La poesia torna al suo autore e alle sue volontà

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Clemente Rebora (1885-1957) pubblica la prima raccolta di poesie, Frammenti lirici, presso le edizioni della “Voce” nel 1913, nello stesso periodo in cui collabora alla rivista. L’opera viene presto recensita positivamente da Giovanni Boine sulla “Riviera Ligure”; tuttavia Rebora non ha fortuna presso i suoi contemporanei.
Come lo stesso Boine, Jahier, Ungaretti, appartiene alla generazione di poeti per i quali la guerra non è vissuta virtualmente – come accadrà nei decenni successivi -, ma combattendo in prima persona in trincea. La trincea crea un trauma (Rebora viene riformato nel 1919 per infermità mentale), di cui si colgono tracce nelle poesie di quegli anni.
I Canti anonimi (Il Convegno di Milano) escono nel 1922; poco dopo l’autore si converte al cattolicesimo ed entra nell’Istituto della Carità, congregazione fondata da Antonio Rosmini. Dopo aver rinnegato tutta la scrittura precedente, Rebora compone soltanto versi dal contenuto religioso (Canti dell’infermità, Scheiwiller 1956). Questo accade proprio quando inizia a ricevere più attenzione critica: da un lato la sua poesia viene recuperata da autori e critici ermetici, come quelli vicini alla rivista “Il Frontespizio”; dall’altro esce il saggio di Contini Elementi di espressionismo linguistico in Rebora <8. Nel 1947 il fratello Piero cura una silloge intitolata Le poesie per Vallecchi; l’edizione di tutte le poesie, Le poesie. 1913-1957, esce per Scheiwiller nel 1961. La rivalutazione di Rebora è uno dei punti di forza della proposta di canone di Pasolini, uno dei pochi a dare un giudizio positivo anche sulle poesie religiose.
Ma le opere più importanti di Rebora, ormai, sono considerate le prime due. È qui che viene espressa una contraddizione tipica degli autori modernisti: quella tra anelito a un significato trascendentale della vita e infruttuosità della ricerca, che si traduce sempre in slanci velleitari.
Consideriamo come esempio il Frammento VI:
Sciorinati giorni dispersi,
Cenci all’aria insaziabile:
Prementi ore senza uscita,
Fanghiglia d’acqua sorgiva:
Torpor d’àttimi lascivi
Fra lo spirito e il senso;
Forsennato voler che a libertà
Si lancia e ricade,
Inseguita locusta tra sterpi;
E superbo disprezzo
E fatica e rimorso e vano intendere:
E rigirìo sul luogo come cane,
Per invilire poi, fuggendo il lezzo,
La verità lontano in pigro scorno;
E ritorno, uguale ritorno
Dell’indifferente vita,
Mentr’echeggia la via
Consueti fragori e nelle corti
S’amplian faccende in conosciute voci,
E bello intorno il mondo, par dileggio
All’inarrivabile gloria
Al piacer che non so,
E immemore di me epico arméggio
Verso conquiste ch’io non griderò.
Oh per l’umano divenir possente
Certezza ineluttabile del vero,
Ordisci, ordisci de’ tuoi fili il panno
Che saldamente nel tessuto è storia
E nel disegno eternamente è Dio:
Ma così, cieco e ignavo,
Tra morte e morte vil fuggente,
Anch’io t’avrò fatto; anch’io.
I giorni della vita dell’autore sono in gran parte «dispersi», abbandonati al vento <9; la ricerca della verità è infruttuosa e produce vergogna (un «pigro scorno»). Il tempo della ricerca dei poeti modernisti è sempre diviso fra istanti di pienezza vitale («àttimi», che in questo caso sono «lascivi») e monotonia della vita ordinaria («Ritorno, uguale ritorno / dell’indifferente vita»). Chi dice io nel testo si trova in una situazione appartata, marginale in mezzo a una folla: qui Rebora riprende una tipica situazione leopardiana, quella ad esempio della Sera del dì di festa. Il mondo che lo circonda è indifferente, quasi ironicamente (e riecheggiano, invece, versi di À celle qui est trop gaie di Baudelaire); come in buona parte delle sue poesie, si tratta di un ambiente cittadino.
