Il caso Fausta Cialente

Magra, occhi azzurri, elegante signora che porta molto bene i suoi anni, Fausta Cialente ha 78 anni quando, nel 1976, vince il Premio Strega con Le quattro ragazze Wieselberger.
È il suo ultimo libro (nello stesso anno esce anche Interno con figure, ma è una raccolta di vecchi racconti) ed è quello dove la scrittrice riesce a ricomporre i fili esistenziali, storici, memoriali, emblematici, narrativi e linguistici che hanno percorso la sua vita e le sue opere.
Il racconto, dichiaratamente autobiografico, dipinge un’epoca (quasi un secolo di storia d’Italia) e dà vita a personaggi esemplari di certe caratteristiche degli italiani, che conservano però, e in certi casi recuperano, la dimensione di uomini e donne presenti nel quotidiano di Fausta.
La stessa autrice, tante volte rappresentata fragile, e incline talora a eccessi di autocommiserazione, si mostra e si confessa anche donna forte, astuta, consapevole dei privilegi che le hanno conferito cultura, tradizione familiare, classe di appartenenza, cioè dei privilegi di quella borghesia che tante volte ha criticato e di cui ha svelato ipocrisie, avidità, stupidità, ignoranza.
Triestina, nata nel 1898 a Cagliari per caso, a seguito dei continui spostamenti del padre, ufficiale di carriera, Fausta Cialente ha iniziato, ragazzina, a scrivere per passione, come per passione il fratello Renato (che morirà a 46 anni travolto da un automezzo tedesco) diverrà uno degli attori più importanti del tempo.
Nel 1921, Fausta sposa il compositore Enrico Terni con il quale si trasferisce ad Alessandria D’Egitto e poi al Cairo dove rimarrà fino al 1947: in quelle terre e in quegli anni trova la sua scrittura, che, sia pure con diverse modalità, sarà sempre scrittura di confine, scrittura nata dal “soggetto nomade” che, in vari sensi, fu la Cialente.
Originaria di una terra dalle tre culture (italiana, slovena, austriaca), Fausta ha viaggiato molto, sia con la famiglia di origine (in Italia), sia con il marito (in Egitto); sia infine da sola o con la figlia Lily e il genero John (Francia, Inghilterra, Quwait… ), ha avuto contatti con mondi politici, culturali, sociali molto diversi l’uno dall’altro, imparando a conoscere e apprezzare, a guardare, accogliere e rappresentare i destini di donne e uomini, diversi per cultura, per classe di appartenenza, per nazionalità (senza ombra di esotismo, neanche quando tratta culture di moda in quegli anni: la levantina, quella dei fellah, quella egiziana… ), con una capacità di riconoscere l’essenza comune dell’essere uomo e donna.
Il primo libro è Natalia (Roma, Sapienza, 1930), scritto nel 1927; nel 1929, su L’Italia Letteraria, è intanto uscito il racconto Marianna (che già presenta la nozione di ambiguità, di coesistenza inquietante tra ordine e libertà, regole e provocazione, sensualità e convenzione e già sceglie come protagonisti, e come avverrà per altri scritti successivi, bambini curiosi, irriverenti, provocatori), e nel 1936 (ma scritto nel 1931) pubblica Cortile a Cleopatra (Milano, Corticelli) e il racconto Pamela o la bella estate, in Occidente.
In Cortile a Cleopatra, che avrà successive edizioni (Sansoni, 1953; Feltrinelli, 1962) e che resta probabilmente il suo capolavoro (e susciterà un certo entusiasmo anche in Cecchi), ma anche nei bellissimi racconti Pamela o la bella estate, Marianna, Spiagge, Canzonetta, Le statue… (tutti pubblicati quasi sempre prima in rivista, poi nelle raccolte: Pamela o la bella estate, Feltrinelli 1962, Interno con figure, Ed. Riuniti 1976), Fausta Cialente lascia grande spazio alla libertà inventiva e immaginativa, al rapporto tra il mostrarsi e l’essere, alla percezione dell’esistenza tramite il corpo, la forma, la materia, sia di chi percepisce sia di ciò che viene percepito, con esiti straordinari, come nella rappresentazione di una natura viva, colorata, profumata, in movimento.
La dolcezza del ritmo narrativo, la sapienza nel gestire le storie sul doppio binario del presente e della memoria, le descrizioni degli scenari, la capacità di raccontare i sentimenti e la psicologia dei personaggi attraverso un gesto, un lieve movimento delle ciglia, mani che si sfiorano, un lessico ora fiabesco ora materico, dagli aggettivi precisi e morbidi, restituiscono una fisicità – che appartiene certo alla terra raccontata ma anche alla percezione del suo stesso corpo così presente e in prima linea – che affascina e incanta. Questi elementi sono anche il segno del suo originale e straordinario modo di scrivere “al femminile”, che non sta nella riflessione teorica o in precise tematiche o problematiche che Fausta Cialente a tratti affronta, ma nella capacità di porsi in modo assolutamente autentico – dunque nel suo caso femminile – di fronte alle sue emozioni e di riuscire a dare loro forma.
