“La cordillera delle Ande” rappresenta un capitale di temi e argomenti ideale a coinvolgere le strategie di senso di Erba e Luzi

La revoca all’atto traduttivo di qualsiasi implicazione di metodo: sul filo di questa radicale affermazione del primato dell’empirismo sulla coscienza teorica, al momento di introdurre le rispettive raccolte di traduzioni <1, coincidono i profili critici di Mario Luzi e Luciano Erba. Un ponte gettato tra figure altrimenti distanti, esemplarmente rappresentative di due “linee” poetiche che una convenzione un po’ sommaria contrappone in termini di quasi reciproca esclusione. E tuttavia questo approssimativo “codice” storiografico si rivela in linea di massima attendibile se accertato sul terreno della loro attività di traduttori; al di là infatti della norma che prescrive la traduzione come esperienza antisistematica del linguaggio, le esperienze di Luzi e Erba si presentano all’insegna della difformità già a partire da un punto di vista macrostrutturale, verificabile fin dalla rassegna dei poeti inclusi nei rispettivi volumi. Un dato significativo, già che queste antologie, seppure destituite dagli autori di un disegno d’insieme, s’incaricano nondimeno – attraverso l’amministrazione degli spazi, delle proporzioni e degli esoneri – di riflettere scelte che fanno capo al dominio della critica, se il vaglio dei testi da passare al filtro della transcodificazione (anche se ricondotto a un movente d’ordine occasionale) è un esercizio che implica quasi per statuto un atto interpretativo.
Il coinvolgimento della sfera critica poi è ulteriormente sollecitato dalla necessità di una sovra-selezione nel corpus globale delle proprie versioni, allo scopo di offrire un campione rappresentativo che risulta infine inscrivibile, se non certo in un progetto critico unitario, quantomeno in un’area di tessitura relativamente compatta.
Diviene dunque lecito parlare della formulazione di due potenziali canoni poetici, senza dubbio lacunosi e poco equilibrati, ma costruiti comunque su un principio di coerenza riconducibile ora alla ricorsività di alcune sigle stilistiche, ora alla gravitazione degli autori tradotti intorno a determinate stagioni della storia letteraria, ora a un rapporto di prossimità o distanza dalle strategie tematiche del traduttore.
È ben noto il prevalere dell’accordo simbolista nella strumentazione luziana, che a partire da un precursore come Charles-Augustin de Sainte-Beuve attraversa tutta la grande dorsale della poesia francese che si dirama da Baudelaire e che per sommi capi, dopo il tentativo di abrogazione della realtà di Mallarmé e l’esperienza “en enfer” di Rimbaud, trova un ideale punto d’approdo nell’appello di Valéry a «tenter de vivre».
Di concerto con la sua “Idea simbolista” dunque, Luzi focalizza gran parte delle sue risorse critico-interpretative nel seguire lo sviluppo, secondo Quiriconi, della «pretesa di una centralità dell’universo come esclusivo appannaggio dell’uomo che a se stesso intende uniformare tutto quanto lo circonda e che anche nella caduta inevitabile – vedasi Baudelaire – conserva una sua connotazione di fiera, titanica indignazione e grandezza» <2.
La dissoluzione del sogno simbolista, in parallelo ideale con la propria vicenda espressiva, è seguita poi da Luzi in alcune sue resultanze esemplari, con particolare riguardo ad esperienze novecentesche che mirano all’interrogazione delle più impercettibili espressioni del circostante, fedele alla progressiva messa a fuoco di alcuni fondamenti filosofici del suo dire poetico (come “natura”, “molteplice”, “movimento”, “unità”) destinati a scandire il piano argomentativo della sua stagione matura.
Anche le scelte di Erba possono essere raccordate molto strettamente alle sue più sperimentate trame tematiche, evocate dai domenicali borghi fiamminghi messi in versi da Rodenbach, dallo scorcio milanese ritratto da Frénaud, o ancora da quell’attribuzione di supremi valori ontologici a elementi circoscritti della realtà quale si riscontra nelle prose di Ponge, là dove egli confessa di trovare come più congrua “immagine del mondo” – anziché i grandi congegni filosofici – frammenti trascurabili di esistenza come «un ramo di lillà, un gamberetto nell’acquario naturale di scogli all’estremità del molo del Grau-du-Roi, un asciugamano di spugna della mia stanza da bagno, un buco di serratura con la chiave dentro» <3.
Dove invece queste due raccolte eccezionalmente convergono è nel già citato Frénaud – ma un Frénaud scalato da opposti versanti, metafisico per Luzi, elegiaco per Erba – e in modo più significativo nell’Henri Michaux giovane di “La cordillera de los Andes”.
La poesia, com’è noto, è tratta da “Ecuador”, anomalo diario che ripercorre il périple svolto dal poeta in Sudamerica alla fine degli anni Venti. Un libro che rappresenta un unicum tra gli scritti di Michaux, già che di lì in poi il journal de voyage sarà un genere le cui forme il poeta eluderà in favore di una cosciente disorganicità dei propri appunti, sistematicamente sganciati al momento della pubblicazione da ogni rigore cronologico. Al di là dei dati strutturali e dell’eterogeneità dei generi, dei materiali e dei registri messi in campo da Michaux, la singolarità tematica di un lavoro a suo modo sperimentale come “Ecuador” è data dal fatto di contemplare di continuo la tentazione del proprio contrario, l’invito alla rêverie immobile; per questo il viaggio, nonostante il poeta lo dichiarasse inutile, assolve a una funzione determinante nel suo orizzonte poetico, in quanto costringe a un distaccarsi dalla propria identità al contempo provocando uno sprofondamento in essa: una doppia dinamica in cui coincidono il moto nello spazio e la progressione verso l’interno.
