le forze della specie, quali ostacoli devono superare e quali vicissitudini subiscono; come influiscono sull’individuo il mondo naturale e storico-sociale dato, che è al tempo stesso una realtà da lui indipendente e il prodotto o – ne caso della natura – l’oggetto dell’attività con cui l’individuo crea sé stesso; qual è il punto di partenza e di arrivo del suo cammino: tutto ciò è il tema del Faust”. <171
L’accento è subito posto sul rapporto tra storia e individuo, come da norma nell’approccio critico del materialismo storico. Ma l’universalizzazione per Lukács ha un valore più verticale che orizzontale: Faust non rappresenta tutti gli uomini sulla Terra insieme a lui, piuttosto la sua vicenda è un riassunto della loro storia. Contiene quindi il passato, il presente e anticipa il futuro. In uno dei paralleli più celebri del suo saggio, Lukács definisce il Faust la versione in poesia della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, a sua volta versione filosofica del Faust. Lo stesso percorso tracciato da Hegel, che riassumeva le vicende umane nel movimento dialettico di affermazione-negazione-sintesi, è seguito anche da Goethe. Per Lukács l’affermazione è il primo Faust, colui che di fronte a Mefistofele rivendica le qualità dell’essere umano; la negazione è la continua sequenza di tragedie che deve affrontare (e che impartisce a chi gli orbita attorno); la sintesi è la redenzione finale a opera del Coro angelico.
Anche se alla fine del percorso umano, quindi, la salvezza deve necessariamente arrivare; una risoluzione positiva che Faust non poté vedere in vita ma che inserisce, simbolicamente, nel finale della sua vicenda. Dunque, «Goethe e Hegel vedono proprio qui il problema del genere e dell’individuo. Il cammino del genere non è tragico ma passa attraverso infinite tragedie individuali, oggettivamente necessarie. […] Per Goethe e Hegel, dunque, l’inarrestabile progresso del genere umano nasce da una catena di tragedie individuali». <172
Per Lukács, le tragedie individuali di cui si macchia Faust – la morte di Margherita, sua madre, suo fratello, Filemone e Bauci, e altre ancora – sono in realtà intermedie, passi non falsi ma necessari per il progresso della specie. Questo è sicuramente uno degli aspetti più spinosi della sua visione del testo. Da un lato, per la problematica morale di giustificare simili azioni in nome di qualcosa che non è neppure certo esista o possa esistere. Dall’altro poiché presuppone che Faust, nella sua ultima visione prima che Mefistofele gli tolga la vita, si stia prefigurando un futuro protosocialista, o comunque dove il capitalismo è stato superato. Una prospettiva poco verosimile, soprattutto nel momento in cui è stato lo spirito capitalista prima, e il capitalismo reale poi, a portare Faust nella posizione, di potere e prestigio, di fine tragedia. Cesare Cases, il più eminente studioso italiano di Lukács, individua proprio in questo nodo concettuale il limite ella sua interpretazione del testo. Egli attribuisce questa potenziale fallacia al contesto culturale e politico della Terza Internazionale. La teoria marxista del periodo, infatti, prevedeva che il capitalismo fosse una tappa necessaria e inevitabile sulla strada per il socialismo, e che quindi ci sarebbe dovuta essere una continuità naturale tra la borghesia e il proletariato al potere. Che ci fosse un capitalismo “buono”, da cui trarre gli strumenti per liberare il proletariato, e uno “cattivo”, da rovesciare. <173 Le tragedie individuali diventano necessarie perché necessario è l’attraversamento del capitalismo, come credeva Lukács e tanta parte del pensiero novecentesco e contemporaneo. <174
