È morta a 78 anni. Una vita appartata dedicata interamente alla scrittura. Tra le sue opere: «La figlia prodiga» e «Bambine». Addio ad Alice Ceresa, ultima fuggiasca della letteratura. «Ho il profondo e ottuso convincimento che le appartenenze al proprio paese siano di natura essenzialmente linguistica», scriveva Alice Ceresa nel 1994 su Tuttestorie, anticipando le grandi discussioni sull’ identità linguistica. «A me è accaduto di nascere già emigrata», aggiungeva con molta ironia. E sembra di vederla sorridere mentre parla con voce calma e pacata. L’ eterna sigaretta in mano, i capelli corti grigi, la faccia segnata e bellissima nel suo candore e nella sua propensione a sorridere di sé prima che degli altri. La piccola (di statura) e grande (di mente) Alice Ceresa è morta venerdì scorso, all’ età di 78 anni, nella sua casa di campagna a San Oreste, dove viveva con la compagna della sua vita, Barbara, e con il cane Annalivia Plurabell di joyciana memoria. «Sono nata a Basilea, vivo a Roma. Scrivo da sempre» dichiara nella sua laconica autobiografia. «Possiedo sempre un cane Airdale di nome Annalivia Plurabell». Ha scritto pochi libri: La figlia prodiga, pubblicato da Einaudi nel 1967, e ha vinto il Premio Viareggio opera prima, La morte del padre, pubblicato su «Nuovi Argomenti» nel 1979, e Bambine, pubblicato da Einaudi nel ‘ 90. Il suo scrivere era parco e segreto. Chissà quanti fogli ha riempito che non sono mai apparsi davanti agli occhi dei lettori. Non so neanche se distruggesse quel che scriveva o semplicemente riponesse via per tempi migliori. Aveva qualcosa di una formicuzza laboriosa che mette da parte i grani per l’ inverno, ma conosceva anche l’ arte sublime dell’ ozio. Ci sono degli scrittori di grande qualità che temono il rapporto col pubblico, o per troppo amore o per completo disamore. Non si tirano indietro come lettori ed Alice era una di questi, ma come scrittori diffidano di quell’ abbraccio col mercato che può essere mortale. «La mia vita privata si svolgeva in italiano, la mia vita sociale in tedesco» racconta parlando della sua infanzia a Basilea. «Non ricordo traumi e difficoltà apparenti, direi anzi che la cosa mi sembrava normalissima. Le complicazioni cominciarono quando la famigliola si trasferì nelle sue terre d’ origine. Anche le scuole subentrarono in italiano, l’ intera comunità si esprimeva come noi a casa ed io mi trovai con una lingua in più che non solo non serviva a nulla ma aveva pure degli strascichi estremamente fastidiosi: per esempio pronunciavo automaticamente l’ alfabeto in tedesco per il grande sollazzo della classe e la tavola pitagorica mi si affacciava paurosamente alla mente in quella lingua obsoleta davanti ad ogni minimo calcolo, provocandomi confusioni supplementari in una materia già di per sé raccapricciante». Il segreto della prosa di Alice Ceresa credo che consistesse proprio in quel suo felice stare in bilico fra la lingua dell’ intelligenza sperimentale e la lingua della memoria infantile. Con un sotterraneo senso di colpa per il tedesco abbandonato che giaceva nei suoi pensieri come un figliolino ripudiato. «So che tentai in tutti i modi di dimenticare quella seconda lingua che non mi poteva e non mi doveva corrispondere più. Cominciai perfino ad abolirla al punto da rifiutare qualsiasi lettura in tedesco: il che, per il topo di biblioteca che ero, rappresentava un sacrificio immane. Suppongo che ero incappata in un problema di identità», continua burlesca. Non si sapeva mai con Alice fino a che punto scherzasse e fino a che punto dicesse sul serio. Aveva un modo così ingenuo e sardonico di trattare la lingua del pensiero letterario, quasi a dichiarare la sua estraneità nel momento stesso in cui vi immergeva la penna. «Le mie esperienze infantili m’ hanno convinta che una lingua è la persona nella sua interezza che pensa e parla, che sente e formula ed esprime e comunica. Ad ogni lingua, immagino, il suo genere di persone. E ad ogni persona la sua lingua». Laconica, stringata, sempre pronta a fingere di non aver letto tanti libri di filosofia e di linguistica, sempre pronta a cancellare le impronte dei suoi passi nel mondo delle lettere con l’arguzia e l’eleganza di una scrittrice troppo innamorata della scrittura per trattarla con disinvoltura, troppo discreta per esibire i suoi pensieri, troppo modesta per credere che i lettori avessero bisogno di lei. Non so se Alice Ceresa abbia lasciato dei manoscritti inediti. Ne sarei felice. Certamente, comunque, i suoi tre piccoli romanzi sono lì, ad arricchire la storia della letteratura italiana del ‘ 900. Spero che Einaudi li ripubblichi e consiglio a chi ama i libri, di rileggerli.
