Il matrimonio, meta sospirata delle giovani protagoniste della commedia del periodo

Film apripista del filone dei “telefoni bianchi”, “La segretaria privata” (1931) dell’esordiente Goffredo Alessandrini è una delle prime pellicole sonore sul mondo del lavoro che risente delle influenze del cinema hollywoodiano, ungherese e tedesco. Evidente anche l’apporto del vaudeville francese, come del musical americano, affermatosi proprio nel periodo della grande depressione come antidoto alla tristezza dei tempi. La pellicola, girata dapprima in lingua tedesca con il titolo “Die Privatsekretärin” per la regia di Wilhelm Thiele <333 e poi in italiano secondo gli accordi che regolavano le numerose co-produzioni dell’epoca, venne sceneggiata da Franz Schulz che adattò il romanzo omonimo di un autore magiaro von Szomahazy. Dell’originale tedesco, oltre alla presenza di parti cantate, <334 sono rimasti alcuni elementi, come il giornale letto dal direttore della Banca, Roberto Berri (Nino Besozzi).
La vicenda raccontata, per quanto inverosimile possa apparire, offre uno spaccato della condizione femminile negli anni della crisi. Molte ragazze erano costrette a spostarsi nella grande città dalla provincia per trovare un impiego. E la protagonista, Elsa Lorenzi (Elsa Merlini), incarna la determinazione, l’ottimismo e le virtù della provincialina in grado di destreggiarsi all’interno dei pericoli della vita urbana grazie ad una salda morale che ricorda le sue colleghe americane e ungheresi. La vediamo, fin dall’inizio alla stazione, oggetto dello sguardo della macchina da presa, che fa di lei la protagonista indiscussa del plot, ma anche delle attenzioni, quasi mai innocenti, degli uomini, a partire da un ridicolo gagà che le mette gli occhi addosso appena scende dal treno credendo, con la sua affettata eleganza, di far colpo sulla ragazza, a suo avviso, ingenua perché provinciale. Elsa al contrario non è così sprovveduta da non capire che il giovane agisce con secondi fini quando le offre di aiutarla a trovare un taxi. Rimarrà con la bocca asciutta subito dopo essersi prodigato a chiamarle un’auto e averla aiutata a caricare le pesanti valigie. Nel «pensionato per signore e signorine sole» si avverte il pessimismo che serpeggia tra le giovani già impiegate in occupazioni poco remunerative. Indicativo di tale malessere sono le battute sarcastiche che accompagnano le ottimistiche speranze di Elsa di trovare un lavoro come dattilografa. Una di loro esprime disprezzo per il genere di impiego ricercato dalla nuova arrivata, perché pagato poco («500 lire dicono»), mentre un’altra aggiunge con ironia «e poi a Capodanno la fotografia del principale con dedica», alludendo alle insidie sessuali messe in atto dai superiori. Le “signorine” in cerca di lavoro aspirano o a un marito ricco oppure a un «un bravo ragazzo con mille lire al mese». Elsa aspira invece a qualcosa di più delle mille lire al mese. L’importante è per ora trovare un impiego: e infatti per lei non è affatto difficile trovarlo: arguzia e arte femminile della seduzione sono le armi usate dalla provincialina per conquistarsi le simpatie del portiere Otello (Sergio Tofano) e poi per farsi ricevere dal capo del personale (Cesare Zoppetti). Non ci sono posti nella banca, ma per lei il cavalier Rossi fa un’eccezione credendo di ottenere subito la disponibilità della ragazza ad uscire con lui. Il gesto di tirare su e giù la zip del vestito e di allargarlo per vederle magari il seno è un chiaro segnale delle intenzioni poco adamantine dell’uomo. La giovane, mostrandosi civettuola e allo stesso tempo facendo finta di non capire le insinuanti proposte del capo ufficio, ottiene un posto da dattilografa, in prova.
