Il nuovo corso dell’Einaudi venne anche causato dalla crescente concorrenza commerciale con altre case editrici

In modo particolare è dopo la sconfitta elettorale del 1948 (avvenuta in un clima fortemente influenzato dalla retorica della propaganda ufficiale – spesso dai toni apocalittici – del mondo polarizzato) che si presenta con maggiore insistenza l’esigenza di definire con rigore e chiarezza il rapporto Einaudi/Pci e gli ambiti in cui la collaborazione poteva essere proseguita. Innanzitutto «Giulio Einaudi ha deciso di riservare “i rapporti ufficiali col partito” a se stesso, e in subordine a Balbo e a Giolitti» <78. Poi, per quanto riguarda l’organizzazione da un punto di vista operativo, lo stesso Giulio Einaudi scrive a Giolitti: «la cosa fondamentale è questa: dopo aver chiarito qual è il nostro programma nel quale desideriamo la collaborazione del Partito, occorre stabilire in questo campo i rapporti tra noi e il Partito» <79. Si andavano meglio definendo (almeno nella volontà espressa da Einaudi) quelle reciproche competenze che erano fino ad allora rimaste piuttosto sfumate. Ciò riguardava soprattutto la distinzione tra diverse tipologie di libri e in modo particolare le opere provenienti dall’Unione Sovietica. Queste, infatti, potevano essere suddivise in tre categorie: libri cui, pur uscendo per Einaudi, spettava al Pci la scelta del curatore, traduttore, ecc., oltre che la responsabilità “ideologica”; libri che venivano scelti e proposti dalla casa editrice ma realizzati in collaborazione con il Partito; infine libri che rientravano nella normale attività editoriale, per i quali era richiesto esclusivamente il parere di Emilio Sereni <80.
Risulta chiaro che, da un punto di vista interno alla casa editrice Einaudi, siamo di fronte ad una fase di importanti cambiamenti e che quindi il programma annuale del periodo prevedeva una sostanziale riorganizzazione delle collane per andare incontro a nuovi interessi, ad un nuovo pubblico e a nuovi collaboratori <81. Le novità erano tuttavia sempre e comunque da riallacciare alla tradizione einaudiana, soprattutto nel senso di farle rientrare in un progetto culturale non legato all’immediato o alle necessità dell’attualità ma che si potesse collocare in una prospettiva più a lungo termine, poiché, come scrisse Bobbio a Einaudi, «le case editrici si misurano a decenni, non a mesi» <82. Ci sono, dunque, collane che proseguono con maggior decisione nel solco della continuità – come la collana filosofica per la quale, non toccata direttamente dalla riorganizzazione, la tendenza dei consulenti (Bobbio e Balbo) era quella di dedicarsi in modo particolare ai classici abbandonando gli autori più controversi e privilegiando la fenomenologia e la logica <83 – e collane invece fortemente innovative e che si ponevano nella scia del cambiamento – come quella dei Saggi. Quest’ultima, infatti, divenne la collana di avanguardia, rivolta al pubblico più giovane e in cui dovevano convergere opere di critica letteraria, cinema, teatro, ecc. sotto la guida di Muscetta, Serini e Vittorini <84.
Tale riassetto delle diverse competenze interne non riuscì tuttavia a limitare del tutto i conflitti tra i collaboratori della casa. Anzi, in certi casi le novità ebbero l’effetto di acutizzarli fin quasi a vere e proprie rotture. Questione centrale era ancora una volta quella della «direzione ideologica della Einaudi e di chi, di conseguenza, dovesse prioritariamente gestire i suoi rapporti con il Pci» <85, ma anche quella della necessità di esercitare un certo «autocontrollo ideologico» <86 che preservasse dal compiere passi falsi nelle future scelte editoriali. Di quanto l’equilibrio fosse precario e di quanto profonde fossero le fratture (interne, ma che si proiettavano inevitabilmente anche verso l’esterno) è esempio il cosiddetto “Caso Falqui”, che portò quasi al divorzio definitivo tra la casa editrice e Muscetta <87, e quindi il Pci – per altro allora impegnato in un «difficile periodo di elaborazione» politica, ideologica, di alleanze, ecc., come testimonia Giolitti <88.
