Franco Loi, dell’inconscio e della luce

Nato a Genova nel 1930, Franco Loi vive a Milano. È uno fra i più apprezzati poeti viventi la cui opera ha ispirato e ispira molte nuove generazioni di scrittori. Numerosi sono i premi e le onorificenze, fra cui la medaglia d’oro della provincia di Milano e il Sigillo longobardo della Regione Lombardia. La sua poesia fa uso di un dialetto milanese contaminato da diversi apporti, sia popolari che colti, una scelta nata per contrapporsi al crescente nazionalismo sciovinista del periodo fascista e per esplorare la vitalità della lingua.
Sono stato presentato a Loi da una collega di Amsterdam, che ha tradotto le sue poesie in olandese. Loi mi ha accolto nel suo appartamento con modi affabili e affettuosi. È afflitto da una malattia agli occhi, cosa che ha dato alla conversazione un tono particolare. Parla in modo ispirato, segue con lo sguardo le immagini che le parole evocano. Di fronte a me appare una sorta di Omero che racconta degli eroi del dopoguerra e di una Milano sulla cui scena si rappresentano valori umani universali. A differenza di altre interviste, dove era naturale la forma del “tu” data la vicinanza d’età e di esperienze, qui il colloquio è guidato dal “Lei” di cortesia. Formula che sarà abbandonata per proposta di Loi nel momento del congedo, quando mi regalerà il suo romanzo “Diario minimo dei giorni”, a cui pone una dedica: “A Claudio, nuovo caro amico, che spero di incontrare ancora. Franco Loi”.
Nell’intervista il flusso della conversazione facilmente tendeva a dispersi. Vuoi per lo stile ispirato di Loi, vuoi anche l’età, ma soprattutto per l’adorabile calda e umana intimità che è in grado di stabilire con l’interlocutore. Le immagini scorrono e passano di colpo da aneddoti personali a vertigini spirituali, aprendo parentesi di memoria o di riflessione. Finestre di pensieri che si snodano veloci, per ritrovarsi compiutamente tramite la prosodia dell’eloquio, ma che appaiono nella trascrizione come frammenti da ricollocare fra loro nello scritto. L’interrogato diventa sovente l’interrogatore. Fin dalla prime battute. “Dove è nato?”, è una della prime cose che mi chiede, con la curiosità di collocarmi in un dialetto (che non parlo), e una lingua, e il desiderio di stabilire una prossimità domestica. Per queste e molte altre parti ho dovuto far forzosamente opera di rimozione.
Così come ho dovuto ricostruire alcuni passaggi che si trovavano distanti ma facevano parte dello stesso contenuto, interrotto dalle divagazioni.
Il testo che presento di seguito è dunque una selezione, una versione molto lavorata, che tralascia tanti brani e ricompone alcuni pensieri.
Nella prima parte lo sguardo è autobiografico e ci mostra l’ingresso quasi prodigioso nella lettura, affiancato da una delicata immagine del padre, in cui emerge il precoce fascino del segno. Seguono poi vicende lavorative che poco ci dicono sulla vocazione alla poesia ma molto sul personaggio, che sa “cosa vuol dire la fatica della gente” – come dirà lui stesso di altre figure, fra cui Arnoldo Mondadori. La scelta per la parola poetica appare nel racconto di un episodio dal sapore del mito, che si caratterizza per la figura di un mentore; non viene nominato, ma è l’amico poeta e scrittore Giulio Trasanna, scomparso nel 1962, a cui Loi si sente molto legato. Una passione per la scrittura che diventa chiara intorno ai diciotto anni e che si evolve in maniera autodidattica alimentandosi di letture, amicizie, dedizione.
La scelta del dialetto milanese è una scelta di libertà. Lingua più ariosa, quasi sperimentale, lingua del popolo, certamente meno angusta dell’italiano della retorica fascista. Appare chiara la seduzione del suono, che si collega a piaceri infantili.
