Il teatro di Reinhardt è spettacolare, fortemente improntato al godimento della vista

Foto della compagnia del Sogno d’una notte di mezza estate, Giardino di Boboli 1933. Si riconoscono Titina Rota (quinta da sinistra) e Max Reinhardt (in seconda fila con lo smoking) (in Vittoria Crespi Morbio, Titina Rota – teatro cinema pittura, Associazione Amici della Scala, Grafiche Step Editrice, Parma, 2015): immagine qui ripresa da Ilaria Ruggiero, Op. cit. infra

Nel 1933 si svolse la prima edizione del Maggio Musicale Fiorentino che, come la Biennale di Venezia, nacque nell’ambito di un disegno di grandi manifestazioni culturali promosse dal fascismo. L’intento del regime, oltre a quello di incrementare il panorama teatrale italiano, era quello di far brillare le capitali d’Italia al pari delle sue vicine europee: Parigi, Londra, Berlino, Vienna. Il fascismo trovò nella cultura una grande alleata nella creazione di un consenso interno ed esterno e le dedicò un ruolo strategico nel suo programma. Il Maggio Musicale, che di lì a pochi anni diventerà uno dei maggiori eventi musicali d’Italia, fin da subito si rivelerà un’occasione per rinnovare il repertorio e le tendenze italiane in ambito musicale. Il momento di “stasi” non riguardava solo il teatro ma riguardava tutto il panorama culturale della penisola e delle maggiori città d’arte. Anche Firenze, agli albori degli anni Trenta, stava attraversando un periodo di torpore culturale. Dalle colonne de «La Nazione», nel 1929, lo scrittore Ardengo Soffici parlava di una «morte culturale di Firenze», sollecitando una reazione da parte della politica locale; la risposta arrivò da Pavolini, il nuovo segretario federale del partito fascista fiorentino, che attuò un fitto programma politico culturale: attraverso l’arte e il turismo si voleva riportare la città agli antichi splendori. In quegli anni si assistette ad un grande fermento intellettuale che vide la nascita di nuove facoltà universitarie, di riviste e di circoli letterari, basti pensare all’attività di Ugo Ojetti e del Gabinetto Vieusseux diretto da Montale; si arrivò a parlare «della persistenza a Firenze di un’altra cultura, di un “Fascismo diverso”, almeno negli anni cosiddetti del grande consenso» <23. Ma questa fu solo una breve parentesi: ogni totalitarismo, assoggettando le arti all’ideologia, finisce per svuotale, ancorandole al solo pensiero dominante; negli anni Trenta la frattura tra l’Europa, dove fiorivano le avanguardie, e l’Italia, cristallizzata sul “neoclassicismo” di regime, era evidente <24. Soprattutto nell’ambito musicale, che è quello che più riguarda il Maggio Fiorentino, la distanza era abissale: mentre nel resto del vecchio continente cadeva il monopolio del sistema tonale e fioccavano sperimentazioni, in Italia si prediligevano grandi rappresentazioni tardoromantiche che conservavano quasi tutti i caratteri dell’Ottocento; dopo alcuni “sprazzi” negli anni Venti come il rumorismo di Luigi Russolo e alcune sperimentazioni futuriste, tutto rientrò nella norma e le avanguardie sparirono o vennero assorbite sotto un unico pensiero egemonico. Il fascismo non apportò nessun rinnovamento stilistico nell’ambito musicale italiano ma si limitò a celebrare e ricelebrare i vari nomi della “tradizione” come Puccini e Mascagni. A testimoniare il clima di restaurazione, nel 1932 alcuni musicisti molto vicini al regime pubblicarono il «manifesto di musicisti italiani per la tradizione dell’arte romantica dell’Ottocento», concepito da Toni e dove tra i vari firmatari spiccavano Respighi, Mulè, Pizzetti, Zandonai, Riccardo Pick-Mangiagalli (futuro direttore del conservatorio di Milano) e Guido Guerrini, direttore del conservatorio di Firenze. Il manifesto, di forte stampo conservatore e xenofobo, mostrava la preoccupazione che il bel repertorio italiano sparisse, inghiottito dalle tendenze moderniste
[…] Nella prima edizione del 1933 ad un inizio “molto italiano” che vide il Nabucco, seguito da Lucrezia Borgia (scene di Sironi), i Puritani (scene di De Chirico), Cenerentola, Vestale e Falstaff, quasi tutti curati dall’attento Salvini, seguì un finale che apriva a una prospettiva internazionale e che vide all’opera i maggiori registi teatrali del momento: Reinhardt e Copeau. I due registi rappresentavano la linea europea ma rispecchiavano due modi di fare teatro opposti: il primo impegnato in uno scenografico allestimento del “Sogno d’una notte di mezza estate” nei magnifici Giardini di Boboli, il secondo in una intima e ascetica messa in scena del Mistero di santa Uliva nel raccolto chiostro quattrocentesco di Santa Croce; come commentò Silvio D’Amico: «se Reinhardt è un orgiastico, Copeau è un mistico; se Reinhardt punta allo spettacolo, Copeau cerca il dramma. La magnifica fede di Reinhardt nel Teatro Immortale è, sanno tutti anche questo, di natura splendidamente umana, quella di Copeau è di natura religiosa» <28.