Dal 1936 al 1962, Fausta Cialente scrittrice tace. Vive in Egitto in maniera sofferta e indignata l’avanzare del nazismo e del fascismo, la guerra e il dopoguerra. Partecipa alla vita culturale e sociale della comunità italiana, nel 1943 è invitata a collaborare alla nota trasmissione radiofonica, Middle West, di propaganda antifascista e antinazista, e nel 1943 fonda e dirige il giornale antifascista per i prigionieri italiani Fronte Unito. Tornata in Italia, collabora a l’Unità, Rinascita, Italia nuova, Noi donne.
Questi anni, prima che ne Le quattro ragazze Wieselberger, Fausta li racconta, ancora ricorrendo a finzioni, in Ballata levantina (Milano, Feltrinelli, 1962), per il quale rimangono tutte le notazioni fatte per le opere precedenti.
In più, in questo romanzo, lo sguardo della scrittrice si apre sul fascismo, sulla guerra, sul mondo, e indaga il rapporto, strettamente intrecciato, e non solo nella sua individuale esperienza ma nei sovvertimenti di un secolo tragico e appassionato, tra la storia personale e la Storia.
Avviene però che il ritmo vitale, arioso, dove gli oggetti si animano, le figure, il tempo, la realtà e il sogno si confondono e si accavallano, o le pagine nette, pulite, a volte malinconiche, insomma la limpidezza e la libertà del narrare, vengano di tanto in tanto mortificati da inserti “impegnati”, da cadute di coscienza e di sincerità narrativa, da soluzioni poco credibili, dalla preoccupazione di sottolineare il proprio impegno politico, il proprio posizionamento.
L’impressione è che, con Ballata levantina che pure resta tra le cose più belle che la Cialente abbia scritto, abbia inizio una sorta di revisione delle funzioni e delle modalità narrative che si aggraverà nei successivi Un inverno freddissimo (Feltrinelli, 1966; poi sceneggiato televisivo col titolo di Camilla) e Il vento sulla sabbia (Mondadori, 1972), e anche nella riedizione dei racconti, alcuni dei quali risultano rivisti con inserti “impegnati” totalmente estranei.
E questo perché (ma andrà indagato a fondo) in qualche modo Fausta, nel mondo maschile e maschilista qual è quello intellettuale (di ieri e di oggi), finisce per accettare il canone tradizionale ancora non discusso (bisognerà aspettare gli anni ‘80 perché inizi la ricerca sulle scrittrici italiane e la rivalutazione degli scarti operati dalla loro scrittura: prima di allora si davano per inesistenti).
Accettando cioè lo sguardo maschile come giudice del suo stesso sguardo e della sua scrittura, Fausta finisce per fare propria la nozione di letteratura come risultato (da raggiungere faticosa mente) dell’incontro tra impegno politico e distacco emotivo (con catarsi finale), e per rinunciare alla libertà espressiva dando il primato al “contenuto”. Per esempio, colpisce in queste opere la durezza e il fondamentalismo ideologico nelle rappresentazioni di personaggi maschili (tutti segnati dall’esperienza col padre) che invece in precedenza possedevano una verità narrativa che, oltre tutto, riusciva a rappresentare l’aspetto profondo del maschilismo e non quello puramente funzionale alla denuncia.
È come se lei, che era più avanti, fosse stata resa incerta dalle riserve e anche dalle lodi di certa critica (maschile), compiendo un cammino inverso da quello che Virginia Woolf auspicava per le scrittrici: da libera si costringe alle regole, da accogliente diventa risentita, e il suo sguardo, da soggetto forte (come è quello delle prime opere) va verso l’irrigidimento ideologico o la neutralità.
Ma poi scrive Le quattro ragazze Wieselberger e qui recupera le componenti importanti della sua scrittura: lo “scrivere (di) sé”, del suo sguardo, del suo mondo, si salda all’impegno etico e civile e la puntigliosa intelligenza storica detta pagine (importanti “fonti” per la Storia d’Italia di quegli anni) riguardo a problematiche ancora irrisolte sul piano della analisi storiografica (l’irredentismo, la guerra, le cause del fascismo, la funzione della borghesia, la posizione ambigua dell’Inghilterra… ), o a questioni ancora aperte (la condizione delle donne, il rapporto tra culture diverse, l’avanzare del così detto progresso, gli interessi economici sempre alla base della politica… ). E soprattutto torna quella limpidezza e quella complessità lessicale, quel suo linguaggio necessario alla forza evocativa e descrittiva, quella libertà di parola che distingue le vere scrittrici (e i veri scrittori).
Intanto si è separata dal marito, lavora e vive a Roma con la madre, con la quale ha finalmente recuperato un rapporto sofferto ma affettuoso, e, dopo la sua morte, si trasferisce nella grande villa nei pressi di Varese, pur compiendo ancora viaggi, in Kuwait dalla figlia Lily, o in Inghilterra, dove, nel 1994, muore questa grande scrittrice, sulla quale bisognerà tornare, e a lungo.