Dacia Maraini, Addio ad Alice Ceresa, ultima fuggiasca della letteratura, Corriere della Sera, 27 dicembre 2001
La figlia prodiga e altre storie di Alice Ceresa viene presentato oggi alla Casa delle Letterature di Roma da Giosetta Fioroni, Letizia Paolozzi, Patrizia Zappa Mulas, Alfredo Giuliani e Alice Vollenweider. Fa piacere veder comparire in un volume le opere pubblicate in vita da Alice Ceresa, scarse anche perché inesorabili e ispirate da un demone esigente; non dimenticate dai lettori che prediligono l’ essere sfidati e incantati, ma presto uscite di scena. Ora La figlia prodiga e altre storie (La Tartaruga, pagg. 318, euro 14,60) ci riporta nella corrente che decenni fa si chiamò «sperimentalismo» e ci invita a riconoscerne la freschezza. Lo sperimentalismo non fu un movimento, né una teoria estetica. Intorno alla metà del Novecento, perfino un po’ prima che finisse la seconda guerra mondiale, e più chiaramente nei frangenti del lungo e minaccioso dopoguerra, «sperimentare» fu per alcuni scrittori uno stato di necessità, si potrebbe dire un caso di coscienza estetica e storica. Un impulso provocato dalla cognizione spasmodica del reale e delle possibili risorse inesplorate del linguaggio. Ci fu chi riuscì a smontare vecchie forme di scrittura ormai logore, lavorando con rigore e ironia. Ceresa (1923-2001), ticinese vissuta oltre cinquant’ anni a Roma, è forse troppo singolare per prendere a modello, e nondimeno esemplare di una accanita e imperterrita consapevolezza. Dentro il primo romanzo, La figlia prodiga uscito da Einaudi nel 1967, non si celava affatto il composito atteggiamento della scrivente. La narratrice che si rifiutava di raccontare, volendo invece soltanto interpretare la condizione di una persona ipotetica, si fondeva con l’ antropologa che esplorava un fenomeno sociale (la piccola famiglia patriarcale) al solo scopo di identificare al suo interno la falla micidiale costituita da quella persona, appunto la figlia ingrata, ben più nociva del suo antico omologo maschile, in quanto sperperatrice non già di beni materiali, bensì del patrimonio biologico «morale» e culturale della famiglia. Va da sé che la consistenza di tale patrimonio è sarcasticamente irrisoria, sebbene soggettivamente destinata a venire addirittura rimpianta. Non nel romanzo, che dal principio alla fine pretende ironicamente di avvicinare soltanto l’ oggettività, ma nei pensieri manifestati da Ceresa negli ultimi anni. La figlia prodiga è costruito con strenua intensità logica, senza immagini concrete, né dialoghi né trama; è un tessuto di supposizioni, illazioni, evidenze dubbiose accuratamente ragionate e vagliate. E’ un’ avventura della mente. Se non ha trama, nel senso convenzionale, è però inarcato nel senso del tempo. Anzi, ha una fortissima struttura temporale; la prodiga, il «personaggio di cui si parla», è seguita dall’ infanzia all’ età adulta. Se il romanzo non racconta eventi, offre incalzanti procedure d’ indagine, e gelidi referti. Nell’ ultima pagina (ovviamente fuori testo) dell’ edizione ’67 della Figlia prodiga si leggevano alcuni estratti da uno scritto ad hoc dell’ autrice. Molto interessanti per capire il clima «sperimentale» dell’ epoca. E l’ oltranza lucida di Ceresa: «io non penso che il nostro tempo sia un tempo di personaggi di romanzo credibili e probabili: le avventure individuali importanti del nostro tempo, e che lasciano il loro segno sulle persone, sono avventure subdole e profonde che attendono ancora identificazione e sistemazione conoscitiva o, se si preferisce, una diagnosi e una terapia storica. Sono, per ora, avventure vissute ovunque e da chiunque in parte o per intero inconsapevolmente: il che solo ne attenua la micidialità». «Ho tentato di narrare un’ avventura siffatta nella sua parabola