Per avvalorare ulteriormente la sua tesi, Lukács stabilisce delle equivalenze tra i momenti della tragedia e le fasi della storia umana. Tutta la Prima Parte e l’inizio della Seconda sono ovviamente ambientate nel feudalesimo, sia come cultura che come sistema economico. Bisogna notare come la maggior parte della sua analisi si concentri sulla Seconda Parte, fatto raro all’interno della critica faustiana, che nella maggior parte dei casi dedica maggiore attenzione alla Prima. Gli equilibri sono opposti per quanto riguarda la critica marxista applicata al Faust, poiché la Seconda, ambientata nel “grande mondo”, ha molto più a che fare con la storia e l’economia. Riferendosi agli atti II e III, quelli ambientati nel mondo classico, Lukács chiosa che «il contenuto delle scene di Elena è la nascita del mondo nuovo, specificamente moderno, attraverso l’appropriazione del mondo classico da parte dell’umanità liberata dal Medioevo». <175 Per lui, il mondo moderno nasce attraverso un’appropriazione profonda del mondo classico da parte di uno che ha già imboccato la strada diretta per il capitalismo. Non si può fare a meno di ricordare che Lukács pubblica gli “Studi” nel 1940, in una società terribilmente moderna che si faceva vanto di aver rivitalizzato il mondo classico, greco-romano nel caso del fascismo, celtico in quello del nazismo. Mentre gli Atti II e III vedono il capitalismo nascere nella ricchezza e nelle conquiste del feudalesimo, illustrando la fusione tra questo mondo e quello classico, quelli successivi completano la transizione: «Nel quarto atto, dal grembo del feudalesimo – e, con profonda verità storica, come un intermundium generato dal privilegio feudale stesso – sorge il suo becchino, il capitalismo». <176 Lukács, stranamente, pur dando largo spazio a questi ultimi due, sceglie di ignorare il primo e l’inizio del secondo. Il primo atto, occupato quasi interamente dalla Mascherata al Palazzo Imperiale (la Mummenschatz), cui segue l’invenzione fraudolenta della carta moneta da parte di Faust e Mefistofele, è quello dove l’elemento allegorico è talmente preminente da risultare quasi insostenibile da un punto di vista narrativo. Cases imputa a questa abbondanza la scelta di Lukács, sottolineando un altro limite della sua interpretazione: la rilevanza data all’elemento sensibile, “realistico”, sopra quello allegorico, che fa però da padrone alla Seconda Parte. Per Cases è proprio «in questa fantasmagoria che si celebra il trionfo del denaro, l’eliminazione di ogni elemento naturale e la sua sostituzione con prodotti artificiali». <177 Un momento quindi imprescindibile che però Lukács accantona perché troppo allegorico, quasi oscuro, scegliendo di rivolgersi al più realistico Atto Quarto, seppur meno poetico e, forse, artisticamente riuscito.
Arriviamo così al fulcro della questione: chi, cosa e come rappresenta il capitalismo nel Faust di Goethe? La dinamica che Lukács individua tra i due personaggi è quella della borghesia in via di sviluppo e affermazione, rappresentata da Faust, e l’ausilio del capitalismo e dei nuovi mezzi di produzione creati dal progresso tecnologico, rappresentati da Mefistofele e la sua magia infernale. E in questo contesto, coglie un altro elemento fondamentale: l’ansia di vivere.
Infatti, «la pratica capitalistica è il compimento dell’ansia di vivere di Faust ma anche, e in modo indissolubile, un nuovo campo d’azione estremamente fecondo per Mefistofele». <178 Abbiamo già notato quanto l’individuo moderno sia non solo bisognoso, ma addirittura profondamente ansioso di dover agire, di non poter rinunciare all’esercizio del proprio desiderio. La dinamica tra borghesia e capitalismo che Lukács descrive non è quella dell’occasione che fa l’uomo ladro, al contrario, è quella di un uomo che spinto dall’ansia, da un bisogno sfrenato, crea i mezzi per soddisfarlo sfruttando le occasioni che trova. In questo caso l’aiuto infernale del diavolo, nel caso dell’Ottocento l’invenzione delle macchine necessarie all’industrializzazione.