Anna Santoro, Fausta Cialente, 150° 1861-2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’attività narrativa e giornalistica di Fausta Cialente (1898-1994) è quella di una letterata impegnata nei problemi sociali e politici del suo tempo. Il contesto storico, quello del fascismo, della seconda guerra mondiale, della resistenza e del dopoguerra, sarà infatti molto importante per la produzione non solo giornalistica ma anche narrativa della scrittrice. Nella sua opera il punto di congiunzione tra letteratura e giornalismo si trova nell’impegno sociale e politico che la caratterizza sia come scrittrice che come giornalista. Le attività di narratrice e di giornalista sono due ruoli che si complimentano a vicenda. Questa attività le permette di rendere, nella sua produzione giornalistica, la realtà descritta più autentica, senza però venire meno al rigoroso compito del giornalista che impone di rimanere fedeli all’oggettività e, nella sua produzione narrativa, di affrontare dei temi sociali molto attuali, quale in particolare l’analisi del ruolo rivestito dalla donna nel matrimonio e nella vita sociale.
In romanzi quali Natalia (1929) e Cortile a Cleopatra (1936) Cialente rappresenta delle realtà difficili e soffocanti in cui i personaggi femminili hanno poco spazio per realizzarsi fuori dai ruoli tradizionali di moglie, figlia e amante. Nei suoi romanzi successivi, però, quali Ballata Levantina (1961), Un inverno freddissimo (1966) e Le quattro ragazze Wieselberger (1976), i personaggi femminili riflettono, come osserva Paola Malpezzi Price, «the author’s realization that individuals, women in particular, must assume control of their lives lest historical and social factors determine their destiny» (Malpezzi Price 1990: 112). Nella sua attività di giornalista, soprattutto quella del periodo romano che va dal 1949 al 1955, la scrittrice affronta invece le problematiche legate al mondo lavorativo. L’attenzione alle donne e al loro ruolo nel matrimonio e nella società sarà un costante nella sua opera narrativa e giornalistica.
In un’intervista rilasciata al quotidiano L’Unità nel 1952, riflettendo sulla sua attività di scrittrice e di giornalista, sottolinea la differenza tra il narrare e il raccontare, mettendo in luce il carattere creativo del termine narrare e quello descrittivo del raccontare. Indicando gli elementi della disparità tra il ruolo dello scrittore e quello del giornalista, l’autrice nota anche le diverse motivazioni alle quali rispondono queste due attività. Se il narrare, per lei, obbedisce all’adempimento di un bisogno interiore, il commentare un fatto o descrivere una situazione, come avviene nel giornalismo, è stata per Cialente una necessità impostole dagli avvenimenti che interessavano allora la scena mondiale: “La tendenza del narrare, d’inventare personaggi, […] non può essere che innata. Il giornalismo, in primo luogo e le differenti attività a cui l’ultima guerra mi ha costretta, hanno potuto sviare e nuocere […] a questa tendenza […]. E’ accaduto anche a me di dover raccontare avvenimenti ai quali ho partecipato. […] Ma è stata una necessità. Mi piace raccontare, inventare, creare un nuovo personaggio dal nulla, questo sì che vale la pena di una fatica!” (Cialente 1952: 6).
Il lungo periodo che intercorre tra la pubblicazione nel 1961 del romanzo Ballata Levantina e il romanzo precedente Cortile a Cleopatra, scritto nel 1931 e pubblicato nel 1936, testimonia come l’attività giornalistica avesse potuto “sviare” la scrittrice dalla sua attività letteraria, tanto da affermare sempre nell’intervista del 1952: “Il mio rimpianto? Il non poter scrivere come vorrei; e qui entriamo in una questione, al solito, squisitamente economica. Se la società fosse quella che dovrebbe essere, i narratori come tutti gli altri creatori potrebbero vivere producendo ciò che sanno fare […] nove volte su dieci produciamo secondo le necessità e non secondo le nostre capacità” (Cialente 1952: 6).
Catherine Ramsey-Portolano, Fausta Cialente tra letteratura e giornalismo: un’attenzione costante al mondo femminile, Cuadernos de Filología Italiana 2012, Vol. 19, 237-251

La recente riedizione di Cortile a Cleopatra (2004) e già di Cronaca Bizantina (2003), permette di rileggere questi due bellissimi romanzi di Fausta Cialente, che non fa parte delle scrittrici ignorate o cancellate, anzi, subito attirò attenzione, riconoscimenti e premi letterari, dal Premio Galante (1929) a quello dei Dieci (1930), dalla Selezione Marzotto (1961) al Nino Savarese (1962), fino allo Strega (1976). Eppure è ancora poco compresa, letta in modo riduttivo e superficiale, sebbene questi due romanzi, provvidenzialmente ora riproposti dalla Baldini Castoldi Dalai, siano tra i più belli e interessanti della Storia Letteraria del Primo Novecento.
La critica tradizionale, nonostante (e comprese) le osservazioni ammirate (ma parziali) di Cecchi ­o i brevi elogi di De Robertis, di Spagnoletti e di altri, della sua opera ha ovviamente fatto una lettura “neutra”, ha cercato di stringerla sotto etichette e regole inadeguate, e ha in conclusione posto la scrittrice in una sorta di limbo, un’area di deferente ma convenzionale considerazione. Così, scarsamente rivisitata se non per brevi e vivi ritratti, come quello della Asquer, o della Petrignani, con una bibliografia critica assolutamente poco esaustiva e spesso fuorviante, Fausta Cialente rimane scrittrice quasi sconosciuta ai più, magari ricordata unicamente come vincitrice, nel 1976, dello Strega con Le quattro ragazze Weiselberger.