Ed è per questa ragione che «le voyage est la condition qui donne à l’intérieur sa chance de pouvoir toucher des points toujours plus éloignés en soi» <4, e – secondo Piero Bigongiari – il poeta «quanto più avanza nella verità laterale e divisa, tanto più sente di ricostruirne il nucleo centrale» <5.
È allora nello slittamento continuo tra reale e onirico, tra geografia e mitologia (si pensi a partire da questa poesia all’importanza di un sema come «dedans», al contempo coordinata spaziale e categoria dell’interiore), che il libro di Michaux interferisce sia con la riabilitazione luziana della categoria filosofica dell’esistenza in opposizione alle trame orientali e esotiche della metafisica ermetica <6, sia con i viaggi sognati e proibiti che costituiscono il non sempre pacifico radicamento dell’autore milanese al proprio ambiente.
Alla luce di questa trasversalità del tema non può dirsi casuale che la poesia abbia occupato le loro officine in un giro d’anni quasi concomitante, già che Erba mise a punto la sua versione per l’antologia “Poeti stranieri del Novecento tradotti da poeti italiani” edita da Scheiwiller nel 1955, mentre Luzi nel ’58 incluse il suo esercizio nella garzantiana “Poesia straniera del Novecento”, su invito di Attilio Bertolucci.
Scorrendo la cronistoria dei due poeti si scopre allora che l’incontro attivo con il componimento di Michaux si colloca da un lato nel pieno della composizione della raccolta parzialmente riepilogativa del “Male minore”, edita nel 1960, e dall’altra in quella cruciale stagione di rifondazione del proprio discorso poetico cui competono le esperienze di “Primizie del deserto”, “Onore del vero” e “Dal fondo delle campagne”.
In questo contesto, “La cordillera delle Ande” rappresenta un capitale di temi e argomenti ideale a coinvolgere le strategie di senso di Erba e Luzi, ponendosi come bruciante interrogazione relativa, più che al motivo del viaggio, alle determinazioni psicologiche e metageografiche del “qui” e dell’“altrove”.
[NOTE]
1 Cfr. MARIO LUZI, La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983, e LUCIANO ERBA, Dei cristalli naturali e altri versi tradotti (1950-1990), Milano, Guerini, 1990.
2 GIANCARLO QUIRICONI, Luzi traduttore, in Mario Luzi, Atti del Convegno di Studi (Siena, 9-10 maggio 1981), a cura di Achille Serrao, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1983, poi con il titolo Allegati su Luzi, in I miraggi, le tracce: per una storia della poesia italiana contemporanea, Milano, Jaca Book, 1989, p. 175. Nello stesso saggio, tuttavia, Quiriconi accerta molto opportunamente le notevoli discrasie nell’amministrazione luziana della propria attività critica da un lato, e di traduzione dall’altro, ravvisandovi i segni di un diversa “densità” di rapporto con gli autori di riferimento; cfr. allora Ivi, pp. 165-166: «Ad un rapido confronto tra la produzione del critico e quella del traduttore si colgono subito delle differenze di non poco conto. Come mai ad esempio la riflessione critica sente la necessità di cimentarsi più volte con la poesia di Apollinaire mentre tace il traduttore? E, per converso, che senso ha il largo spazio accordato nell’ultimo quaderno di traduzioni a scrittori come Supervielle e Michaux per i quali manca un riscontro preciso in sede critica? […] L’attività di critico dunque dimostrerebbe in Luzi una necessità di conoscenza e di confronto, mentre l’attività di traduttore comporterebbe un’accentuazione di densità del rapporto, quasi un colloquio più ravvicinato, una sorta di assunzione in proprio e di verifica dal di dentro; anche se questa verifica e questa assunzione – è bene dirlo sin d’ora – non avvengono sempre sul piano dell’accettazione assoluta o passiva, ma sviluppano invece al loro stesso interno un contraddittorio ben visibile, una scelta, ancora una volta, quindi, una ben accertabile presenza critica».
3 Cfr. la traduzione di Erba del passo intitolato La forme du monde di Ponge in Dei cristalli naturali cit., pp. 76-79.
4 RAYMOND BELLOUR, Notice, in H. MICHAUX, OEuvres complètes, édition établie par Raymond Bellour avec Ysé Tran, vol. I, Paris, Gallimard, 1998, p. 1082.
5 PIERO BIGONGIARI, Il discorso su Michaux è il discorso di Michaux, in Poesia francese del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1968, p. 139.
6 Sulla stilizzazione non solo delle astratte geografie mitologiche, ma anche dei luoghi dell’esperienza, e sulla loro successiva conversione in categorie e radicamenti dell’esistente nel primo Luzi, cfr., tra gli altri, SILVIO RAMAT, «La conoscenza per ardore o il buio». La poesia di Mario Luzi, in Sentieri poetici del Novecento, a cura di Giuliano Ladolfi, Novara, Interlinea, 2000, pp. 103-113.
Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici. Poeti traduttori a confronto tra terza e quarta generazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2012

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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