Una volta di più, quindi, la questione di fondo sollevata nel periodo a cavallo tra anni Quaranta e anni Cinquanta riguarda la collocazione della casa editrice rispetto al Partito comunista. Insomma, si trattava di circoscrivere adeguatamente i settori in cui concretizzare il rapporto con il Pci dal punto di vista editoriale e stabilire se «il suo compito [della Einaudi] fosse rivolgersi prioritariamente all’interno del Pci […] per contribuire in modo determinante all’elaborazione di una “linea culturale più efficiente e coerente”, o se essa dovesse utilizzare prima di tutto il prestigio ormai acquisito anche al fine di diffondere tra un “pubblico colto” opere e temi che altrimenti non sarebbero fuoriusciti dall’ambito del partito» <89. Occupare una zona di confine, però, poteva significare spesso ottenere un risultato contrario a quelle che erano le reali intenzioni.
In questo modo alcune scelte editoriali furono viste con diffidenza dal Partito comunista e, specularmente, altre suscitarono il sospetto da parte dei lettori fuori dal Partito <90. Dunque, pur accettando la scelta di collocarsi all’interno di un determinato schieramento, era chiaro per tutti che il vero discrimine doveva comunque restare quello legato alla qualità del libro da inserire nel catalogo. La conseguenza fu la decisione di pubblicare opere non gradite a Botteghe Oscure, come “Il fiore del verso russo” curato da Poggioli (uscito nel 1949, voluto fortemente da Pavese e, altrettanto fortemente, attaccato sia da Muscetta che dallo stesso Togliatti, oltreché da buona parte della stampa di partito) <91 oppure autori come Eliade, Frobenius e Löwith e, per «aprire delle brecce nella tradizione storicista e idealista» <92, di iniziare a stampare testi di discipline come l’etnologia, l’antropologia e la storia delle religioni (discipline quest’ultime che nell’Italia di allora trovavano una spazio assai limitato e che quindi molto sono debitrici alla scelta coraggiosa della Einaudi di creare una collana apposita, la Collezione di studi religiosi, etnologici
e psicologici o Collana viola fondata da Cesare Pavese e Ernesto De Martino nel 1948).
Un’ulteriore frattura, questa volta tutta interna alla casa editrice, era legata al clima polemico instauratosi tra la sede torinese e quella romana <93: «segni di crescente tensione interna erano del resto percepibili dai verbali delle riunioni dei Consigli editoriali di Torino e di Roma, come ad esempio la richiesta, avanzata da Muscetta nel corso del Consiglio del 9 novembre 1949, di una più regolare informazione dei consulenti romani sulle decisioni assunte nelle riunioni del mercoledì a Torino, con una conseguente formalizzazione della verbalizzazione dei Consigli» <94. La richiesta di una verbalizzazione ufficiale che potesse mettere nero su bianco le posizioni di ciascuna sede rende chiaro quanto diffuso fosse ormai un clima di sospetto e di reciproca diffidenza: «più rilevabile è invece una certa difficoltà di rapporti fra gli einaudiani di Torino e quelli di Roma. Pavese disapprova le “beghe romane”, lo stesso Giulio diffida “dell’ambiente intellettualoide” della Capitale. Il solito Muscetta parla, in risposta, “dell’almo consiglio torinese”» <95. In effetti, quando viene sottolineata l’importanza della tradizione per la casa editrice, bisogna ricordare che ad essa va ricondotto anche il cosiddetto “metodo Einaudi” relativo al lavoro editoriale svolto inizialmente con perizia quasi artigianale dai membri del Consiglio in un rapporto pressoché paritario. Originariamente, infatti, nelle riunioni di questo organismo si discuteva di «idee e di libri» e non di «tirature, di vendita, di mercato» (Giulio Einaudi). Le discussioni economiche (così come, in realtà, anche alcune scelte definitive) erano rinviate semmai ad altri luoghi <96. Difatti, le riunioni a cui partecipavano i dirigenti editoriali, amministrativi e commerciali si tenevano il giovedì: «Si trattavano insomma le questioni che nelle riunioni dei consulenti non si devono trattare. Non si deve parlare di tirature, di vendita, di mercato, quando un Cases, un Bobbio, un Calvino, un Mila, un Solmi, un Fossati si stanno appassionando a discutere di idee e libri. Perché altrimenti si tagliano le ali da soli. Il libro non si vende? Allora non faccio nemmeno la proposta. Sto zitto. Invece fai la proposta, dimmi il valore dell’opera. Il tuo giudizio influirà anche sulla decisione successiva: certo si vende poco, però ha questi meriti. Decidiamo di farlo?» <97.