vitale, sostituendo non solo a un personaggio credibile un personaggio artificiale, ma anche al tessuto narrativo convenzionale e “probabile” un tessuto astratto, che fosse tuttavia in condizione di svolgere lo stesso ruolo educativo e sensibile solitamente e per altro genere di avventure affidato ad elementi quali la descrizione, il dialogo, la sospensione ecc…»; «… per l’ aspetto linguistico, mi è sembrato divertente mettere la dialettica sociale a disposizione di chi da questa dialettica risulta spietatamente creato». In una lettera a Maria Corti, che pur lodando La figlia prodiga aveva sollevato obiezioni di tipo linguistico-retorico, Ceresa risponde che il suo problema è «scoprire il linguaggio nella lingua»: è domandarsi fino a che punto è possibile recuperare la lingua come linguaggio (ossia come arte, essendo la lingua di per sé un uso determinato, un comportamento mentale, un dato di appartenenza a una comunità). Con implicita intenzione parodistica Ceresa aveva usato la lingua della riflessione, antropo-sociologica, specialmente nei primi capitoli, modellandola come una rivelazione dell’ ovvio: l’infelicità istitutiva del gruppo famigliare. Senza il quale non potrebbe naturalmente esistere la stessa prodiga, di cui sappiamo soltanto che impiega tutte le sue forze per fare sempre il contrario di quanto da lei ci si aspetta. Anche i lettori che avevano ammirato l’ impresa temeraria, inaudita, scrivere un libro severamente parodico e ingannevole dal principio alla fine, si aspettavano di vedere prima o poi una sortita completamente diversa (dopotutto era lei la figlia prodiga); fu un poi di ventitré anni: nel 1990 uscì da Einaudi il secondo romanzo di Ceresa, Bambine. Il tema era lo stesso del precedente: l’ esplorazione di quel fenomeno umano che è il disastro di crescere. Ma il tono e la struttura sono il rovescio dell’ intenzione stilistica che aveva ferocemente guidato l’ estenuante e provocatorio argomentare del primo libro. Bambine è accattivante, di incantevole leggerezza, sottilmente spiritoso e distaccato. Qui Ceresa adopera la scrittura come fosse una macchina da presa, gira brevi sequenze e le monta come fossero figurine ora ferme ora in movimento. Cerca l’ obiettività e governa la «macchina» (la scrittura) in modo di captare sempre ciò che è visibile e udibile; solo raramente si concede uno stringato commento suggerito dai fatti. A metà strada tra l’ uno e l’ altro romanzo, si colloca il mirabile racconto “La morte del padre”, pubblicato dalla rivista Nuovi argomenti nel 1979, naturalmente incluso nel volume della Tartaruga. Lo stile è assai vicino a quello di Bambine, ma il tono è tutt’ altra cosa. C’ è una pacata visionarietà che fa pensare a certi racconti magici e fantasmatici di Kipling e di Henry James. Testo davvero straordinario. Dispiace di trovare nel volume qualche vistoso refuso e una svista fastidiosa, che non saprei a chi attribuire (forse alla Ceresa in fase di revisione del dattiloscritto?), ma il bravo lettore sarà in grado di riparare. Nella prima pagina della Prodiga: c’ è il dubbio che «al mondo non sappia» manchi di un «chi», ed è certo che «una storia di senso» sia invece di «sesso». E in Bambine la madre in visita alla tombina del fratellino delle due sorelline morto precocemente, non sarà «infinocchiata» ma convenientemente «inginocchiata». Quanto ai refusi, mi limito a questi esempi. Segnalo la svista perché un tantino misteriosa e accuratamente concepita. Torniamo alla Prodiga, prima pagina del capitolo 3. Leggiamo un po’ disorientati: «fare per esempio in questo secondo capitolo come se non ve ne fosse stato un primo…». Andiamo a confrontare il passo nell’edizione 1967: «fare per esempio in questo terzo capitolo come se non ve ne fossero stati un primo e un secondo…». Qui tutto fila. Mah.
