Fuimus Troes, noi Ventimigliesi…

Fuimus Troes, noi Ventimigliesi dispersi come i Troiani, cacciati dalla città romana, ora sepolta sotto la sabbia“.
Angelico Aprosio – frate agostiniano, erudito e bibliofilo del XVII secolo -, in riferimento al suo luogo natale nel Ponente Ligure e prendendo in prestito la precedente bella immagine poetica della classicità, offriva all’antiquario siciliano Giovanni Ventimiglia un suo abbozzo d’idea sulla storia di Ventimiglia romana.

Giovanni Ventimiglia dei conti di Gerace e di Isola Maggiore (erudito linguista di tradizione filosiciliana) aveva molteplici interessi, tra cui spiccavano quelli storico-antiquari. Si era infatti proposto, attraverso un lavoro indefesso, di dimostrare che la sua casata era strettamente legata al ramo siciliano dei dispersi Conti di Ventimiglia ma, quale dotto di indubbio valore, non voleva limitare il suo impegno ad un discorso encomiastico della propria famiglia. Aveva maturata l’ambizione di investigare sulla storia e sui monumenti di Ventimiglia romana, una città di cui molti avevano parlato (lo stesso grande storico Tacito), ma al cui riguardo non si erano ancora fatte scoperte di alcun rilievo.

Con arguzia tipicamente barocca, l’erudito frate intemelio aveva colto un principio di fondo: che al pari dei mitici Troiani gli abitanti di una distrutta Intemelio si fossero dispersi e che, in un tempo imprecisabile, avessero abbandonato al deserto i ruderi fumanti dell’incendiata città romana.
L’effetto epico della sua affermazione non si addice alla realtà degli antichi eventi, tuttavia era nell’intenzione del frate di provocare attenzione nuova su alcuni problemi della medievale città di Ventimiglia, che, a suo giudizio, come altre località quali Bordighera, Camporosso e Dolceacqua, era il risultato dell’insediamento di un “popolo romano” disperso in piccoli gruppi dalla devastazione della capitale, sita tra Nervia e Roia, e stanziatosi nei luoghi di volta in volta ritenuti più sicuri, privi di insediamenti, dove, sotto i nomi diversi dei borghi del Medioevo, avrebbero “rifondato” la loro città.
Il grosso nucleo urbano di Ventimiglia medievale sarebbe stato, a suo parere, il sito dove si trasferì in massa la maggior parte della gente della città romana di Nervia, ormai in pieno degrado sia per effetto della crisi generale dell’Impero di Roma dal IV secolo avanzato ma anche per i saccheggi di popoli barbari apportati, iniziando dagli Alamanni, alla città rivierasca.
Secondo Aprosio l’altura della futura città medievale (quasi certamente già sede di un grosso sobborgo imperiale) non sarebbe stato neppure l’unico centro demico evolutosi da tale dispersione.
Gruppi minori di popolazione si sarebbero recati in altri luoghi, della costa e preferibilmente dell’interno, a costruire altri minori nuclei residenziali meno esposti alle scorrerie e strategicamente più protetti dalla conformazione naturale del terreno.

L’Aprosio non aveva però interessi storici, ma solo curiosità e per tale ragione nel proseguire la sua lettera all’erudito siciliano demandò a quest’ultimo e al concittadino Girolamo Lanteri, ricercatore ufficiale per ‘Italia Sacra dell’Ughelli, l’arduo compito di studiosi ufficiali di Albintimilium: ” … Spero nondimeno di vederla risorta (Albintimilium) nelli suoi eruditissimi fogli, risorgendo novella Fenice a più bella vita, che non potè ricevere da suoi edificatori primieri; mentre non perdonando a spesa non lassa di far rivolgere sossopra gli Archivi per dissotterrare le più nascoste memorie. Anch’io una fiata mi ero invogliato di adornare cotesta Sparta: non lassando di sollecitare il nostro concittadino Domino Gieronimo Lanteri, il quale ha dato principio alla Topografia di essa… “.

L’erudito siciliano morì tuttavia poco dopo senza lasciare frutti delle sue ricerche e lo studio del Lanteri risultò fiacco e deludente.

Aprosio si sentì in obbligo di ritornare sull’argomento proprio perché il Lanteri, ignorando i suoi suggerimenti (probabilmente esplicitati in un’operetta andata purtroppo persa, “le Antichità di Ventimiglia”), sviluppò l’ipotesi di una identificazione di Ventimiglia medievale e secentesca con l’impianto urbano di quella città romana di cui molte fonti parlavano (il geografo greco Strabone, vedendola, la descrisse come una “grande città) e che, magari velata nelle viscere della terra od ormai ridotta a fondamenta di caseggiati medievali pur doveva esistere o quantomeno aver lasciata qualche traccia archeologica se non monumentale.
Aprosio in una sua memoria dice e fa intendere ma, con “onesta dissimulazione” non si sbilancia. Dimostra piuttosto di provare pudore e riverenza, non tanto per esser stato un visitatore clandestino d’un patrimonio archeologico ma per essersi lasciato andare, nei terreni della prebenda vescovile, ad indagini profane (indubbiamente sconvenienti ad un religioso che sarebbe poi stato Vicario dell’Inquisizione e che avrebbe dovuto segnalare per la sua stessa funzione ogni idolatria scoperta) ed averne al contrario, verisimilmente, riesumato per sè diversi reperti, quasi certamente più di quanti lascino trapelare le sue poche note.

Ed infatti come si potrebbe spiegare che un classicista del peso di Dano Bartolini – pubblicando nel 1645 a Padova, per il Crivellari, le sue Osservazioni nuove de Unicornu – avesse elogiato il frate intemelio sì come letterato (di belle speranze e pochi soldi: n.d.r.) ma non quale bibliofilo e piuttosto come antiquario e numismatico. Nel lontano 1645 da dove il realmente povero Aprosio avrebbe potuto portare con sé quelle monete e medaglie, se non da Ventimiglia, se non da quegli scavi che quasi certamente per primo, senza onerosi esborsi per tombaroli, guide o trafficanti, era stato in grado di visitare con un certo senso critico e soprattutto col suo spiccato amore per le antichità greche e romane?

Oltre queste postulazioni, invero coinvolgenti, occorre comunque ribadire che le ragioni di quel secentesco dibattito tra Aprosio e Lanteri risiedono fondamentalmente nella mentalità dei due studiosi, bibliofili e per natura estranei all’investigazione sui siti.

da Cultura Barocca

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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