[…] Il teatro di Reinhardt è spettacolare, fortemente improntato al godimento della vista; D’Amico parla di una «trasposizione visiva del poema» <98. Se quello di Shakespeare era un teatro di parola, quello di Reinhardt è un teatro di visione; se Shakespeare creava un mondo di fantasia servendosi del potere evocativo dei versi e affidandosi all’immaginazione dello spettatore, il regista austriaco si serve dei mezzi della modernità per crearlo. Questo approccio all’opera suscitò alcune polemiche da parte di alcuni critici, fortemente legati al testo, cha accusavano Reinhardt di distogliere l’attenzione del pubblico dalla bellezza dei versi, distraendolo con effetti speciali. Tuttavia queste critiche passarono in secondo piano rispetto all’enorme successo dello spettacolo e D’Amico si premurò di precisare che «l’opera di Reinhardt non è stata quella di un traditore; è stata quella di un illustratore.» <99, un illustratore che aveva creato una sua personalissima versione del “Sogno”. <100 Non era proprio questa la funzione della regia?
Nella stesura il testo subì alcune variazioni: per il “Sogno d’una notte di mezza estate” di Firenze l’opera era stata portata da cinque a due atti. Nella sua riduzione teatrale Reinhardt aveva snellito il testo eliminando alcuni episodi, ad esempio il ritorno di Bottom ad Atene (IV,2), e amplificandone altri, come quello della rappresentazione a corte della commedia di Piramo e Tisbe arricchito da ulteriori momenti comici e farseschi. Il regista taglia anche le lunghe digressioni amorose dei quattro innamorati, «le lungaggini del discorso poetico» <101, dando più risalto all’azione e rendendo lo svolgimento più dinamico. La traduzione italiana, curata da Paola Ojetti, conferma questa tendenza: la prosa risultò «freschissima e toscanissima» <102, D’Amico parla di «svelta prosa italiana, col concorso del Pastonchi e del Montale per le brevi oasi di versi obbligati». <103 Montale dunque si sarebbe occupato di tradurre le parti in versi del dramma anche se non è possibile individuarle con precisione. La partecipazione inedita del poeta accennata da D’amico è confermata da una lettera di ringraziamento di Gatti: “Caro dottor Montale, la signorina Ojetti mi dice che Lei ha terminato il suo lavoro per il Sogno di Shakespeare e io mi affretto a risponderle sentitamente per la sua preziosa collaborazione che ci è stata di grande giovamento. Appena le mie occupazioni me lo permetteranno verrò a salutarla. Frattanto augurandomi di rivederla presto le porgo i miei cordiali saluti”. <104
2.2. I costumi di Titina Rota.
Come abbiamo potuto constatare dalle rappresentazioni precedenti, Reinhardt prestava molta attenzione ai costumi; essi contribuivano a creare l’atmosfera generale dell’opera, a caratterizzare i personaggi e a comunicare un’idea. Reinhardt voleva che le sue fate apparissero leggere ed eteree nei loro costumi, che le creature del bosco sembrassero silvane grazie ai tessuti che le vestivano; gli abiti erano parte integrante del Sogno e dovevano riuscire a veicolare la fantasia dello spettatore. Quale migliore scelta dunque, se non quella di ricorrere all’estro di Titina Rota? I suoi costumi si erano spesso rivelati “nuovi”, fantasiosi e leggeri; inoltre la sua maniacale attenzione per i particolari ben si sposava con la volontà di Reinhardt. È probabile che il regista non conoscesse la giovane costumista italiana ma sicuramente la conosceva bene Salvini, che aveva lavorato con lei a “La Scala”. <105 Il gusto e le esigenze di Reinhardt si incontrarono con il carattere della Rota e questa accoppiata non poté che rivelarsi felice.
Gatti prese accordi con Titina Rota nel febbraio del 1933. Sebbene la costumista fosse solita controllare tutte le fasi della produzione, lo spettacolo di Reinhardt si rivelò da subito molto dispendioso ed ella dovette cedere sul delegare la produzione alla ditta Chiappa.
[…] Si può solo immaginare il tipo di lavoro che Reinhardt fece con la compagnia italiana, sicuramente lo stile di recitazione era molto lontano da quello del teatro del grande attore <123. Reinhardt mal sopportava il protagonismo, l’eccessivo pathos e l’immedesimazione esagerata: «l’attore che si immedesima nella parte fino a dimenticare se stesso, e quindi, anche il pubblico, è un dilettante: colui che si consuma nel dolore offre di sé uno spettacolo imbarazzante, una cosa che nulla ha a che vedere con l’arte.» <124, Non a caso uno dei commenti che vennero fatti riguardava l’armoniosa recitazione d’insieme, caratteristica peculiare delle regie reinhardtiane che Hoffmannsthal chiamava il Zusammenspiel, l’impatto d’insieme dove «nessun attore sopraffà gli altri, le singole prestazioni di ottimo livello compongono impressionisticamente un quadro di grande armonia» <125: “Gli artisti, che Reinhardt ha scelto ed ha diretto con assidua cura in interminabili prove, hanno risposto come sanno rispondere gli attori italiani, con slancio e con intelligenza. Tutti in un armonioso assieme hanno dimostrato qualità e mezzi di prim’ordine”. <126
Il fine ultimo dell’attore è la realizzazione dell’opera d’arte che deve essere sempre unitaria, armoniosa. L’idea di recitazione di Reinhardt è riassunta perfettamente in questo discorso che egli fece ai suoi allievi attori nel 1929: “[…] il più bel regalo del nostro lavoro comune sarebbe la graduale formazione di un gruppo artisticamente unito, musicalmente e intellettualmente armonico che, dopo la conclusione del periodo di studio, divenuto un organismo vivo, un piccolo mondo chiuso in se stesso, seguendo la propria strada fosse in grado di andare in giro per il mondo e annunciare la vera arte del teatro”. <127