Alfredo Giuliani, L’atteso ritorno della figlia prodiga, la Repubblica, 19 ottobre 2004
Tuttavia, quella che Borelli vorrebbe vedere come una facile commutazione tra «critica al romanzo» e «critica del romanzo», si rivela in verità un’operazione più problematica. Il «suicidio crudele» a cui si votano opere come “La figlia prodiga” di Alice Ceresa, “L’oblò” di Adriano Spatola, “Hilarotragoedia” di Giorgio Manganelli, ma anche il più noto “Capriccio italiano” di Sanguineti, può anche rappresentare il lascito più prezioso e duraturo della neoavanguardia – la lezione di un’autocritica come prassi sempre negativa e mai conciliata <272 -, tuttavia dichiara anche la natura rigorosamente chiusa delle sue produzioni, «catafratte in una arcigna progettualità ideologica a senso unico, in una talvolta irritante negazione delle forme e del pensiero preesistenti» <273. L’univocità dell’opera d’avanguardia tradisce un’intenzione tutta rivolta sull’atto, che può anche rinunciare al valore artistico per accontentarsi di quello culturale.
[…] A differenza di alcune prove di romanzo neoavanguardistico che citano la prassi letteraria o metaforicamente (si pensi alle figure del sogno e del parto in “Capriccio italiano”) o didascalicamente (le spiegazioni circa la natura menzognera della scrittura in “Hilarotragoedia” di Manganelli e nella “Figlia prodiga” di Ceresa), ma sempre in virtù di una sua natura separata ed eteronoma <435, recuperabile al contesto romanzesco solo ricorrendo al principio goldmanniano dell’«omologia» <436, in “Le armi l’amore” (ma anche in “Ferito a morte” di La Capria e nei contemporanei romanzi di del Buono) la componente metaletteraria ricorre per via dell’origine antropologica della narrazione, in quanto narrazione di sé, procedimento ordinativo e conoscitivo che consente al soggetto di “costruire” la propria identità. C’è, al fondo, il tentativo di svincolare la rappresentazione dell’esperienza individuale dalle tradizionali formule narrative, proprie di quei discorsi ai quali si attribuisce patente di verità documentata (come la storia o le ricostruzioni presunte oggettive), per adottare un modello più in linea con l’idea che l’occhio, senso primario nella percezione della realtà, a differenza del pensiero, non ha capacità affabulatrici <437 e coglie quindi gli elementi della realtà fuori da qualsiasi schema d’intreccio. Un modello che si fonda su una prerogativa prettamente letteraria: aprire strade possibili laddove il principio di realtà vedrebbe solo “sentieri interrotti” <438.
[NOTE]
272 Cfr. M. Borelli, Prose dal dissesto, cit., pp. 245-247.
273 L. Weber, Con onesto amore di degradazione, cit., p. 170. Circa il ruolo di “rottura” svolto dalla nuova avanguardia, Guido Mazzoni, portando il ragionamento alle conseguenze più estreme, arriva ad affermare che «la seconda ondata delle avanguardie novecentesche, quella che si sviluppa a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, non riesce a ripristinare la logica progressiva della storia letteraria che vigeva prima degli anni Trenta»; cfr. G. Mazzoni, Teoria del romanzo, il Mulino, Bologna 2011, p. 356.
435 Secondo una concezione del discorso metaletterario più contigua alla già citata nozione di «piano n+1» formulata da Marina Mizzau.
436 Cfr. L. Goldmann, Per una sociologia del romanzo (1964), Bompiani, Milano 1967.
437 Su questa prerogativa delle modalità conoscitive dello sguardo si fonda il concetto di «occhio selvaggio» che Tadini elaborerà molti anni dopo nell’Occhio della pittura.
438 La formula, citata da Nicola Turi, fa riferimento all’omonima opera heideggeriana (La Nuova Italia, Firenze 1968); cfr. N. Turi, Testo delle mie brame, cit., p. 28.
Giacomo Raccis, L’opera letteraria di Emilio Tadini, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Bergamo in cotutela con Université Paris Ouest Nanterre-La Défense, Anno Accademico 2014-2015
[…] Quello che per altri autori potrebbe essere un limite – la monotematicità – diventa il punto forte di un’autrice che ha saputo coniugarlo ad una ricerca stilistica originale. «Oggi», afferma Pietro De Marchi, poeta e docente di letteratura italiana alle università di Zurigo e Neuchâtel, «ci sono scrittori che, spinti dal mondo impazzito dell’editoria, inseguono il successo adeguandosi alle mode. Alice Ceresa è uno degli esempi più nobili di autore che ha sempre scritto quello che voleva scrivere».