Il tentativo di rendersi «immemore di se stesso», dunque la tensione verso l’anonimato, è lo stesso che anima la dedica dei Frammenti lirici «ai primi dieci anni del secolo XX». L’io cerca di oggettivarsi nelle cose, confidando in un loro ordine: qui Rebora si distingue da un altro autore modernista che tocca temi simili, cioè Sbarbaro.
8. Il saggio esce nel 1937 su rivista, quindi viene incluso in Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei (cfr. Contini, 1974a).
9. “Sciorinati” è un verbo solitamente usato per riferirsi ai panni stesi: Rebora lo usa in senso metaforico, come già Dante in Inf. vi, 116 (cfr. Mussini, Giancotti, 2008, pp. 133-41).
Claudia Crocco, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, Carocci, 2015

Clemente Rebora
Poesie, prose e traduzioni
A cura di Adele Dei con la collaborazione di Paolo Maccari
Milano
Mondadori
2015
ISBN: 978-88-0465-504-6
Un Meridiano di Mondadori raccoglie finalmente la produzione del «maestro in ombra», come lo chiamò Pasolini nella recensione dei Canti dell’infermità (in «Il Punto», I, 26, 10 novembre 1956, poi raccolta in Passione e ideologia, Milano, Garzanti,1960), dove Rebora veniva accostato agli altrettanto «marginali» Sbarbaro, Boine, Jahier, Campana e Palazzeschi.
Già dalle prime pagine dell’introduzione, che reca il titolo Sul filo della spada, è chiaro l’intento della curatrice, Adele Dei, di voler ricostruire la figura del Rebora poeta e scrittore attraverso una lettura che intrecci i diversi momenti del percorso esistenziale dell’autore alla produzione letteraria: dallo slancio iniziale ad «agir forte nel mondo» (p. XIV) dei Frammenti lirici alla «parola esplosa», che prende origine dall’esperienza traumatica della guerra in prima linea, dal «tentativo di ricomposizione dopo un naufragio o un cataclisma», di cui sono testimonianza i Canti anonimi, al temporaneo ma lungo abbandono della poesia, per giungere al recupero del verso, «utile come testimonianza di quella verità che gli sembra l’unico scopo degno e urgente» (p. XXXVII).
L’edizione opera in primo luogo una distinzione per generi: poesie, prose e traduzioni costituiscono infatti i tre nuclei del volume, mentre all’interno di ogni singola sezione viene seguito un criterio diacronico, «fondamentale per una corretta interpretazione della poesia reboriana» (p. CXXII), sulla base delle prime edizioni delle opere pubblicate, col preciso intento di rispettare le volontà dell’autore. Tale ordinamento rappresenta una novità significativa nel filone editoriale delle opere di Rebora, che ha visto succedersi edizioni caratterizzate da un criterio «inclusivo» (p. CXXVI) che annulla la distinzione fra il «Rebora poeta» e «Rebora religioso e sacerdote». Dell’edizione Mussini-Scheiwiller del 1988 (Garzanti-Scheiwiller) — rivista nel 1994 per la collana garzantiana «Gli Elefanti» — il presente volume recupera «la bipartizione in due tempi» della produzione letteraria e rifiuta la messa a testo degli interventi correttori voluti dall’autore negli anni Quaranta e Cinquanta. Ma è soprattutto innovativa la scelta di accogliere solo gli scritti destinati dall’autore alla pubblicazione, escludendo sia gran parte dell’ampia produzione, poetica e prosastica, più legata al Rebora religioso (appunti, preghiere e invocazioni), sia i testi occasionali e le Agende «spesso letterariamente irrilevanti» (p. CXXVIII). Pertanto l’edizione tiene conto di una distinzione fondamentale che «non è tanto quella fra un primo e un secondo Rebora, ma fra testi letterariamente concepiti e curati da una parte, e dall’altra testi occasionali, scritti su commissione, o che comunque rispondono ad intenti diversi» (p. CXXII).