La poesia trova per Loi radice nell’inconscio. Cosa che rende ambiguo il suo rapporto con la conoscenza. La poesia apre a uno stato di consapevolezza che non è quella della logica. È intuizione legata a un rapporto “amoroso con l’esperienza”. Consapevolezza che travalica la coscienza. I ragionamenti di Loi sono evocativi per cercare di spiegare cose “che la mente non può dire”. Sono chiamati in causa Dante, il Nuovo e l’Antico Testamento, Kant. La relazione fra suono e parola sta dentro questo enigma epistemologico. Una visione spirituale che resta però dentro la percezione, l’esperienza. La poesia è per Loi un minuzioso ascolto dell’esperienza, un prendere nota di ciò che vi accade.
Conclude l’intervista una domanda sul ruolo civile della poesia. La risposta è affidata a una poesia.
L’intervista a Franco Loi
C.M. – Caro Franco Loi, grazie dell’ospitalità. Il punto di partenza della nostra conversazione è quello della vocazione poetica. Com’è nata la vocazione per la poesia?
F.L. – Non sono uno di quelli che da bambino scriveva poesie. Ma a quattro anni, però, ho imparato a leggere da solo. Mio padre mi teneva sulle ginocchia. Lui aveva un libro di scienze naturali dove mostrava tutti gli animali; che so io, l’orso, il pinguino, oppure il leone oppure il leopardo, ecc. Lui mi teneva sulle sue ginocchia la sera quando veniva a casa dal lavoro. C’è stato un periodo in cui è stato disoccupato e stava lì magari tutto il giorno. Mi leggeva il nome dell’animale sotto l’illustrazione e io stavo attento. Allora ho imparato, vedevo che lui diceva “O” ed era sempre come uno zero e poi questa “R” che io non so dirla perché mia madre essendo parmigiana diceva la “R” alla francese ed io non riuscivo. La capivo “V”. Così a quattro anni ho imparato a leggere. Un giorno mia madre dice a mio padre: “Sai che tuo figlio sa già leggere?”. Dice lui: “Glielo hai insegnato tu?”, “No! Io credevo glielo avessi insegnato tu!”, “No! Io non gli ho insegnato niente”. Allora mio padre mi ha chiesto: “Beh cosa c’è scritto la?”. Al di là della strada c’era scritto in grande “farmacia”. E io ho detto: “Favmacia”. “Oh ma cavolo” mi ha preso in braccio e poi mi ha portato avanti ancora dieci passi, eravamo in piazza Terralba. E mio padre: “E là, cosa c’è scritto?”, io ho guardato: “Piazza Tevvalba”, e lui dice: “Ma guarda ma come hai fatto a imparare?”, “Non lo so! non lo so” gli ho detto. Io ho cambiato undici case nei primi nove anni della mia vita. Dove andavo dovevo cambiare amici, scuola, tutto quanto. Quindi ero attento a tutto, a ogni cosa.
C.M. – Questo per via del lavoro di Suo padre?