«Ma al di là della questione femminile», continua De Marchi, «ciò che la rende interessante è la sua sperimentazione narrativa e linguistica. Penso soprattutto alla Figlia prodiga, ma anche a Bambine. Sono libri originali. Tu li apri e ti dici “questa è Alice Ceresa”. Forse è l’elogio più alto che si possa fare ad una scrittrice o ad uno scrittore, riconoscerli per quello che scrivono e per come scrivono».
Da Roma alla Svizzera
Pur vivendo a Roma, Alice Ceresa non ha mai perso i contatti con la Svizzera, in particolare con Cama, nei Grigioni, villaggio natale della nonna paterna. Il suo ultimo libro, Bambine, è stato tradotto in tedesco e francese ed ha contribuito a far conoscere l’autrice ai suoi connazionali.
Le sue carte sono depositate alla Bibliteca nazionale di Berna, più precisamente all’Archivio svizzero di letteratura (ASL), dove sono arrivate nel 2003.
«I materiali da inventariare sono complessi», spiega Annetta Ganzoni, curatrice del fondo Ceresa all’ASL, «Lei diceva di sé: “Scrivo da sempre, ho pubblicato poco”. Ci sono molti inediti, testi che ha elaborato fino ad un certo punto e che poi ha lasciato perdere, come il Piccolo dizionario dell’ineguaglianza femminile».
Aprire i cassetti con gli scritti di una vita
Anche se per stessa volontà della Ceresa, i materiali inediti dovranno rimanere tali – almeno in linea di massima – il fatto di poterli consultare e studiare è già un primo passo per contribuire a far conoscere meglio un’autrice dal profilo particolare.
«La Svizzera italiana è piccola» commenta Annetta Ganzoni, «non ci sono molti scrittori. Tra questi, Alice Ceresa è certo una di quelli di spicco e ora la si sta riscoprendo». La riscoperta passa anche per la raccolta di tutto il materiale audiovisivo che la riguarda, un compito al quale si sta dedicando la fondazione Memoriav (Associazione per la salvaguardia della memoria audiovisiva svizzera).
Si tratta di documenti che completeranno in modo ideale il fondo Ceresa, un fondo che raccoglie abbozzi, inediti, fotografie, lettere e altro ancora di una paladina dell’avanguardia in stretto contatto con autori importanti del suo tempo. «Aveva presentato le sue opere a Simone de Beauvoir e a Jean Cocteau. Nel suo carteggio ci sono nomi come Vittorini, Calvino, Morante…», conclude Annetta Ganzoni.
Doris Lucini, Alice Ceresa: tra neoavanguardia e femminismo, swissinfo.ch, 25 gennaio 2005
[…] Il piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile di Alice Ceresa nella nuova versione ampliata, a cura di Tatiana Crivelli e l’Abbecedario della differenza a cura di Laura Fortini e Alessandra Pigliaru, entrambi editi da Nottetempo.
Alice Ceresa è una scrittrice svizzera, nata a Basilea, ma cresciuta a Bellinzona, che ha lavorato al progetto del Dizionario dell’inuguaglianza femminile per tutta la vita. Infatti, il testo, anche nella sua prima edizione del 2007, è postumo. E come poteva essere altrimenti? Ceresa si pose l’obbiettivo di scrivere un vocabolario i cui lemmi concorrono a definire la condizione ontologica delle donne nel mondo patriarcale, che lei riassume così: «lo sgomento di non potersi considerare un essere umano a pieno titolo. È un’esperienza tremenda, che andrebbe analizzata. Non c’è accesso naturale, libero, gioioso alla vita per chi nasce donna».
Alla vastità del contenuto che Ceresa si era prefissata di analizzare per compilare il dizionario si deve aggiungere il suo approccio alla scrittura: difficile, come lei stessa ammette, frutto di un labor limae che non trova mai requie.
Il testo a cura di Crivelli, quindi, raccoglie le voci che Ceresa aveva considerato definitive e ne comprende delle nuove rispetto alla versione del 2007.