Con l’esplodere di nuovi “casi eclatanti” (alcuni, come vedremo, centrali anche nel lavoro e nella vita di Solmi), il deteriorarsi di tale metodo (con la conseguenza di una sempre maggiore limitazione di fatto del ruolo del Consiglio editoriale) è un chiaro sintomo sia del logorarsi dei rapporti professionali tra i collaboratori della casa editrice, sia – e più in generale – del mutare del clima complessivo al suo interno, delle idee di fondo che la guidavano e quindi, di riflesso, del contesto storico e sociale in cui essa operava. Ed in effetti l’aumento della conflittualità costituisce l’indizio principale da tener presente nel momento in cui si vogliono ricostruire ed analizzare le nuove modalità con cui ora venivano prese le decisioni riguardo ai libri da tradurre e da pubblicare: «ognuno cercava per suo conto, isolatamente, possibili risposte di fronte a strettoie che potevano sembrare intollerabili, se non a patto di essere introiettate; ognuno per conto suo valutava e affrontava possibili prospettive diverse. […] Un elemento comune tuttavia può essere identificato: una delle conseguenze della logica dello schieramento consisteva nella distorsione di percorsi e culture, nei costi che venivano pagati nella convinzione, profonda e reale, che essi fossero necessari» <98.
In questo già travagliato complesso di circostanze si inserisce il tragico evento del suicidio di Cesare Pavese (27 agosto 1950), momento altamente drammatico in cui probabilmente esplose funestamente la miscela instabile del suo impegno collettivo e della sua disperazione individuale. Neanche tale evento, tuttavia, riuscì a riavvicinare del tutto le differenti posizioni all’interno della casa editrice. Oggetto delle frizioni erano sia il complessivo progetto culturale perseguito dall’Einaudi, sia le convinzioni (e talvolta le esternazioni) personali dei singoli membri del Consiglio. Inoltre, bisogna considerare che anche un terzo elemento decisivo minava profondamente l’equilibrio delle varie componenti interne alla casa editrice. Alle differenze politiche e a quelle culturali, si aggiungeva quella generazionale. Una nuova generazione, infatti, faceva il suo ingresso all’Einaudi. Il mondo in cui i nuovi collaboratori avevano fatto le prime esperienze intellettuali era completamente mutato rispetto a quello dei loro padri. Nati intorno alla seconda metà degli anni Venti, i nuovi consulenti erano stati interessati solo dalle ultime fasi sia del fascismo che della Resistenza <99: «È comunque nel corso degli anni Cinquanta che quel rissoso amalgama stabilitosi intorno alla casa editrice comincia a dissolversi. Formatosi nel “troppo euforico periodo dopoliberazione” (l’espressione è di Giolitti), il gruppo ha vissuto gli esordi della guerra fredda senza sfaldarsi, pur fra tanti contrasti» <100.
