Il miracolo consueto della foglia

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano De Giovanni (particolare di un disegno del 1957) – Fonte: La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, XXVIII, n° 84, settembre/dicembre 2017

Penso
che il paradiso
sia ciascuno di noi
quando dimentica
il suo nome

Accettarsi: come il pesco
che sboccia mille fiori
per poche decine di frutti.
E non raccoglierli
nemmeno tutti.

I miracoli sono così fragili!
rifletto,
mentre delle cose osservo
i misteriosi confini.
Fragili come bambini!

Chissà quante anime mi stanno accanto,
mentre io soffro d’essere solo,
chissà l’ala, chissà il volo,
chissà il cielo, chissà il mare
che ancora non so navigare.

La nostra tristezza
nasce dal ricordare:
amare
e poi dimenticare
non ci è consentito.

Imparare a leggere
sul foglio bianco
un immaginario disegno
e non chiedere
altro segno
.

Luciano De Giovanni

[…] De Giovanni appartiene a pieno diritto a quella linea ligure che annovera in Montale ed in Sbarbaro i suoi esponenti più insigni. Come è ovvio, questa linea trascende una valenza meramente geografica: è, infatti, un modo di essere, di percepire la vita. Ci sembra che i tratti salienti di tale orientamento siano il disincanto e, quasi in modo paradossale, una tensione metafisica a valicare il limite. Si avverte nei componimenti di De Giovanni l’amaro della salsedine, l’anelito verso l’orizzonte infinito: la Liguria, come condizione esistenziale, stretta tra le montagne ed il mare, tra l’aridità del destino e la speranza nell’altrove. Così talune composizioni sono ventilate da un soffio di fede, una fede comunque dubbiosa e precaria.
In molti casi la misura breve delle unità metrico-ritmiche, la concentrazione semantica cingono le parole in composizioni gnomiche, a creare quasi degli aforismi versificati. Piccole cose e grandi aspirazioni si abbracciano nell’inventario lirico di De Giovanni.
La fragile realtà di tutti i giorni è sfiorata, come se il poeta temesse di incrinarla con parole fuori registro o toni che non siano dimessi. Le stesse rime, timide e consuete, accennano solo una melodia per lasciare spazio ad una meditazione su sofferenze e gioie ordinarie tra cui si insinua la grazia straordinaria di un’immagine limpida, di un’emozione senza tempo. […]
Zret Blog

Capita a tutti noi di provare un po’ di commozione ascoltando una musica particolare, o rileggendo una poesia imparata al liceo. A me succede di emozionarmi ogni volta che ridico tra me e me questi semplicissimi sette versi:
Un’ape morta
nell’acqua della grondaia.
Ehi, sorellina!
Sole di gennaio
e cielo azzurro
per l’ape morta
nell’acqua della grondaia.
Forse mi intenerisce l’immagine di questo poeta-idraulico-spazzacamino, che ripara le tegole del tetto di una casa sulla riviera ligure, e svuotando la grondaia colma d’acqua trova un’ape annegata. “Ehi, sorellina!”. Quasi stupito, appena addolorato, la sgrida come a dirle “Cosa stai facendo? Svegliati! È inverno, fa freddo, ma c’è il sole e il cielo è limpido. Perché sei morta, allora?”
Un minimo e preziosissimo Cantico delle creature, di francescana umiltà e letizia: come tutte le poesie che ci ha lasciato Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001.
De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell’Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro ‘900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato… ), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956. Così lo descriveva ai lettori: “un poeta che io stimo religioso, che ha diritto alla grazia del suo patire…”, mettendone in luce sensibilità, misura, precisione, in qualche modo derivategli dal suo mestiere di “azzurro stagnino”, riflessivo e solitario nel lavoro, attento alle cose e ai gesti, a contatto sempre con l’acqua: in piedi sui tetti, vicino al cielo, dimentico di se stesso.
“Gli uccelli / possono volare / perché sono / innocenti / non è questione / d’ali”, “Due bambini / con due cagnolini / a giocare nel cortile / della grande casa. / A me ch’ero sul tetto / a riparare una gronda / sembravano quattro sassi / caduti in fondo al pozzo”, “Non sanno le cicale / perché all’improvviso smettono il loro canto // perché all’improvviso / lo ricominciano”, “Ho aiutato una foglia a cadere, / l’ho sfiorata con una carezza / e s’è fatta coraggio, è andata. // Fingeva, poverina, / d’essersi dimenticata / che si deve anche morire”.
A Luciano De Giovanni (molto riservato nei rapporti con gli altri, quasi intimidito e forse timoroso di dover rivelare sia le sue ristrettezze economiche sia gli scarsi studi che aveva portato a termine) piaceva camminare nei boschi, lungo le stradine di campagna, fiancheggiando i torrenti, in silenzio, mostrando una coscienza anticipatamente ecologica. Un suo critico e mentore fedele, Stefano Verdino, così scriveva di lui: “Stupisce la frontalità della sua poesia, vale a dire il suo essere costantemente canto e voce della natura, nelle sue misure più lineari ed elementari”. Il mare, il bosco, la montagna, le foglie sono elementi presenti soprattutto nelle prime esili raccolte, e già preludono a un rapporto intenso con la spiritualità e il divino, non chiesastico ‒ ovviamente ‒, ma vivo nell’attesa stupita di una epifania prodigiosa:
“Il miracolo consueto della foglia / al quale non prestiamo attenzione / e non ci meraviglia / in cerca come siamo / del miracolo”, “Il sentiero che rasenta i castagni / e trattiene gli odori / degli arbusti che attraversa / tu non sai dove va dove porta / potresti non imboccarlo mai più / potresti non averlo trovato / eppure proprio te ha cercato”, “Lamentandosi / il mare / cerca rifugio / tra gli scogli // non c’è pace / per chi è / immenso”, “Mammelle gonfie di pioggia / è diventato il cielo, / desolate onde / rovinano sulla scogliera, / delle verdi colline / avviluppate di nebbia / niente si sa: // ‒ Soffri, / terra madre?”.
Anche l’atmosfera domestica (la casa, la moglie, i bambini) rientrava a pieno diritto nell’universo poetico di De Giovanni, raccontata con un lessico scarno e volutamente impoverito, privo di ricercatezze e neologismi, quasi che l’arredamento linguistico e mentale dovesse per onestà riflettere quello modesto dell’abitazione, teneramente intiepidito degli affetti familiari:
“Venitela a vedere la mia bambina / in questo mattino di miracoli / saltellare tra le zolle dell’orto: / i raggi del sole la seguono. // Si china e muta ogni cosa / in preziosissime gemme / fa un lieve cenno alla terra / e subito nasce una rosa”, “Il mio, lì nella culla, / dorme gonfio di latte, / il destino e gli eventi / ancora non l’hanno destato. // Un giorno si metterà la cravatta / frettoloso, / dirà ‒ al diavolo tutti ‒ sbattendo la porta”, “Presto non sarà più anonimo / questo pezzo di terra, / ci farò una casa / e un pergolato di vigna. // … In un momento di dolcezza / diventerà del tutto diverso / e la sedia a sdraio / vicino alla finestra / si gonfierà di vento”, “Ho fatto un sogno strano: / ero un albero in un prato / e tu un nido sopra il mio ramo” […]
Alida Airaghi, Luciano De Giovanni, La poesia e lo spirito, 29 gennaio 2018

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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