F.L. – Anche per il lavoro di mio padre, ma anche perché all’inizio mio padre era presidente di una cooperativa; mio padre era una persona straordinaria. Ha fatto il marinaio, ha fatto il pugile, ha fatto tanto cose e poi alla fine era diventato procuratore di una cooperativa che lavorava negli scali merci della ferrovia. Quando il fascismo ha chiuso le cooperative mio padre rimase disoccupato. Fino a quando è stato assunto a fare lo stesso lavoro a Genova, alla scalo merci, vicino al porto, si chiama “caricamento”. In quel periodo, mio padre e mia madre andarono in una fiera pubblica, in un mercato, e comprarono dei libri da leggere, libri per bambini. I due libri erano di Yambo, scrittore per ragazzi. Queste letture hanno sviluppato in me l’amore per il teatro! Perché mi sembrava che le cose che raccontava Arlecchino facessero parte del teatro. Mi portavano anche a Genova a vedere i burattini, il teatro era una cosa che mi appassionava molto. Leggevo per esempio Dumas, I tre moschettieri, poi facevo una riduzione teatrale che rappresentavamo nei cortili. Le bambine ci facevano i costumi di carta. Qualcuno sbagliava, non si ricordava più di rubare i gioielli alla regina. La gente rideva, si divertiva da morire. Poi ho cominciato a scrivere racconti, tentativi di romanzo. Un romanzo breve che ho scritto tra i 18 e i 21 anni, è uscito adesso. Non ho mai chiesto di pubblicare. Sono stato fortunato, perché ho vissuto in un periodo in cui a dirigere le case editrici, a fare i poeti e gli scrittori, c’erano uomini che avevano anche patito la vita e che quindi amavano aiutare i giovani: Vittorini, Sereni, lo stesso Arnoldo Mondadori che faceva il tipografo prima di diventare editore, sapeva cosa vuol dire la fatica della gente. Era straordinario Arnoldo. Quando avevo trentacinque anni – ero già sposato – mi è capitato tra le mani il Belli e ho detto: “Ma guarda questo, quante parole straordinarie ci sono dentro in questo romanesco. Perché io non posso scrivere in milanese?”. C’è una libertà che non c’è nella poesia italiana. Allora mi sono messo a scrivere. Conoscevo il milanese perché ho ascoltato tanto la gente, però non avevo studiato la lingua milanese. Lo usavo fin da bambino, lo usavo in strada, non in casa. Mi son detto: “provo anche io a scrivere in milanese perché mi da una libertà più grande”.
Tanto più, che io ho ascoltato un milanese che non è quello del Tessa o del Porta. Nelle lingue popolari la parola, a seconda del tono, ha un significato e poi ne assume un altro, magari contrario. Ha ragione Leopardi che dice: “Un poeta dovrebbe ascoltare il popolo quando parla, perché il popolo è più vicino alla natura”. La gente inventava la lingua. Non è che conoscessero la grammatica milanese, la letteratura milanese, loro semplicemente inventavano la lingua a seconda dei suoni. Mi ha dato una grande libertà ascoltare la gente, perché la gente aveva una lingua che teneva sempre conto del suono della parola e questo è fondamentale in poesia. La gente non se ne rende conto, a scuola questo non lo insegnano per niente. Quando eravamo bambini facevamo un gioco particolare: ci mettevamo in cerchio, a turno si sceglieva una parola. Per esempio: stufa, pane, sedia, luna… una parola qualsiasi. Tutti insieme si ripeteva ad alta voce quella parola, fino a quando ad uno nel gruppo non gli veniva in mente di dire: “Ma sai che non sento più che significato ha? Sento solo pane come pn, luna come ln.” Allora toccava a lui scegliere una parola. Questo gioco – noi non ce ne rendevamo conto – ci faceva capire che le parole sono suoni e che unendo i suoni si fa un verso.
C.M. – Come è proseguita la Sua formazione?
F.L. – Io ho fatto ragioneria, perché allora, alle serali, c’era solo quello. Siccome sono dovuto andare a lavorare con mio padre – che dopo tanto insistere di mia madre mi ha assunto, perché non era d’accordo ad assumere un parente. E invece poi alla fine lei ha insisto tanto e lui ha ceduto. Mi hanno però assunto come “manovale” allo scalo merci. Poi mi hanno passato a raccoglitore di lettere di vettura. Io raccoglievo e mettevo in una cassetta di fronte al vagone e le portavo all’istradatore, quello che le manda nelle direzioni assegnate. Poi mi hanno passato scritturale, cioè copiavo la lettera di vettura fatta dall’istradatore, in una lettera d’accompagnamento nuova.
C.M. – La gavetta proprio.
F.L. – Sì. Poi quando sono diventato ragionerie, mi hanno passato contabile. Purtroppo per me è stato un dispiacere, perché mi hanno tolto dallo scalo merci e mi hanno portato in stazione centrale.
C.M. – Stava meglio nello scalo merci?