Appagata dal brillante risultato della sua intraprendenza, esprime la sua gioia per strada e poi alla pensione cantando il Leitmotiv musicale del film: «Oh, come sono felice». Una volta assodato che Elsa non è intenzionata a elargire “favori sessuali” in cambio dell’impiego, il cavaliere inizierà ad utilizzare forme di ritorsione, che oggi con termine moderno definiremmo mobbing. Costringe la neo-dattilografa con argomentazioni pretestuose a rimanere in ufficio oltre l’orario di lavoro per ribattere a macchina lavori eseguiti alla perfezione, ma considerati da lui pieni di errori. La strada verso la felicità sembrerebbe ora in salita, ma Elsa è destinata a realizzare i suoi sogni. In una delle tante tristi serate trascorse in ufficio, oltre l’orario di lavoro, fa la conoscenza del giovane ed aitante direttore della banca, Roberto Berri, che si spaccia per un impiegato. Questi le dà una mano a terminare il lavoro e poi la conduce in un locale notturno, dove incontra Otello. I tre trascorrono una divertente serata assieme. E al ritorno in taxi il direttore riesce anche a baciare la giovane che tuttavia disdegna la corte di un semplice travet aspirando a qualcosa di meglio: «Ognuno nella vita ha un sogno, un’aspirazione. […] non voglio diventare l’amica, la moglie di un impiegatuccio di banca, passare tutta la vita davanti alla macchina da scrivere, piena di preoccupazioni. Voglio anch’io godere la vita e allora aspetto».
Le aspirazioni di Elsa non sono poi così diverse dalle compagne del pensionato: non desiderano l’indipendenza, come sembrerebbe, ma il matrimonio, meta sospirata delle giovani protagoniste della commedia del periodo, non solo italiana. Certo Elsa non si accontenta di un modesto impiegato dallo stipendio di mille lire al mese. Dopo tutta una serie di equivoci, colpi di scena ed espedienti, una volta scoperto di essere uscita niente meno che col direttore della banca presso cui lavora, cerca in tutti i modi di ricucire il rapporto, eliminando con la complicità di Otello la segretaria personale e sostituendosi a lei. Berri approfitta della situazione invitando a casa sua Elsa per continuare la dettatura di un lettera. E lei va all’appuntamento piena di speranze e vestita molto elegantemente credendo di essere arrivata a realizzare il suo sogno d’amore; invece Berri rivela di non avere alcuna intenzione di fare sul serio con la ragazza, cui propone una prosaica relazione amorosa: «Io non sono che un pover’uomo assillato dal lavoro e non ho il tempo di guardare bene in fondo al cuore di una ragazza […]. Io non posso offrirle che la mia amicizia, molte toilettes, un’automobile, ogni lusso, tranne una cosa, tranne l’amore, ma dopo tutto l’amore potrebbe essere anche una cosa inutile, superflua, non è vero mia piccola Elsa?». Il giovane direttore non ha fatto altro che mettere alla prova l’onestà della giovane e scoprire se effettivamente lei lo ama. La pronta risposta sonora è un bel ceffone con cui la dattilografa si congeda per sempre dal lavoro. Dopo tutta una serie di peripezie, i due giovani si riconciliano grazie alla resa del direttore, costretto ad andare alla pensione Primavera per chiedere in qualche modo scusa: «Prima che parta volevo dirle una cosa: che la vita mi ha dato parecchi schiaffi, ma uno solo mi ha fatto veramente girare la testa, quello che mi hai dato tu ieri».
Per tutta la durata della vicenda Elsa, ricordando il personaggio della Crawford in “Ragazze che sognano” (Our Blushing Brides, 1930), “is a resourceful and independent character; but she is exceptional in contrast to other women of her class in her shrewdness about sexual morality, the key to her success. Her commonsense attitude of saving her virginity until marriage is central to her gaining the attention of the bank president”. <335
Come nelle commedie cameriniane e altre del periodo, viene esaltata la figura femminile virtuosa. Certo Elsa Merlini non è Assia Noris, la protagonista ingenua, impaurita e vergognosa di molti film di Camerini; appare più legata allo stereotipo della donna emancipata del grande schermo hollywoodiano e dei romanzi e delle opere teatrali francesi, tedesche e ungheresi.