In realtà Fausta Cialente è scrittrice di grandissimo interesse che, con la sua opera, arricchisce dibattiti ancora in corso, inerenti al rapporto tra scritture e generi (sessuali), tra scrittura e politica, e quelli specificamente riferiti al ‘fare letteratura’, a cosa sia scrivere, al perché si scrive… In tutte le sue opere interroga la cultura borghese italiana, ne addita l’ignoranza, il razzismo, l’avidità, le attribuisce la responsabilità dell’avvento del fascismo, che descrive con disprezzo e ansia, analizza la storia e la cultura del colonialismo, cui attribuisce corruzione e l’impoverimento delle culture dei paesi medio-orientali, da un giudizio assolutamente negativo del così detto “progresso” in realtà distruttivo per le persone, i popoli e le culture più deboli, dimostra le brutture e le inutilità di ogni guerra, sa rappresentare senza convenzionalità le delusioni del dopoguerra in Italia, il senso di sconfitta, l’inutilità di tanti disastri e di tanta dedizione, critica i partiti politici e così via. Interna all’aria progressista, sa leggerne certe rigidità maschili, sa vedere il mondo delle donne completamente altro da quello degli uomini, debitrice, per questa coscienza, proprio della cultura conosciuta in terre lontane. Ma soprattutto riesce a raccontare lo sguardo, il suo, e, lavorando sulla scrittura e grazie a questa, ad accogliere e rappresentare il mondo che vede e il suo doppio, la condizione umana sempre in bilico tra sogno, visione, speranza e durezza del quotidiano, i meccanismi squallidi e gli interessi economici che sono alla base del razzismo culturale e sessista, la curiosità per il sesso, avvilito da costumi ipocriti e interni ancora a razzismi di vario genere, a svelarne ipocrisie, indolenze, mistificazioni. E a rappresentare, assieme al pensiero, i gesti, i colori, le sensazioni, a coniugare la realtà, da cui sempre parte e a cui sempre ritorna, e il sogno, l’immaginazione; e a farlo grazie a una scrittura bellissima, a soluzioni inedite interessanti oggi più che mai, a un uso spregiudicato di tecniche narrative al servizio di uno stravolgimento completo dei canoni tradizionali.
Quale stupore se, pur premiata e lodata, Fausta Cialente sia (stata) letta in maniera circospetta e limitativa? In un’epoca tragica della storia europea e italiana in particolare, la “bellissima scrittura” di questa donna non poteva non apparire gratuita, leggera forse, in tempi in cui alla letteratura il Fascismo e poi la politica dei conservatori chiedeva ossequio e quella dei rivoluzionari e dei progressisti innanzi tutto impegno e critica del presente. E dunque le lodi dei lettori andavano quasi unicamente, tranne che in qualche caso (Cecchi), all’impegno politico, alla fermezza delle idee, tutti naturalmente riferendosi a un mondo che celebrava la centralità dello sguardo dell’uomo. Così, per la sua opera sono state usate definizioni come “memorialistica”, “autobiografica”, e di lei è stata sottolineata l’attività di intellettuale impegnata, e così via, dimenticando quasi o alludendovi come a un elemento aggiuntivo se non accessorio, la bellezza etica della scrittura, le soluzioni narrative innovative, la tecnica straordinaria, e soprattutto la qualità profondamente femminile dello sguardo. E ignorando che la forte e precisa critica sociale e politica, che la Cialente porterà sempre avanti, risulterà viva e in certo senso produttiva sul piano della trasformazione delle coscienze proprio nelle opere che in qualche modo lasciavano perplessi, quelle in cui non viene “detta” ma rappresentata. E cioè quando la scrittrice non è “distratta”, per dirla con Virginia Woolf, da risentimenti o progetti dimostrativi.
Eppure in qualche modo questa lettura delle sue opere, fortemente riduttiva e fuorviante, influì sulla Cialente che, a mio avviso, in Un inverno freddissimo (Feltrinelli 1966, poi sceneggiato televisivo col titolo di Camilla) e ne Il vento sulla sabbia (Mondadori, 1972), e anche nella riedizione, Interno con figure (1976), dove alcuni racconti risultano “rivisti” con inserti “impegnati” estranei alla verità poetica, attuerà una sorta di “revisione” delle funzioni e delle modalità narrative: le vicende biografiche non si stemperano più nella materia narrativa, la scrittura diviene fredda a volte petulante, certi risentimenti personali, certe sofferenze impediscono la pienezza dell’immaginazione poetica. Ma si tratta di un periodo: con Le quattro ragazze Weiselberger (1976) torna una scrittura matura, bellissima, che si distende in pagine di pura narrativa riuscendo ad incamerare e rappresentare la Storia con uno sguardo ora distaccato, ora appassionato, a tratti divertito, e recupera quella libertà di scrittura che aveva caratterizzato le prime opere. Il punto è che Fausta Cialente è scrittrice scomoda e avanti con i tempi. Nel 1936, anno della prima edizione di Cortile a Cleopatra (scritto nel 1931), ha circa trentotto anni e ha già pubblicato Natalia (Roma, Sapienza, 1930, ma scritto nel 1927), il racconto Marianna (“Italia Letteraria”, 1929), e il racconto Pamela o la bella estate (“Occidente”, 1936).