L’aiuto del diavolo si manifesta quasi sempre in maniera estremamente concreta: «L’azione magica di Mefistofele, in particolar modo nella prima parte, è in sostanza il prolungamento magico del raggio d’azione dell’uomo per opera del denaro analizzato da Marx». <179 Viene qui ripreso il commento marxiano della sezione precedente, a dimostrazione che questa scuola interpretativa abbia al suo interno uno sviluppo lineare. Nella Prima Parte, l’aiuto di Mefistofele si traduce in denaro, gioielli, sonniferi: tutti oggetti terreni, che Faust si sarebbe potuto procurare da sé ne avesse avuto la disponibilità o i mezzi. Nella Seconda, invece, diventa espressamente e interamente “magico”: a Faust vengono fornite illusioni, la via d’accesso al regno delle Madri, poteri sconfinati di evocazione e l’aiuto di eserciti spettrali. Tutte concessioni che servono soltanto a ingigantire sempre di più i bisogni e i desideri che soddisfano; in sostanza, tutti beni che verranno investiti al fine di ottenere capitali ancora più grandi.
Denaro e gioielli bastano a concupire una ragazza del popolo, ma per ottenere l’amore di Elena di Troia o conquistare un feudo, Faust ha bisogno che vengano impiegate tutte le forze magiche del capitalismo mefistofelico. Lukács chiosa, «proprio la prassi sarebbe oggettivamente impossibile senza l’aiuto determinante di Mefistofele: lo sviluppo delle forze produttive non è possibile nella società borghese senza il capitalismo. Per questo è vano il tentativo di Faust di staccarsi dalla magia. Per questo il suo sogno del luminoso avvenire dell’umanità è soltanto un sogno». <180 Il percorso di Faust è una caduta sempre più profonda nel vortice del capitale. Più gli viene dato e di più ha bisogno, quindi più chiede. E il momento in cui il borghese Faust ha ricevuto abbastanza e può finalmente emanciparsi dall’aiuto capitalista, restituendo – o addirittura redistribuendo – quanto ricevuto sembra non arrivare mai. Anche nel finale, quando
ha ormai ottenuto tutto e Mefistofele sembra essere stato relegato in un angolo, sono comunque i suoi tirapiedi a compiere le azioni fondamentali – e più turpi – per completare l’opera faustiana. Faust non può liberarsi di Mefistofele, esattamente come il borghese del capitalismo.
Per concludere, torniamo alla questione del finale e del percorso – tragico o meno – dell’uomo. Lukács torna a ribadire l’indissolubile dialettica tra tragedia e redenzione, necessaria per giungere a una sintesi completa: «Dalla lotta tra il bene e il male scaturisce un cammino progressivo; anche il male può portare al progresso oggettivo. […] Nel male possono nascondersi i germi del bene, ma anche nel sentimento più elevato vi è qualcosa di satanico, o che può diventarlo». <181 Ogni tesi contiene la propria antitesi, e viceversa. Come i sentimenti emancipatori della prima borghesia hanno scoperto il fianco agli orrori del capitale, allo stesso modo il capitalismo ha in sé i semi del proprio superamento. Gli stessi mezzi di produzione che lo hanno portato ad affermarsi potrebbero condurlo alla dissoluzione, una volta raggiunto un livello di sviluppo tecnologico sufficiente. È proprio l’interesse di Goethe, ormai anziano, nei
confronti di questo sviluppo a emergere nell’ultimo atto della sua opera, con Faust che innalza dighe e piega il corso della natura ai suoi scopi e interessi. Una fiducia nel progresso tecnico che, tuttavia, evidenzia anche gli aspetti più conservatori di questo autore, prontamente criticati da Lukács. Goethe, infatti, si scaglia più e più volte contro i moti rivoluzionari – pur approvandone spesso i contenuti <182 – convinto che, grazie allo sviluppo della tecnologia, l’emancipazione dei popoli verrà da sé: “Goethe osserva con freddezza e ironia le vaghe illusioni delle guerre di liberazione, ma più tardi osserva che le buone strade e le ferrovie creeranno necessariamente l’unità della Germania; si appassiona a ogni nuova conquista tecnico-economica del capitalismo […]. Da questa visione sorge in Goethe l’illusione che lo sviluppo grandioso e non ostacolato delle forze produttive renda superflua la rivoluzione politica. Qui si manifesta uno dei limiti e delle unilateralità maggiori della sua concezione del mondo, […] nella sopravvalutazione dell’evoluzione e nell’opposizione a ogni “teoria catastrofica” “. <183