La questione generazionale rimarrà anch’essa questione irrisolta inasprendosi ulteriormente nei primi anni Sessanta e vedrà proprio Renato Solmi tra i principali protagonisti. È in considerazione di questo quadro generale e per tentare per lo meno di smussare gli angoli ed evitare contrapposizioni eccessivamente dure che, probabilmente, Balbo propone che i verbali delle riunioni fossero scritti «in modo che risultino le varie opinioni personali, le responsabilità delle varie proposte e gli accordi più entusiasti o più riservati dei vari consulenti a ciascuna proposta» <101.
In conclusione, come spiega bene Luisa Mangoni, la storia della casa editrice Einaudi tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta può essere ricondotta alla categoria del “disagio”. Questo, causato dai fattori che abbiamo appena riassunto, fu favorito anche da una sempre minore condivisione delle scelte e da una crescente specializzazione nei vari ambiti, soprattutto se confrontato con quanto accadeva durante i primi anni di vita della casa editrice: «il “disagio” poteva assumere varie forme. Il parlare “lingue diverse”, l’isolamento e il “silenzio” che ne derivava si rivelavano anche, in termini consapevoli per alcuni, inconsapevoli per altri, in una sorta di sottolineatura del “mestiere” e della ricerca, in un chiudersi nel proprio ambito di competenza, in un sottrarsi al dibattito politico e ideologico […] in una “professionalizzazione” delle scelte che tra il 1951 e il 1954 sembrava divenire sempre più elemento caratterizzante anche della politica editoriale della Einaudi» <102. Il limitare al minimo il dibattito politico e ideologico all’interno della casa editrice si concretizzò, da un punto di vista editoriale, nella scelta di
ridurre la pubblicazione di opere prettamente ideologiche, teoriche ecc. e di dedicarsi primariamente a libri di analisi e d’inchiesta oppure legati a determinati ambiti accademici o tecnico-scientifici <103.
Ciò probabilmente è dovuto da un lato all’indebolirsi della presa della cultura comunista (nonostante il tentativo del Partito di condizionare la vita culturale del paese), dall’altro al riemergere dell’idealismo crociano in grado di influenzare non poco lo stesso pensiero marxista e storicista <104. Più concretamente, il nuovo corso – se così lo si può definire – è anche causato dalla crescente concorrenza commerciale con altre case editrici, prima fra tutte la Laterza (casa editrice barese legata a Benedetto Croce e che può essere considerata in qualche modo l’omologo dell’Einaudi per interessi culturali <105). Con quest’ultima, ad esempio, la competizione riguardò, come caso specifico di quegli anni, l’edizione completa delle opere di De Sanctis. Ma evidentemente, e più in generale, tale competizione andava ben oltre la pubblicazione esclusiva di un singolo autore – per quanto prestigioso – e concerneva, semmai, anche questioni di politica e di “egemonia” culturale.
[NOTE]
78 N. AJELLO, cit.
79 L. MANGONI, cit., p. 402. Lettera di Einaudi a Giolitti del 22 ottobre 1948.
80 Ibidem, p. 403.
81 Fu nel consiglio del 12/13 gennaio 1949 che venne definita la redazione e le responsabilità per le singole collane: il nucleo attorno a Einaudi era composto da Balbo, Fonzi, Natalia Ginzburg, Giolitti, Muscetta, Pavese, Scassellati, Serini. Nel corso di quello stesso anno si aggiunsero Giulio Bollati, Paolo Boringhieri, Giorgio Filogamo e Italo Calvino. Cfr. T. MUNARI, cit. p. XVII (prefazione di L. Mangoni) e pp. 54-56.