Oggi noi leggiamo la sua come “scrittura di confine” propria di un “soggetto nomade” quale lei fu, per tanti aspetti e tanti motivi, a cominciare dalle vicende biografiche (viaggi e continui spostamenti di residenza) e dal trovarsi al crocevia di culture diverse. Per nascita era originaria della terra dalle “tre culture” (italiana, slovena, austriaca), per scelta visse dal 1921 al 1947 assieme al marito, il compositore Enrico Terni, ad Alessandria D’Egitto e poi al Cairo, e in Egitto si trovò ad accogliere e mediare tra le varie culture, occidentale e levantina, inglese e italiana, borghese e rivoluzionaria, e infine maschile e femminile. Suo continuo impegno fu quello di coniugare la curiosità e l’avventura, la sensualità e la percezione delle cose provenienti dall’esperienza esistenziale con l’educazione all’ordine, alla misura, alla regola, sì da riuscire a conoscere e apprezzare, guardare e accogliere i destini di donne e uomini, diversi per cultura, per classe di appartenenza, per nazionalità.
Da quanto scritto si può facilmente comprendere come la Cialente sia scrittrice che merita approfondimenti e rivisitazioni. Tornando a Cortile a Cleopatra e Ballata Levantina, qui vorrei limitarmi ad indicare alcuni degli elementi che, a mio avviso, fanno la sua scrittura.
La sua tensione a rileggere la Storia partendo da sé, dalle proprie esperienze, ricche e vissute in pieno, la lettura (e la scrittura) del doppio continuo che è nelle cose e nel mondo, fa venire in mente un’altra grandissima scrittrice del suo tempo. E’ infatti interessante notare come lei e Anna Maria Ortese, pur così diverse, abbiano in comune il disperato bisogno di raccontare continuamente la propria storia, di mettere insieme (ripeto: in modo del tutto differente) realtà e immaginazione, di procedere con una qualità di scrittura e di sguardo completamente altro da quello dei canoni allora vigenti, di produrre scarti straordinari. Il loro “io” autografico, che sia l’io narrante o sia affidato a qualche altro personaggio poco importa, è segno di quella che altrove ho chiamato “l’umiltà” femminile: il rifiuto di cadere nella generalizzazione presuntuosa che spesso hanno gli scrittori quando si muovono dall’alto di un’onniscienza che si rivela spesso distruttiva. Ed è il segno di una libertà esistenziale, prima ancora che di scrittura, conquistata non per riflessione intellettuale, ma accolta grazie alla coscienza di essere soggetto desiderante che necessita del proprio spazio di esistenza.
La libertà della scrittura dà vita alle cose e ai personaggi, partendo dalla percezione fisica restituendoli attraverso una lingua densa, sensuale, materica, fresca, e la fisicità della scrittura, che appartiene certo alle esperienze e alla terra raccontata ma anche alla disposizione dei sensi tesi a cogliere il mondo grazie all’ascolto, allo sguardo, al tatto, (fatto fondamentale nella sua prosa è il suono delle parole, gli effetti della luce, la consistenza tattile delle cose) è esemplare di quanto negli ultimi anni stiamo discutendo riguardo alla presenza del “corpo” nella scrittura femminile.
Corpo nella scrittura significa in questo caso la scelta lessicale materica e sensuale, l’attenzione alla percezione del mondo attraverso i sensi, la presentazione dei personaggi attraverso i loro corpi, i gesti che fanno, e soprattutto l’uso straordinario che Fausta Cialente fa delle descrizioni. Esse infatti sono la rappresentazione dello sguardo che , partendo da un corpo sessuato collocato in uno spazio, questo spazio esplora e occupa, direi, con naturalezza, e che, prima del pensiero “intellettuale”, della sua coerenza, del suo progetto, del suo ordine, conquista un’assoluta libertà e proprio per questo dice. E’ la percezione dell’esistere che si dà forma nella scrittura così che la pagina si dilata, dilaga dal racconto e dallo spazio grafico, accoglie e avvolge. In certo senso le descrizioni diventano il personaggio principale: vale a dire che la percezione rappresentata si fa poesia ponendosi al centro dell’attenzione. ­Uno dei grandi scarti operati da grandi scrittrici (si pensi a Virginia Woolf) è appunto quello sullo spazio letterario. Lo spazio e il tempo narrativo e narrato si intrecciano nella pausa dello sguardo che in questo modo crea il mondo: il tempo fermato si fa momento di attenzione, spazio, si fa incanto.
La disposizione di Fausta Cialente a rappresentare l’esperienza e a fermare il mondo implica per questa via un discorso sui tempi, sullo scorrere del tempo (che in varia misura ha affascinato da sempre la letteratura) con soluzioni interessanti che noterò tra poco, e sottolinea come rappresentare il tempo significhi rappresentare lo spazio.