Figurino di Titania di Titina Rota (in Vittoria Crespi Morbio, Titina Rota – teatro cinema pittura, Associazione Amici della Scala, Grafiche Step Editrice, Parma, 2015): immagine qui ripresa da Ilaria Ruggiero, Op. cit. infra

[NOTE]
23 Moreno Bucci, Le prime stagioni del «Maggio Fiorentino» (1933-34) – Appunti per una ricerca in Ente Autonomo Teatro Comunale di Firenze – Maggio Musicale Fiorentino, Visualità del Maggio. Bozzetti, figurini e spettacoli 1933-1979, Firenze, De Luca Editore, 1979, p. 17.
24 Anche la Germania visse una situazione simile: il regime nazista fu feroce oppositore delle idee moderniste ed espulse dal paese musicisti del calibro di Arnold Schoenberg e Kurt Weill, entrambi di origine ebraica. La musica atonale venne bollata come «musica degenerata» e bandita; lo stesso discorso fu applicato a tutte le arti. L’arte moderna venne bollata come «arte degenerata» (Entartete Kunst) e, in nome della difesa della classicità, artisti come Grosz, Kollwitz furono allontanati e le loro opere ritirate dai musei assieme a quelle di Picasso, Matisse, Braque, Gauguin, Van Gogh…La censura toccò anche l’architettura: nel 1933 il Bauhaus, trasferitosi da Weimar a Dessau a Berlino, fu costretto a chiudere.
28 Silvio D’Amico, Maggio Fiorentino: «Il Sogno di una notte di mezza estate» messo in scena da Max Reinhardt nel Giardino di Boboli – La «Rappresentazione di Santa Uliva» messa in scena da Jacques Copeau nel Chiostro di Santa Croce, in «Nuova Antologia», fascicolo 1470, 16 giugno 1933.
98 Silvio D’Amico, Shakespeare nel Giardino di Boboli, in «L’Idea Nazionale», 2 giugno 1933.
99 Silvio D’Amico, Maggio Fiorentino: «Il Sogno di una notte di mezza estate» messo in scena da Max Reinhardt nel Giardino di Boboli, in «Nuova Antologia», fascicolo 1470, 16 giugno 1933.
100 Probabilmente D’Amico riprende un saggio scritto da Pirandello nel 1908, Illustratori, attori e traduttori, dove il poeta pone il problema di come sia difficoltoso mettere in scena un testo rispettando l’idea dell’autore drammatico, se non a tratti impossibile. Gli attori, sono “illustratori” e “traduttori” del dramma ma non sempre rispecchiano le aspettative dell’autore drammatico o dell’immaginario del pubblico: «Non il dramma fa le persone, ma queste il dramma; e prima di ogni altro dunque bisogna aver le persone, ma libere. Con esse e in esse nascerà il dramma. Ogni idea, ogni azione, perché appariscano in atto, vive innanzi agli occhi nostri, han bisogno della libera individualità umana, in cui si mostrino come movente affettivo: bisogno, insomma, di caratteri. Ora il carattere sarà tanto più determinato e superiore, quanto meno sarà o si mostrerà soggetto alla intenzione o ai modi dell’autore, alle necessità dello sviluppo del fatto immaginato; quanto meno si mostrerà strumento passivo d’una data azione, e quanto più invece farà vedere in ogni suo atto quasi tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità. Così sono i caratteri creati dallo Shakespeare. E qui gl’illustratori di teatro non possono facilmente trionfare. Perché sono, in fatti, così pochi i degni interpreti dello Shakespeare? Ma perché le sue figure tragiche son così grandiose