Si apre con il lemma Anima, poi Animale-Animali, la differenza tra Anima e Animus, Bellezza… Nessuna delle voci è mai troppo lunga… Appunto, la struttura perfetta per questo momento in cui la mente è sollecitata da preoccupazioni, contatti telefonici, abbrutimento web. E in ogni singola voce a cui la scrittrice svizzera ha dedicato la sua fatica e la sua infinita sagacia si trova, come in ogni dizionario, una verità.
L’Abbecedario della differenza a cura di Laura Fortini e Alessandra Pigliaru non si pone come obbiettivo la definizione del vero, ma nasce dall’ispirazione, dalle conseguenze feconde dell’opera di Alice Ceresa. A partire da un seminario sulla scrittura dell’autrice svizzera organizzato dalla Società Italiana delle Letterate alla Casa Internazionale delle Donne di Roma il 21 marzo 2015, le due curatrici hanno pensato di chiedere a chi fosse intervenuta alla giornata di studio e ad altre interessate una propria stesura dei diversi lemmi contenuti nel dizionario di Ceresa. L’idea di questo «aggiornamento», per un fantastico gioco di rimandi, si ritrova perfettamente descritta nella voce «Cultura» che la scrittrice e drammaturga Gianna Mazzini ha compilato, a partire dal testo di Ceresa, certo, ma anche a partire da sé: «da una parte il significato prevalente: un magazzino coi soffitti alti, dove sono accatastati i saperi già fatti, i prodotti finiti. Dall’altra i significati da affiancarvi: l’energia vitale con la quale sistemare quello che già si sa con quello che si incontra».
Proprio a partire da questa concezione rivoluzionaria dei saperi, l’Abbecedario si presta anch’esso a quella lettura «frammentata e distillata» tipica dell’opera di Ceresa, ottima per questo tempo martellante.
Bibliografia
Alice Ceresa, Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile, a cura di Tatiana Crivelli, Edizioni Nottetempo, pp. 173.
AA.VV., Abbecedario della differenza. Omaggio ad Alice Ceresa, a cura di Laura Fortini e Alessandra Pigliaru, Nottetempo, pp. 198.
Laura Marzi, Distillati letterari in tempi di crisi, Azione, 6 aprile 2020, p. 36
[…] Il romanzo d’esordio vinse il Premio Viareggio Opera prima: quanto questa repentina consacrazione letteraria ha contato per Alice Ceresa? E’ stata anche in qualche modo un’inibizione, oppure la decisione di pubblicare con tale parsimonia è totalmente interna all’esigenza estrema dell’autrice?
Il prestigioso premio fu una tappa importantissima e un’affermazione inattesa nella carriera letteraria della giovane scrittrice. All’epoca era convinta che la “trilogia” non le avrebbe preso più tanto tempo: lo dice lei stessa in un’intervista televisiva con Eros Bellinelli, nell’agosto del 1967. Fu festeggiata tra l’altro da alcuni “padrini” letterari, quali Italo Calvino o Ignazio Silone e il suo lavoro venne da subito riconosciuto e valorizzato dalla critica. Evidentemente Alice Ceresa era esigentissima e dotata di un forte senso dell’autocritica. Se il premio invece sia stato anche un’inibizione non è ancora chiaro, perché mancano ricerche approfondite su questo aspetto. La letteratura era tuttavia per Ceresa un bisogno quasi innato e il Premio Viareggio non cambiò probabilmente il suo modo di fare e di scrivere.
Il sottotitolo de La figlia prodiga è Edificazione e sistemazione di un personaggio; si tratta in effetti di un personaggio femminile, anzi di un capovolgimento voluto della figura evangelica del figliuol prodigo. In che misura Alice Ceresa fu influenzata dalle teorie femministe dell’epoca, da quali autrici in particolare, attraverso quali canali?
Non è ancora possibile, oggi, dire niente di concreto: gli aspetti biografici della vita di questa scrittrice sono ancora da studiare. Si può tuttavia notare almeno che Alice Ceresa, in quanto donna, non si sentiva membro della società a pieno titolo, e questo deve averla molto offeso. Si pensi solo che il padre non volle sostenere finanziariamente i suoi studi: già tale decisione, per una ragazza energica, decisa e interessata come Alice Ceresa, deve essere stata molto umiliante e difficilmente accettabile (si veda la lettera al padre citata nell’articolo di Jacqueline Aerne).