Nodo centrale della narrativa, su cui gli studiosi continuano ad interrogarsi, è quello della “orchestrazione dei tempi” (Provolan, Pavel). In Cortile a Cleopatra riscontriamo che tutto l’impianto narrativo è esattamente questo: la Cialente impara sin da ora una tecnica che le diverrà abituale e che è esattamente il saper muovere i tempi e il tempo, grazie allo spazio. L’autrice inizia quasi tutti i romanzi, entrando nel vivo di una scena e successivamente tutto il racconto si svolge su due dimensioni temporali e spaziali: quello del presente (la storia che si svolge nel Cortile, Marco e le donne) e quello del ricordo (il padre, il viaggio, la nave, Beatrice, l’arrivo in Egitto…) e in più ci sono sogni, o meglio visioni che segnano e mostrano l’imprendibilità del tempo, e dunque anche l’inutilità o la vanità della comprensione razionale che si sviluppi in un “prima” e un “dopo”, la parzialità assoluto del discorso (lineare, che procede da un punto all’altro) assegnando invece alla parola la funzione poetica di maraviglia e anche di conoscenza, e al ricorso (proprio della poesia) il comporsi delle storie. Per questa strada le descrizioni, lungi dall’essere pause narrative, poco influenti sul vivo della fabula, diventano la forma essenziale e danno vita alla storia di Cortile a Cleopatra. Storia che fissa uno spazio tutto femminile, sebbene il protagonista sia Marco, fatto di figure le più varie, che intessono uno scenario fatto di gesti, sospiri, occhiate, parole, desideri. Il tempo, l’ho detto, è immobile, la scena anche, ed è questo probabilmente che genera il desiderio dell’altrove in Marco, insofferente agli impegni, ai legami che fermano (il matrimonio, l’amore, la responsabilità verso chi si ama e che ci ama). Ed è immobile anche la cultura raccontata, con toni fiabeschi, sempre uguale a segnare uno spazio chiuso e senza tempo: il ramadan, la lettura dei fondi del caffè, gli indiani incantatori di serpenti. Immobile anche il rapporto tra le culture (araba, greca, ebrea, cristiana). La natura è viva, colorata, profumata, sempre in movimento: i fiori, il vento, le case, il mare, le strade, le stelle, i tramonti, il deserto, il carro carico di spighe, perfino le pelli di animali morti da conciare, tutto vive, respira, si fa respirare, stordisce con il profumo, chiama carezze. Gli uomini sono statici, fermano la scena, il resto è movimento e flusso continuo. La vita è dovunque, e le cose percorrono la propria esistenza al di là della presenza degli uomini e delle donne.

Fonte: l’Unità – Archivio storico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In Egitto, dove rimarrà fino al 1947, Fausta Cialente segue in maniera sofferta e indignata l’avanzare del nazismo e del fascismo, la guerra e il dopoguerra. Partecipa attivamente alla vita politica e culturale della comunità italiana, collaborando alla trasmissione radiofonica, Middle West, di propaganda antifascista e antinazista e fondando nel 1943 “Fronte Unito”, giornale antifascista per i prigionieri italiani. Tornata in Italia, collabora a ”L’Unità”, “Rinascita”, “Italia nuova”, “Noi donne” e pubblica Pamela o la bella estate (Feltrinelli 1962), raccolta di racconti per la maggior parte già pubblicati in riviste, e Ballata levantina (Milano, Feltrinelli, 1961).
Qui protagonista è Daniela, chiaro alter ego di Fausta (è interessante confrontare la storia di Ballata Levantina e quella de Le quattro ragazze Weiselberger) bambina ribelle, curiosa, insofferente delle ipocrisie, delle società bene, dei formalismi, che attraversa un’esistenza complessa, scopre la relatività della cose, l’inconsistenza delle apparenze che pure hanno un loro valore, l’ambiguità di ciò che appare ed è invece altro, e poi il sesso, l’amore, l’impegno politico, la Storia, con pagine ricche di riferimenti, precise denuncie, rappresentazione di un impegno e di una coscienza politica di alto livello che propone problemi ancora attuali. Già in Ballata, di tanto in tanto si avverte il porsi prepotente di quella preoccupazione che andrà crescendo nelle opere successive: quel sottolineare il proprio impegno politico da parte di Fausta, il proprio posìzionamento. E’ con questor romanzo che comincia a porsi la problematica del rapporto tra libertà di scrittura e impegno. Ma, forte delle esperienze precedenti, la Cíalente sa che è nella forma del narrare c e dovrà rappresentarsi il suo impegno e così ancora in Ballata la materia del narrare è la vita e la scrittura è sempre quella bellissima delle opere precedenti, con in più una cura dettata dalla maturità e dalla coscienza, dalla ricerca attentissima, dalla precisione e dall’ordine che la scrittrice si dà e che vengono in di tanto in tanto squarciate da pagine di una bellezza straordinaria e commovente, dove il ritmo diventa fiabesco, gli oggetti si animano, la realtà e il sogno si confondono. Come nell’ultima parte dove davvero la Cialente si abbandona al ritmo dì una scrittura di cui è perfetta padrona, già esercitata e controllata sino a giungere ad un tale livello di libertà in cui si assorbe la tecnica e la si dimentica. La tecnica della sospensione, anticipazione e ricordo, qui arriva a momenti davvero magistrali. La sapienza narrativa diventa “verbalizzazione” della coscienza.