82 G. TURI, cit., p. 159.
83 L. MANGONI, cit., pp. 437-438.
84 Ibidem, p. 440 e T. MUNARI, cit. p. 58.
85 Ibidem, p. 543.
86 Ibidem, p. 550.
87 Ibidem, pp. 543-549. Enrico Falqui aveva proposto a Pavese la pubblicazione di una raccolta di suoi saggi letterari. Quando anche altri membri della casa editrice (Einaudi e Vittorini) si espressero positivamente e il libro venne inserito nel piano editoriale, Muscetta minacciò le proprie dimissioni e attaccò molto duramente l’autore a causa di un articolo di quest’ultimo risalente al 1941 e che lo stesso Muscetta aveva letto come una “delazione” nei suoi confronti: «In una collana dove sono usciti e usciranno saggi di Parodi, Pancrazi, Ginzburg, Russo, Pintor, Sapegno, Cecchi, un tuo libro si esclude da sé, per l’indirizzo tutto formalistico e amministrativo dei tuoi “bilanci” letterari. D’altra parte, coi tempi che corrono, ti conviene imbracarti nel “culturame”? Tu sei sempre stato, e sei tuttora, un uomo d’ordine, e non vale la pena di correre certi rischi, anche se con un libro stampato da Einaudi si tratta di conquistarsi a buon mercato una patente di serietà intellettuale» (Muscetta a Falqui, 5 agosto 1949). Ad ogni modo si giunse, anche grazie alla positiva mediazione di Giolitti, alla pubblicazione dei saggi di Falqui senza che Muscetta lasciasse la casa editrice.
88 Ibidem, p. 549.
89 Ibidem, p. 552.
90 Ibidem, p. 557.
91 M. PIRANI, Quando il Pci censurò i poeti russi dell’Einaudi. In: “La Repubblica”, 22 gennaio 2008, p. 1
92 G. TURI, cit., p. 231.
93 Nell’immediato dopoguerra l’Einaudi aveva tre sedi: Torino, Milano e Roma. Verso la fine del 1946 venne chiusa la sede milanese, mentre rimasero in attività (seppure spesso con profonde divergenze editoriali) sia quella torinese che quella romana.
94 L. MANGONI, cit., 578.
95 N. AJELLO, cit.
96 T. MUNARI, cit. p. XI (prefazione di L. Mangoni).
97 S. CESARI, cit., p. 107.
98 L. MANGONI, cit., p. 585.
99 Ibidem, cit. p. 607: «una posizione da “Terza generazione”, si potrebbe dire, servendosi del titolo della rivista di Scassellati e del gruppo di Balbo di qualche tempo dopo».
100 N. AJELLO, cit.
101 Ibidem, cit. p. 605.
102 L. MANGONI, cit., pp. 616-617.
103 T. MUNARI, cit. pp. 241-248. Si tratta del verbale della riunione editoriale del 23/24 maggio 1951, in cui vengono riportate – ad esempio – le seguenti parole riferibili a Giolitti: «Naturalmente l’orientamento del nostro lavoro va precisato in termini non soltanto esclusivi: Giolitti lo indica in una posizione culturale marxista intesa in senso gramsciano. Tale posizione implica innanzi tutto la necessità di un lavoro critico, filologico “positivo”: ai libri genericamente ideologici, teorici, saggistici, saranno in ogni caso da preferire libri di fatti, di analisi, di tecnica. […]», p. 246. In realtà, già nel verbale della seduta editoriale del 12/13 gennaio 1949 si legge: «il 1949 non è il 1945, quando tutti gli editori si misero a stampare libri politici, e nuovi editori sorsero apposta per stampare libri politici. Nel 1945 sembrava che qualsiasi libro politico fosse buono (e invece non era vero, tanto che tutte le collane politiche sono morte o quasi). Nel 1949, invece, nessuno stampa più libri politici, perché oggi per stampare tali libri bisogna distinguere le opere vive da quelle morte, le opere utili per la presente generazione da quelle inutili, e per scegliere opere vive e utili ci vuole cultura (quella cultura che gli altri editori generalmente non hanno)», p. 65.
104 L. MANGONI, cit. p. 628.
105 N. AJELLO, Intellettuali e Pci. 1944 – 1958. Laterza, Roma Bari, 1979, p. 84.
Simone Scala, Renato Solmi a confronto con Th. W. Adorno e M. Horkheimer. Storia intellettuale ed editoriale di una mediazione culturale, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Sassari, Anno Accademico 2011-2012

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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