Tutta l’opera di A .Ceresa ruota intorno ad alcuni temi centrali: l’infanzia, la femminilità, la famiglia patriarcale. Un retroterra autobiografico è facilmente immaginabile, sebbene filtrato da una costante ironia, da una sorta di luce gelida e beffarda. E’ possibile ricostruire dei riferimenti autobiografici nelle opere di questa autrice?
Si può facilmente rintracciare un “retroterra autobiografico” all’opera di Alice Ceresa, ma non è questo che le interessava. Anzi, ella stessa ha dichiarato (nell’intervista di Bellinelli per la Televisione Svizzera Italiana) che la propria non è mai stata una scrittura autobiografica. Uno dei motivi per cui ha ripetutamente rielaborato il primo romanzo era proprio il tentativo di trovare una forma di espressione valida in generale (e non per il caso singolo). Nel paratesto della Figlia prodiga si trova la seguente citazione di Alice Ceresa: “Ho tentato di narrare un’avventura individuale nella sua parabola vitale, sostituendo non solo a un personaggio credibile un personaggio artificiale, ma anche al tessuto narrativo convenzionale e “probabile” un testo astratto, che fosse tuttavia in condizione di svolgere lo stesso ruolo educativo e sensibile solitamente e per altro genere di avventure affidato ad elementi quali la descrizione, il dialogo, la sospensione ecc.”. E’ chiaro però che l’esperienza personale della vita di famiglia e dell’essere donna la segnarono profondamente. In una nota retrospettiva sulla sua attività letteraria, la scrittrice costata: “Scrivo da sempre, ho pubblicato poco. L’unico argomento che mi interessa nello scrivere è la questione femminile: ma non ho ancora capito se questo sia un bene o un male, poiché investe anche il mio rapporto contrastato con la letteratura” (Nascere già emigrata, “Tuttestorie”, n° 2, 1994, p. 38). Una cosa è certa, però: Alice Ceresa detestava l’autobiografismo e dal profilo letterario cercava ben altro. Cercava anzi di “tener fuori” o di eliminare gli elementi più personali nei suoi testi (difficile – allo stadio attuale delle ricerche – dire se ci sia riuscita o meno).
Il volume recentemente pubbicato da La Tartaruga raccoglie la quasi integralità della produzione di Alice Ceresa. La scrittrice non ha tuttavia mai smesso di scrivere e all’Archivi Svizzero di Letteratura sono depositati diversi manoscritti. Che cosa ci rivela questo materiale? Esistono testi che sarebbero ulteriormente pubblicabili? La figlia prodiga e Bambine erano i due primi elementi di una “trilogia”, che la scrittrice non ebbe il tempo di terminare: esistono abbozzi o versioni della terza parte di questo trittico romanzesco?
All’inizio della sua carriera Alice Ceresa ha pubblicato anche vari racconti in versione tedesca. Nell’archivio si trovano inoltre dei manoscritti e dattiloscritti di vari testi a cui ha lavorato per anni, che però non ha ritenuto pronti per la pubblicazione. Uno è Il ratto delle Sabine, sviluppato negli anni 1945-1953, probabilmente ispirato al film di Totò dallo stesso titolo, uscito nel 1945. In questi materiali troviamo delle prove teatrali in francese e in italiano, ed anche prose nelle due lingue. Negli anni 60′, dopo la Figlia Prodiga, Alice Ceresa ha lavorato a Stratificazioni e negli anni 70′-90′, ad intervalli irregolari, al Piccolo dizionario dell’ineguaglianza femminile. Quest’opera era incentrata su una serie di “voci di dizionario” che – completate – avrebbero offerto una summa concettuale sulla questione femminile. Singole voci sono state rielaborate e utilizzate in altri testi (Grammatica in Tuttestorie 6/7, 1996/1997, pp. 45-46), ma l’impresa del Piccolo dizionario è stata poi completamente abbandonata. È probabile che a scoraggiare Alice Ceresa sia stata tra l’altro la pubblicazione del Sillabario dell’amico Goffredo Parise, uscito nel 1972 e nel 1982; anche quest’opera, oggi considerata il capolavoro di Parise, parte da voci da dizionario, seppur con stile e intenzioni assai diversi. Pur non essendo stato portato a termine, l’inedito dizionario può essere considerato un’importante tappa stilistica nel lavoro di scrittura che puntava a quel registro scarno, preciso e sintetico che oggi ritroviamo in Bambine (si veda il Facsimile 2004 degli Amici dell’Archivio svizzero di letteratura). Per quanto attiene l’annunciata trilogia, la terza parte non è facile da individuare con certezza tra le sue carte; esistono varie ipotesi al riguardo.