Anna Santoro, Il tempo fermato si fa incanto, “Leggendaria”, n.44, 2004, Aprile

Ci sono dei casi in cui la mancanza o la scarsità, in termini quantitativi, di studi monografici o sistematici su un autore fa sentire impellente la necessità di una ricognizione che sia in primis dettagliatamente onnicomprensiva della vita e dell’opera in questione.
Di certo la parabola letteraria di Fausta Cialente, che non ha beneficiato negli anni di sufficiente attenzione di pubblico e di critica, è a pieno titolo ascrivibile tra i suddetti casi: lo stesso Emilio Cecchi, nella prefazione alla seconda edizione di uno dei romanzi della scrittrice, Cortile a Cleopatra, «ammette la “colpa” – come afferma la Nepi nella sua monografia [n.d.r. ] – di averlo conosciuto solamente alcuni anni dopo la sua comparsa, sorprendendosi del silenzio intorno ad “uno dei più bei romanzi italiani dell’ultimo ventennio”» (p. 56).
Al volume Fausta Cialente. Scrittrice europea di Marianna Nepi, va pertanto riconosciuto il merito di aver assunto su di sé il compito della ricostruzione non solo dell’intero percorso personale e letterario della scrittrice, con particolare attenzione alla produzione giornalistica oltre che romanzesca, ma anche della fortuna critica che le opere hanno incontrato negli anni. La strutturazione della monografia in tre parti distinte, le prime due relative rispettivamente alla produzione egiziana e a quella italiana e la terza dedicata a tematiche e linguaggio, per quanto scolastica nella sua suddivisione, è immediatamente chiarificatrice riguardo alle due fasi che caratterizzarono vita e poetica dell’autrice e riguardo a una innegabile, fondante, continuità di temi, convinzioni e stile relativa a tutta la produzione.
È nell’equilibrio tra engagement e introspezione semi-autobiografica che Marianna Nepi riconosce il punctum costante e precipuo di tutta la prosa cialentiana: il ricomporsi delle vicende personali dei personaggi su una trama che include sempre, in maniera più o meno esplicita, a seconda dei casi, il referente esterno storico-politico è da considerarsi, oltre che cifra stilistico-narrativa, soprattutto inclinazione verso una lettura del fatto individuale mai slegata dal rapporto con il fenomeno esterno e collettivo. L’ubi consistam di tale connivente conciliazione è nella propensione dei protagonisti alla trasfigurazione, alla distorsione dell’accadimento esterno, alla proiezione dell’hic in un parallelo altrove immaginifico: così Natalia, protagonista dell’omonimo romanzo, il primo della Cialente, si muove sempre un passo al di qua dalla definitiva immersione nella realtà, che è per lei la realtà familiare, la realtà del compromesso sociale, dell’accettazione forzata di ruoli invalsi, fino a poter risolvere la propria ricerca identitaria solo nell’allontanamento fisico e metaforico dal canone comune. Marianna Nepi si sofferma poi sull’analisi dei racconti di Fausta Cialente, mostrando come, anche in quelli che hanno in molti casi per protagonisti dei bambini, il punto focale della trama si collochi sempre nell’ambiguo ma inscindibile rapporto che oggettività e metamorfismo fantasticante, uscita dalla regola e rientro nella normalità intrattengono tra loro. In accordo con Carlo Bo, l’autrice del saggio indica nel realismo magico bontempelliano uno dei referenti per la prosa della Cialente, seppure in una personale rielaborazione che tempera «“l’interrogazione astratta e sterilizzata”, nel tentativo di unire la dimensione realistica con quella magica, per aiutare il lettore a “comprendere il senso ultimo dell’esistenza”» (p. 27).
Più ampio spazio è concesso alla disamina del racconto lungo Pamela o la bella estate e dei due romanzi Cortile a Cleopatra e Ballata levantina, tutti di ambientazione egiziana. Il saggio dimostra come in essi la relazione tra sogno e realtà che aveva caratterizzato le prime prove si faccia ancora più complessa, così come più profondo il legame tra invenzione e autobiografia e di più immediata evidenza anche la presenza del dato antropologico-sociale. Pamela, di origini veneziane ma trasferitasi in Egitto dopo il matrimonio con un armeno, nell’essere vittima di una doppia alienazione, di una «doppia estraneità […] nei confronti sia della nuova cultura in cui si trova a vivere, quella araba, sia della cultura madre, quella italiana» (p. 42) è, secondo la Nepi, trasposizione romanzesca della conditio di non-appartenenza che la stessa autrice ha sperimentato su di sé durante gli anni di permanenza in Egitto e che è sempre nodo tematico della sua prosa, pur nelle sue caleidoscopiche declinazioni.