ed han così fortemente segnati i tratti caratteristici, che solo pochissimi riescono a riempirle di sé, e chi vuol farne un disegno a modo suo, nella vignetta della scena, mostra subito la sua piccolezza, la sua ridicola meschinità. Altro è il dramma, opera d’arte già espressa e vivente nella sua idealità essenziale e caratteristica; altro è la rappresentazione scenica, traduzione o interpretazione di essa, copia più o meno somigliante che vive in una realtà materiale e pur fittizia e illusoria» in Luigi Pirandello, Illustratori, attori e traduttori, in «Nuova Antologia», 16 gennaio 1908.
101 Anna Pinazzi, Reinhardt Max in Ente Autonomo Teatro Comunale di Firenze – Maggio Musicale Fiorentino, Visualità del Maggio […] cit., p. 241.
102 [Anonimo], Stasera seconda rappresentazione del «Sogno d’una notte d’estate» in Boboli, in «Il Nuovo Giornale», 3 giugno 1933.
103 Silvio D’Amico, Shakespeare nel Giardino di Boboli, in «L’Idea Nazionale», 2 giugno 1933.
104 Lettera di Guido Maggiorino Gatti a Eugenio Montale, Firenze, 27 febbraio 1933, velina dattiloscritta, (Archivio del maggio Musicale Fiorentino, busta 37, documento 218).
105 Guido Salvini diventa segretario tecnico de La Scala nel 1931 e, spinto dalla voglia di rinnovamento, decide di dare investire sulla giovane Titina Rota, affidandole la direzione della sartoria del teatro: «Caramba resta a lavorare in teatro ma Salvini, che punta su nuovi nomi per un’immagine scenica più moderna, dà fiducia alla Rota, poco più che trentenne. […] Per Titina sarà una figura paterna.» in Vittoria Crespi Morbio, Titina Rota – Teatro, Cinema, Pittura, Parma, Grafiche Step Editrice, Amici della Scala, 2015, p. 18.
123 «[…] gli spettacoli di Reinhardt erano […] distanti dagli stampi delle regie ottocentesche, che davano risalto soltanto all’attore» in Mara Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi […] cit., p. 118.
124 Cristina Grazioli, L’antitecnologismo espressionista, la scena in funzione dell’attore contenuto in Il teatro di regia. Genesi ed evoluzione (1870-1950) a cura di Umberto Artioli, cit., p. 88.
125 Ivi, p. 85.
126 Giulio Bucciolini, Il trionfale successo del «Sogno d’una notte d’estate» nel magico incanto del Giardino di Boboli, in «Il Nuovo Giornale», 1 giugno 1933.
127 Max Reinhardt, L’educazione dell’attore, in «Neues Wiener Journal», 25 aprile 1929. Da un discorso di Max Reinhardt tenuto in occasione dell’inaugurazione del Seminario di Recitazione e Regia nella Scuola Superiore, al Teatro di Corte di Schönbrunn, 1929, in Mara Fazio, Lo Specchio il gioco e l’estasi, […] cit., p. 180.

Figurino di Oberon di Titina Rota (in Vittoria Crespi Morbio, Titina Rota – teatro cinema pittura, Associazione Amici della Scala, Grafiche Step Editrice, Parma, 2015): immagine qui ripresa da Ilaria Ruggiero, Op. cit. infra

Ilaria Ruggiero, Le regie di Max Reinhardt in Italia nei festival degli anni Trenta: Sogno di una notte di mezza estate ai Giardini di Boboli – Il Mercante di Venezia in Campo San Trovaso, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2016/2017

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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