La lingua romanzesca di Alice Ceresa è al contempo estremamente precisa e inattesa (soprattutto sintatticamente): quali le sue caratteristiche e quanto debbono al bi-linguismo dell’autrice (nata a Basilea, formatasi poi in Ticino)? Quanto l’attività di traduttrice ha influenzato uno stile che sembra “dato” una volta per tutte sin dal principio?
Si potrebbe rispondere citando direttamente Alice Ceresa, che sulla questione del suo bilinguismo – e sull’emigrazione in particolare – si è espressa molto chiaramente: “Mi è dunque successo di nascere per così dire già emigrata. Come spesso succede nella Svizzera quadrilingue, la mia famigliola di lingua italiana si era trasferita nella Svizzera tedesca, dove io appunto venni al mondo. Per cui, benché a casa si parlasse la nostra lingua, la vita intorno a noi si svolgeva nell’altra. E così immagino che ho incominciato a capire quanto si diceva, e a parlare, in due lingue contemporaneamente senza nemmeno rendermene conto. I bambini sanno sopportare questo ed altro. La mia vita privata si svolgeva in italiano, la mia vita sociale (giochi, asilo infantile e prime classi elementari) in tedesco. Non ricordo traumi e difficoltà apparenti, direi anzi che la cosa mi sembrava normalissima. Le complicazioni incominciarono quando la famigliola si ritrasferì nella sua terra di origine, anche le scuole subentrarono in italiano, l’intera comunità si esprimeva come noi a casa, e io mi ritrovai con una lingua in più che non solo non serviva a nulla, ma aveva pure degli strascichi estremamente fastidiosi: per esempio pronunciavo automaticamente l’alfabeto in tedesco per il grande sollazzo della classe […]. Il problema linguistico mi si pose dunque in qualche modo all’inverso, ma pur sempre come problema, e senza dubbio mi diede da riflettere, non so con quanta fortuna per la correttezza dei miei ragionamenti; so però che tentai in tutti i modi di dimenticare quella seconda lingua che non mi poteva e non mi doveva corrispondere più. Incominciai perfino ad aborrirla, al punto di rifiutare qualsiasi lettura in tedesco: il che per un topo di biblioteca che ero rappresentava un sacrificio immane. Suppongo che ero incappata in un problema di identità. […] Ho poi imparato altre lingue, ho abitato in svariati paesi, non ricordo estraniamenti di nessun genere se non sempre riferibili alla lingua” (Nascere già emigrata, in: Tuttestorie. Racconti Letture Trame di donne, nr.2 nuova serie, novembre 1994, pp.38-39).
Quali contatti Alice Ceresa mantenne con la Svizzera, i suoi intellettuali, gli scrittori? Ci fu uno scambio, un influsso, una nostalgia?
Alice Ceresa ha certamente mantenuto dei contatti con la Svizzera e con i rappresentanti della Svizzera a Roma. In primo luogo, ogni estate andava in “pellegrinaggio” a Cama, in Mesolcina, per rivedere la famiglia. Inoltre in alcuni scritti ha spiegato la sua visione del paese natio. Era però piuttosto schiva e non viaggiava volentieri. In Svizzera tornò tuttavia anche per motivi letterari: nel 1992 accettatò l’invito alle Giornate Letterarie di Soletta e prese parte al Battello per tradurre, organizzato della Collana CH, nell’edizione del 1998. Dal carteggio possiamo evincere poi una serie di contatti epistolari con singoli autori, dalla psicanalista Aline Valangin, a Gerold Späth (di cui tradusse Commedia, per la Sellerio), da Maja Beutler a “datori di lavoro” come la Pro Helvetia, senza dimenticare i critici letterari, come Alice Vollenweider e Heinz Schafroth (che riceveva volentieri a Roma). Non si trovano note nostalgiche nel lascito: sembra che Alice Ceresa non si sia mai pentita della sua emigrazione.
Intervista ad Annetta Ganzoni e Monika Schüpbach raccolta da Pierre Lepori
© Le Culturactif, mars 2005