Nell’attenta e puntuale lettura che la Nepi conduce di Cortile a Cleopatra, a emergere come carattere fondamentale della prosa è l’attenzione quasi documentaristica, seppure perfettamente trasposta sul piano letterario, al paesaggio egiziano, sia esso naturale oppure umano, nell’ambito di un «esotismo mediterraneo» che, viene notato con Cecchi, richiama il Mustafà di Petrolini (p. 57). Lo sfondo naturistico-antropologico non è mai semplice scenario e travalica anche gli stereotipati canoni del paesaggio intimisticamente connotato, del cosiddetto paesaggio dell’anima: mercati, venditori ambulanti, artisti di strada, rumore del mare, caldo annichilente sono impressionisticamente tratteggiati attraverso uno sguardo che poco indulge al mero gusto dell’esotico, e che riversa piuttosto sulla pagina un’attenzione ideologicamente non pre-ordinata ai luoghi descritti.
Ballata levantina, romanzo uscito dopo venticinventicinque anni di silenzio letterario, durante i quali Fausta Cialente si dedicò al giornalismo e all’attivismo antifascista, è letto dalla Nepi come una ricognizione a posteriori del fenomeno dell’emigrazione europea verso i lidi egiziani, condotta attraverso il racconto della vicenda di Daniela, a partire dall’infanzia, fino alla giovinezza e alla precoce morte. Interessante è l’analisi conclusiva del capitolo, nella quale l’autrice propone il romanzo in quattro parti di Lawrence Durrel, Quartetto d’Alessandria, come probabile referente per la particolare strutturazione in parti distinte di Ballata levantina, e per l’uso nel titolo di un concetto afferente al mondo della musica, che, in entrambi i romanzi, influisce in certo senso sull’architettura compositiva: sulla scorta anche di altri esempi, l’autrice del saggio dimostra come, piuttosto che di ripresa diretta, sia più corretto parlare di «tipologie strutturali e tematiche che circolavano all’interno della cultura europea a metà del Novecento» (p. 88).
La seconda parte del volume analizza gli ultimi tre romanzi di Fausta Cialente, oltre a proporre un breve ma esaustivo excursus della sua attività di giornalista e traduttrice. Di Un inverno freddissimo, ambientato a Milano, Marianna Nepi focalizza soprattutto la «quasi totale mancanza di riferimenti storici» (p. 96) rispetto alle precedenti prove, ma chiarendo come in realtà la Storia permei inevitabilmente le coscienze individuali, pur se non «protagonista»: «Cialente parte dalle condizioni sociali dell’Italia post-bellica per leggerne echi e riflessi nelle vite di una comune famiglia» (p. 100).
Per il romanzo Il vento sulla sabbia, che torna a essere ambientato in Egitto, sono ricordati Svevo e Proust come possibili modelli di una prosa sempre più introspettiva e memorialistica. Un richiamo a Svevo viene fatto anche per il finale del romanzo che, chiudendosi con un rogo nel quale muoiono due dei protagonisti, sembra rimandare all’immagine dell’ordigno che conclude la Coscienza di Zeno. Come Svevo, anche la Cialente metaforizza, attraverso l’immagine distruttiva, il suo atto di accusa nei confronti di un’umanità inesorabilmente compromessa: nell’incendio non muoiono solo i due personaggi, ma, idealmente, «tra quelle fiamme brucia il simbolo di una classe sociale, quella degli europei e dei levantini ricchi, della borghesia colonialista, elitaria e classista che, per tanti anni, aveva oppresso l’Egitto, producendo come unica conseguenza l’oscuramento della cultura araba» (p. 111).
L’ultimo romanzo, esplicitamente autobiografico con la narrazione delle vicende familiari della stessa scrittrice, conferma ulteriormente il carattere di tutta la prosa di Fausta Cialente, sempre a metà tra racconto di fatti individuali, familiari, e inquadramento storico-sociale: nella parabola biografica ricordata dal romanzo è possibile leggere, secondo Marianna Nepi, le ragioni profonde dello stesso percorso letterario, che, così come l’autrice, travalicò i limiti della tradizione nazionale e trovò uno spazio che a ragione, per influenze ed esiti, può dirsi europeo.
La terza e ultima parte del saggio è dedicata all’indagine dei principali nodi tematici della produzione della Cialente, a tracciare una precisa linea di continuità che attraversi tutti i romanzi, per quanto lontani per ambientazione e trame specifiche: come l’autrice ha già fatto notare nel corso del saggio, il nucleo contenutistico-ideologico per eccellenza è il rapporto tra individuo e Storia, che nell’ultimo romanzo trova la sua «sintesi perfetta» (p. 139), accanto al quale prendono vita un continuo e acuto confronto tra borghesia europea e civiltà araba, e una sentita attenzione alla questione dell’emancipazione femminile, significativamente fallimentare nella quasi totalità dei casi.
Chiude il volume l’analisi del linguaggio di due romanzi, Cortile a Cleopatra e Ballata levantina, entrambi caratterizzati dallo sperimentalismo stilistico-linguistico: la Nepi indica nell’uso del plurilinguismo, nella frammentazione semantica, nella mescolanza, oltre che di registri, anche di tecniche narrative, con la continua alternanza di discorso diretto, indiretto e indiretto libero, e nel ripetuto cambio del punto di vista le principali innovazioni rispetto alla prosa contemporanea, che fanno di Fausta Cialente un caso letterario unico e meritevole di una maggiore attenzione.
Martina Di Nardo, Marianna Nepi, Fausta Cialente scrittrice europea, Pisa, Pacini, 2012, Oblio, Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, Anno II, 8, 2012

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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