F.L. – Sì, perché ero a contatto con gente che aveva fatto esperienze straordinarie. C’erano fascisti che non li assumevano più in nessun posto. Onesti. Negli appalti ferroviari li prendevano. Pensi che io a dieci anni, quando era scoppiata la guerra, avevo fondato la società antifascista, fra i bambini! La storia è sempre diversa da come te la raccontano.
C.M. – Chi altro ha alimentato la sua passione per la scrittura?
F.l. – Ho avuto la fortuna di avere un amico che era uno scrittore, Giulio Trasanna. Era un uomo di grande cultura, era conosciuto da tutti, scrittori e filosofi. Mi ha insegnato tante cose. Un giorno – eravamo ai giardini pubblici di Porta Venezia con un gruppo di ragazzi che erano miei amici – ci ha parlato per un certo momento, poi si è alzato in piedi e siamo andati sopra un ponticello e ha detto “vedete questo?”. Ha tirato fuori una cartamoneta di cinquemila lire. Era talmente povero che veniva spesso a mangiare a casa mia o dei miei amici. Ha detto: “Vedete questi cinque?” – e li ha strappati e buttati via – “Ricordatevi una cosa. Non bisogna mai essere attaccati al denaro. Il denaro non è niente, la nostra vita è fatta di altro. Non corretegli dietro. Se no, non fate che fare le cose tremende che fanno tutti – per il denaro ucciderebbero la madre, la moglie.” I suoi insegnamenti riguardavano anche lo scrivere. Un giorno mi ha detto “Prova a scrivermi una pagina su una cosa molto semplice, la tua stufa in casa.” Io ho scritto due o tre cose, ma non riuscivo a parlare – allora ero un ragazzino, avevo diciotto anni – e mi ha detto: “Non si scrive così. Si scrive quando a te viene e non quando te lo dico io, “Quando a scuola viene detto il modo in cui si scrive e tutte queste cose, ricordatevi che non conta niente. Lo troverete voi, scrivendo, il modo di scrivere”.
C.M. – Allora, cosa ha iniziato a scrivere?
F.L. – Stavo a casa da solo e giravo per le stanze, recitando quello che da dentro venivo spinto a dire: l’emozione, i miei ricordi, la guerra. Camminavo e ad alta voce dicevo quello che mi veniva da dentro, fino a quando non ce la facevo più e dopo mezz’ora mi sedevo e allora scrivevo tutto quello che avevo nella mente. Questo mi ha fatto capire che la poesia è come il sogno. Non è che decidi adesso: mi metto lì e scrivo poesia. Non è che la sera vai a letto e dici: adesso oggi, stanotte sognerò questo e dopo lo sogni. No, non sogni un bel niente. Sogni quello che l’inconscio ti detta e questo perché esiste l’inconscio. Credo che sia così, come dice Jung: “c’è un punto dentro di noi, in cui a volte si può sentire una voce, si può ascoltare o vedere una luce”. Riflettendo su quello che mi succedeva quando scrivevo, dicevo: “Ma, è come un sogno!”. Io non so cosa scriverò. Quando poi lo rivedo dopo – quando potevo ancora vedere, perché io ora ho questa malattia agli occhi tremenda, la maculopatia cioè un emorragia che mi ha coperto l’occhio – pensavo che fosse proprio come un sogno. Dentro qualcosa mi dice, ha ragione Jung: c’è un punto dove noi possiamo avere le visioni o le dizioni. Perfino nella scienza, non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione. E l’intuizione non la facciamo noi! È possibile nel rapporto simpatetico, cioè amoroso, con l’esperienza. Questo accade in poesia, in musica, in pittura. Solo che in poesia è proprio il fondamento. Tant’è vero che tutti i poeti hanno scritto: “Quando rileggo le mie poesie dico: ma chi le ha scritte?”. Ed è vero! è una sensazione che ho provato anche io quando adesso mi leggono – perché io non riesco a leggere. Quando qualcuno legge le mie poesie dico: “Ma cosa?”. Non mi ricordo neanche di averle scritte e dico: “Bella questa cosa!”. È la nostra anima – o chiamiamolo inconscio. Anche Leopardi, straordinario, quando scrive alla sorella, da Firenze, scrive una lettera dove dice: “Dopo tanto cincischiare con le parole mi è ripreso finalmente l’allegrezza dello scrivere poesie”. Ora, se c’è uno che non parla di cose allegre è Leopardi, eppure lui dice: “L’allegrezza dello scrivere poesie!”. Ed è vero, quando si scrive e si lascia dire, sono momenti di gioia straordinaria.