Si intravvede già in questa pellicola di passaggio dal muto al sonoro non solo una costruzione narrativa fondata sull’equivoco, ma anche la presenza di una scenografia lussuosa che diventerà un Leimotiv di tanti film dei “telefoni bianchi”: “Sullo sfondo di una cornice raffinata, costituita da enormi saloni, divani di forma opulenta, scaloni interni, tappeti orientali, spogliatoi californiani, si istituiva tra i personaggi un sistema fittizio di rapporti in grado di provocare e facilitare la commedia degli inganni e degli equivoci”. <336
“La segretaria privata” rimane in ogni caso un interessante documento, nonostante l’irrealtà delle situazioni, <337 delle condizioni complesse delle donne alla ricerca di un impiego nelle grandi città e dei pericoli in cui potevano incorrere se ad animarne la condotta non ci fossero stati ferrei principi morali. Questa tematica della lavoratrice virtuosa percorre come un fil rouge tutta la commedia del periodo. Professioni, come quella della segretaria, della telefonista e della commessa, collocavano la donna “in vetrina”, quale oggetto del desiderio maschile, in base ad un indice di visibilità deciso dalla stessa lavoratrice. Ne “La segretaria privata” possiamo infatti notare fin da subito lo status di «persona e soggetto narrativo» <338 della protagonista, cui spetta il privilegio di «dis/uniformarsi», rispetto alle compagne di lavoro private di qualsiasi sex appeal nella prigione dell’omologante uniforme: “[…] quello che nella ‘Segretaria privata’ segnava in Elsa la sua qualità di protagonista fuori del coro era proprio l’eccezione del vestito indossato che, rispetto ai grembiuli delle colleghe, neri e abbottonati, si avvaleva di un nuovissimo congegno -la cerniera lampo non ancora pienamente acquisita alla moda femminile -trasformandolo in un dispositivo erotico da ufficio bancario grazie alla microtecnologia che lo chiude e dischiude”. <339
[NOTE]
333 Il regista tedesco diresse anche le versioni inglese e francese, girate in contemporanea a quella italiana. Ecco la testimonianza di Alessandrini: «Non si muoveva niente, andavano via gli attori, restava la scena come l’aveva girata il regista, entravano gli attori francesi o inglesi, ripetevano esattamente le stesse cose con gli stessi movimenti, senza che l’operatore fosse costretto a cambiare niente, senza che le lampade si spostassero». Francesco Savio, Intervista a Goffredo Alessandrini, in Cinecittà anni Trenta, vol. I, cit., p. 12.
334 Non sono da escludere interferenze con il musical americano.
335 Marcia Landy, Italian Film, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, p. 102.
336 Nunzia Messina, Le donne del fascismo. Massaie rurali e dive del cinema nel ventennio, Roma, Ellemme, 1987, p. 31.
337 Il critico Enrico Roma considera assurda la storia: mentre tutte le compagne di Elsa faticano a trovare un posto, lei «irrompe in una grande banca decisa a vincere. In un battibaleno, infatti, fa la conquista di un poco trattabile usciere, del direttore del personale e del direttore generale, scavalcando postulanti e impiegate, mettendo tutti in agitazione e imbarazzo, finché non ottiene di farsi sposare proprio dal direttore. Io mi domando come possa mai accadere una cosa simile. Bisogna dire che in quella banca si sian dati convegno tutti gli imbecilli della categoria, se tollerano che l’ultima venuta entri, esca, senza farsi annunziare e sbattendo gli usci, ritardi di mezz’ora al mattino […]». Enrico Roma, La segretaria privata, «Cinema Illustrazione», VII, 1, 5 gennaio 1932, p. 14.
338 Antonella Ottai, Eastern, cit., p. 303.
339 Ibidem.
Meris Nicoletto, Percorsi tra tradizione e modernità all’interno dell’universo femminile nel cinema di regime (1929-1943), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2013

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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