Alla luce degli incubi del capitalismo digitale e automatizzato odierno, Lukács aveva ragione nel ritenere che Faust “sopravvalutasse” il progresso tecnico; ma d’altronde, forse lo stesso discorso potrebbe valere per la sua convinzione – e speranza – che il capitalismo avesse in sé tutti gli strumenti per essere superato. Un discorso, quello del superamento, che Lukács non applica alla tragedia goethiana, che pur rappresentando la storia del capitalismo dalla sua nascita fino alla sua più decisa affermazione, non poteva ancora prevedere i modi e le forme per oltrepassarlo. Infatti, parlando del finale dell’opera, ossia della salvazione di Faust da parte di Margherita, Lukács dice che «si tratta di un modo poetico di esprimere sinteticamente la sua giusta convinzione che nella realtà storico-sociale a lui nota la perfezione umana è impossibile, sia per il tipo d’uomo incarnato da Faust che per quello incarnato da Margherita, e di esprimere al tempo stesso la sua fede incrollabile che l’avvenire dell’umanità risolverà il dilemma, anche se in un modo a lui ignoto». <184 A Faust, nella sua ultima visione, non appare né il socialismo, né l’iper-capitalismo, come volevano i maggiori avversori dell’interpretazione “ottimista” della tragedia, ma qualcosa di ignoto a noi, all’autore, e soprattutto a lui stesso. Qualcosa di non rappresentabile, che lo lascia smarrito ma con una certezza: che prima o poi, fosse anche dopo la sua morte, il momento in cui si sarebbe potuto dichiarare soddisfatto sarebbe finalmente arrivato.
Faust è la storia economica del genere umano fino a dove Goethe poteva vederla, immaginarla e rappresentarla; termina con un capitalismo pienamente affermato, che si spinge ben oltre gli anni di vita del suo autore, ma a un certo punto deve necessariamente fermarsi. Nonostante la sua incrollabile fiducia, condivisa – seppure solo in parte – anche da Lukács, dopotutto Goethe non poteva sapere cosa sarebbe successo. Fino a dove sarebbe arrivato il capitalismo e, soprattutto, se mai sarebbe stato superato.
[NOTE]
170 G. Lukács, Studi sul “Faust”, Aesthetica, Milano, 2013 (1940), p. 33.
171 Ivi, pp. 35-6.
172 Ivi, pp. 39-40.
173 Cesare Cases, Su Lukács. Vicende di un’interpretazione, Einaudi, Torino, 1985, p. 138.
174 Il riferimento è alle teorie contemporanee dell’Accelerazionismo, sviluppate a partire dagli anni ‘90 in seno all’Università di Warwick. Tale teoria, nella sua variante di sinistra, prevede che sia necessario accelerare il (de)corso del capitalismo affinché possano essere sviluppate tutte le sue potenzialità tecnologiche, necessarie a liberare il proletariato (e più in generale i cittadini) grazie alla piena automazione. Cfr. #Accelerate. The Accelerationist Reader, a cura di Robin Mackay, Armen Avanessian, Urbanomic, Falmouth, 2014; Alex Williams, Nick Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza, Bari, 2018; Alex Williams, Nick Srnicek, Inventare il futuro, NERO, Roma, 2018.
175 G. Lukács, op. cit., p. 48.
176 Ivi, p. 44.
177 Cesare Cases, Laboratorio Faust, Roberto Venuti, Michele Sisto (a cura di), Quodlibet, Macerata, 2019, p. 135.
178 G. Lukács, op. cit., p. 55.
179 Ivi, p. 62.
180 Ivi, p. 81.
181 Ivi, pp. 60-1.
182 Ivi, p. 52.
183 Ivi, pp. 54-5.
Luca Tognocchi, Storia faustiana del Novecento italiano, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2024