C.M. – Anche quando si parla del dolore?
F.L. – Anche quando si parla del dolore! Per esempio, i rapporti con mia madre, quando ero bambino. Lei diceva: “Non ti ho mai voluto! Tu mi dai sempre da preoccuparmi e da fare!”. Tutto questo mi faceva male. Quando ne ho parlato, come dire, diventa un’altra cosa. Si prova gioia, si prova la gioia di essere finalmente dentro se stessi. Eugenio Tomiolo, mio caro amico e pittore un giorno mi ha detto: “Guarda un pò quel prato! di che colore è?” io ho guardato ho detto: “verde!”. E lui mi ha detto: “Ma no, ma cosa dici? Non l’hai guardato! Guardalo!”. Quando lui mi ha detto così, ho guardato bene. Erano le cinque di sera circa. Eravamo fuori Milano, in campagna. Ho detto: “ma sai che ha ragione! è un grigio che tende all’azzurro! grigio-blu diciamo!”. Allora mi ha detto: “Bravo, questa volta hai guardato!”. Anche il colore non è mai il colore. Anche le sette note. Così come non sono mai le regolette della poesia: il metro, la rima… Non è quello! È proprio la sonorità e la musicalità della parola che ti conduce! Quando si parla di poesia, tutti credono che basti far le rime e scrivere cose più o meno interessanti. No, non è così!
C.M. – È come se lei adesso mi dicesse, che lo stare presso se stessi è anche lo stare presso le cose. Con gioia.
F.L. – È vero. È proprio la stessa cosa! Ci si sente uno con il mondo.
C.M. – Ha qualcosa a che fare con l’incontro con la luce, di cui Lei ha parlato a proposito di Dante?
F.L. – L’incontro con la luce, proprio così! Lui ha visto la propria anima spirituale. La gloriosa donna, “Beatrice” cioè beatificante. Quella gioia di essere nella luce, perché noi siamo nella luce. Noi siamo avvolti dalla luce e non ce ne rendiamo conto. L’aureola è un simbolo, ma in realtà noi siamo tutti avvolti nella luce, solo che siamo presi troppo e diventiamo schiavi degli impulsi del corpo, e allora naturalmente, non possiamo vivere pienamente la luce in cui viviamo, in cui siamo avvolti. Io non credo nelle teologie, le teologie sono invenzioni umane che poi crollano. “Ama il prossimo tuo come te stesso”, lo diceva il Mencio, seicento anni prima di Cristo. Il Mencio, filosofo cinese incomincia un capitolo dicendo: “Ama il prossimo tuo come te stesso” e poi parla di questo, dell’amare il prossimo come te stesso. Finito questo discorso, che dura una pagina e mezzo, incomincia dicendo: “Ma come si fa ad amare il prossimo come se stesso, se non si conosce almeno un poco se stessi?”. Credo che questo sia fondamentale per l’uomo.
C.M. – Che cosa permette di conoscere, di se stessi, la poesia?
F.L. – La realtà, quando lo racconti normalmente, vai al nocciolo con una logica: nomini le cose. In poesia, invece, appare un’altra qualcosa. Anche quando rileggo Dante; l’ho letto tante volte nella mia vita. Ogni volta che lo rileggo imparo sempre qualcosa. Per esempio: nel Purgatorio, lui incontra il poeta, Stazio, se si sta attenti, si scopre che quando lui è arrivato quasi alla fine del Purgatorio, entra in quel canto dove un angelo gli dice che lui deve attraversare il fiume di fuoco. Dante ha paura. Virgilio allora gli dice: “Perché hai paura? Siamo stati all’inferno! Di cosa devi aver paura? Abbiamo visto di peggio! Questo fuoco poi non brucia. Perché non vuoi entrare?”. Quindi prende un lembo del vestito di Dante e lo mette vicino al fuoco e non brucia. Lui si vergogna, ma non entra. Virgilio dice: “Ma sai che, al di là di questo fuoco, c’è Beatrice che ti aspetta?! È inutile che tu abbia fatto tutto questo cammino, attraverso l’inferno e in gran parte del purgatorio e poi arrivi qui e hai paura di attraversare questo fuoco. Di là c’è Beatrice che ti aspetta”. Lui arrossisce, gli vien da piangere ma non passa. Allora Virgilio dice: “allora entro prima io e tu seguimi”. Il verso dice:
Poi dentro al foco innanzi mi si mise,
pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise
.
Nessuno fa caso a questa frase. Lui ha scritto con grande consapevolezza di quel che faceva. Virgilio rappresenta la sua mente cosciente. Dante è grande, con la poesia, prendeva consapevolezza di cose che la mente non può dirgli. Nel Vecchio Testamento, si dice: “Dio creo la luce”. E il primo atto di Dio, crea la luce. “E vide che era buona”. Secondo atto: “Separò le acque dalle acque”. Bisognerebbe conoscere l’ebraico. La traduzione è pessima. “Separò le acque dalle acque”. Le acque che rimasero in Dio e le acque, invece, atte ad aver rapporto con la materia. Quindi noi di Dio non possiamo dire niente, non possiamo proprio dire niente, perché non abbiamo mai esperienza di Dio, abbiamo esperienza della parte atta ad aver rapporto con la materia; una grande cosa, da tener presente. Io sono sempre più convinto che la poesia sia l’espressione del nostro inconscio. Occorre però anche tanto fare e tanto lavorare, attorno alla parola e allo scrivere. Bisogna lavorare tanto, perché tu abbia la libertà di scrivere. Non è così semplice. Bisogna scrivere più che si può, se c’è una passione, deve diventare una ragione di vita. E leggere! Leggere sempre! Kant disse una grande cosa. Disse “la cosa in sé è inconoscibile” ed è vero. Ma sarebbe più giusto, dire “La cosa in sé non è riducibile alla logica mentale”. È per questo che la via è aperta allo spirito. Perché è attraverso l’esperienza tu intuisci qualcosa, che non puoi chiarire con la mente. Ogni volta che noi esaminiamo la natura e le cose che sperimentiamo nella vita, ecco che noi non riusciamo a riportarle alla logica. Le abbiamo vissute, ma non riusciamo a comprenderle. Questo dipende da noi, mica dall’essenza delle cose. Se voglio andare a fondo, mi accorgo che persino un fiore… Perché scegliamo un fiore? Lo scegliamo, inconsciamente. Scegliamo anche una mela, un frutto. Così anche con una donna. Sì,
magari è bella, ti attrae la sua bellezza, ma non basta. Ad esempio, mia moglie. Quando l’ho conosciuta io l’ho amata e quell’amore lì non finisce mai. Perché le vuoi sempre bene, durante tutta la vita. Perché l’ho guardata negli occhi e mi sono innamorato di lei e non della sua esteriorità. Questo è importante. Quella parte che c’è dentro di lei e forse neanche lei lo sa. Come io non so di me stesso. Per quanto conosca. L’ho scritto in una poesia,
Sì, mì sù no chi sun, e quèl che sun
l’è no quèl che ve par, mia brava gent,
che quèl sun mì che l’aria me fa vèss
,
E per aria intendo proprio l’essenza dell’aria, che mi fa essere.
C.M. – La parola aria è molto presente nei Suoi testi, ricorda l’anima, il respiro, che è la materia del suono e che è anche l’immagine usata dai greci per la psiche, il pneuma vitale.
F.L. – Infatti, quando ho scritto: “che quèl sun mì che l’aria me fa vèss”, per aria intendo non l’idrogeno e ossigeno, sarebbe più giusto dire “ciò che l’atmosfera mi fa essere”.
C.M. – Però è giusto quel suono l’“aria”. Non solo la parola, ma il suono. Che forse in italiano non funzionerebbe, funziona meglio nel milanese.
F.L. – È vero, profondamente vero. Non tutti riescono a comprenderlo.
C.M. – C’è un’ultima questione che mi piacerebbe approfondire. Il ruolo civile della Sua poesia. Penso alla sua testimonianza di una Milano ormai perduta ma che celebra al tempo stesso valori universali. In molte Sue poesie vedo anche un atto politico, nel senso della polis; del testimoniare una comunità umana.
F.L. – Mi ricordo il periodo verso la fine della guerra, la gente si abbracciava per strada senza conoscersi, pensi. Sconosciuti. Mi ricordo che ho fatto a piedi fino al Castello e via Manzoni e corso Buenos Aires, e la gente “da dove te vegnet?” e rispondevo “Via Teodosio”, “Ah che bello!”. Era come succede quando vai in montagna, incontri una persona e la saluti. Milano era tutta una balera, ho scritto in una poesia.
Che dì, ragassi! In depertütt balera!
Baler in strada, baler den’ di curtil…
L’è la mania del ballo! Milan che balla!
Gh’è ‘n giögh de bocc, un prâ… Sü tri canìcc,
e, tràcheta, la sala bell’e prunta…

Oggi a Milano, se saluti qualcuno, ti guarda male. Invece allora era normale.
ma serum nüm, serum class uperara,
nüm serum i scampâ da fam e bumb,
nüm gent de strada, gent fada de morta,
nüm serum ‘me sbuttî dai fòpp del mund,
e, nun per crüdeltá, no per despresi,
mancansa de pietà, roja de nüm,
ma, cume ‘na passiun de sû s’ciuppada,
anca la nott nüm la vurevum sû…
Ciamila libertâ, ciamila sbornia,
ciamila ‘me vurì… Festa ai cujun!
…ma nüm, che l’èm patida propi tütta,
anca la libertâ se sèm gudü!

C.M. – Lei trasforma la vita in poesia!
F.L. – Pensi che questo è quello che dice Dante, quando gli domandano chi è. Nel Purgatorio Bonagiunta Orbicciani gli chiede “ma tu non sei quello che girava per le strade di Firenze, cantando le sue canzoni. “ e lui rispose:
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».

I’ mi son un – io sono uno a me stesso – che, quando Amor mi spira – cioè mi alita, mi muove – noto – cioè ascolto e prendo nota (tra due virgole, voleva che si prestasse attenzione a quel noto), e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando – io lo riempio di segni, perché il significato viene fuori dai segni, che sono segni di lingua e di cultura, ma sono segni. È ascoltando la musicalità intera e i significati interiori di un poesia, tu impari qualcosa.
C.M. – E Lei questa dimensione comunitaria la celebra nelle Sue poesia?
F.L. – Sì, questo per me è fondamentale. La società nasce così: Cristo quando comanda agli apostoli dice “Io vi do’ solo due comandamenti: Ama il signore Dio tuo – quello che trovi dentro di te – e Ama il prossimo tuo come te stesso”. Questi sono i fondamenti della società. Se no, la società non sta in piedi. Ti dico un’altra cosa: io quando mangio la pasta a mezzogiorno, so’ che l’ha fatta qualcun altro. Non è mia. Non sono capace neanche di cuocerla. Ma io uso le cose, e la società sta insieme perché ci sono altre persone che sanno fare quel lavoro e ti danno quello che ti occorre per vivere.
Claudio Mustacchi, Il luogo della poesia. Indagine fenomenologica sulla poesia nell’educazione in età adulta, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Anno accademico 2015-2015

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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