Il Meridiano raccoglie dunque tutte le poesie, le prose e le traduzioni pubblicate sotto la supervisione dell’autore fino al 1930, e tutti i testi poetici successivi al 1930, stampati quando l’autore era ancora in vita, che hanno visto centrale l’intervento in un primo momento del fratello Piero Rebora e successivamente di quello che sarà l’«editore della sua ultima produzione», Vanni Scheiwiller. Favorito dalla «pura condiscendenza» dell’autore (Piero Rebora, Clemente Rebora e la sua prima formazione esistenzialista, in «Humanitas», XIV, 2, febbraio 1959, p. 124), il fratello si occupò già per le Poesie uscite nel 1947 presso Vallecchi della scelta dell’editore, della soluzione delle questioni contrattuali e della correzione delle bozze del volume. Ma sarà con il «mirabile giovanissimo editore» Vanni Scheiwiller, artefice del risveglio della «vena poetica» – definita «esaurita» dallo stesso Rebora in una lettera del 1950 –, che «le iniziative editoriali decollano e si moltiplicano» (p. CXXV). Scheiwiller esercitò un ruolo decisivo non solo «nel riavvicinamento di Rebora a una scrittura letterariamente concepita» (Isotta Piazza, Il ritorno alla poesia di Clemente Rebora su progetto dell’editore Vanni Scheiwiller, in «Otto/Novecento», XXXVII, 2, settembre-dicembre 2013, p. 74) ma anche «nel recupero della dignità letteraria a dispetto delle autocensure e degli scrupoli religiosi» (Maria Caterina Paino, Introduzione, in Giuseppe Savoca-Maria Caterina Paino, Concordanza delle poesie di Clemente Rebora, I. Introduzione, Edizione critica, Firenze, Olschki, 2001, p. XCVII), intervenendo sia nella scelta dei testi sia nel loro ordinamento.
Il Meridiano getta finalmente luce su queste divergenze, la cui comprensione è necessaria anche per capire il rapporto dell’autore con la sua produzione e, più in generale con la poesia, alla luce della conversione.
Fissato il 1930 come momento di svolta nel percorso esistenziale di Rebora, che in quell’anno entra nel Collegio Rosmini di Stresa, il nucleo delle poesie è diviso in due parti. La Prima parte comprende le raccolte del Rebora collaboratore della «Voce», amico di Papini, Prezzolini e Boine: i Frammenti lirici (1913), le Poesie e prose liriche 1913-1920, ovvero l’insieme dei testi pubblicati sparsi su rivista e ordinati secondo la data di pubblicazione – non sempre corrispondente a quella della stesura -, che avrebbero dovuto far parte di un libro sulla guerra, progetto destinato a svanire già nel maggio del 1917. Seguono i Canti anonimi (1922), ultima raccolta pubblicata dall’autore prima della conversione, e la poesia Quel che ammonirono i libri santi scritta nel 1926 e pubblicata nel marzo del 1927 sulla rivista «Il Convegno», caratterizzata da «un taglio predicatorio, quasi oracolare» (p. XXXVI). Chiudono la sezione le Poesie postume 1900-1927, «rinvenute in lettere e manoscritti e pubblicate da altri dopo la sua morte» (p. CXXII) e riportate in ordine cronologico secondo la data di stesura ricavata dai manoscritti.
Sono confermate tanto la scelta della riproduzione della prima redazione quanto la distinzione «inoppugnabile […] fino ad oggi non praticata come criterio di base» (p. CXXII) fra testi concepiti per la pubblicazione e testi rifiutati dall’autore. Ed è distinzione che rispecchia fedelmente l’interruzione dell’iter creativo di Rebora, la cui poesia, come scrisse Carlo Bo – dedicandogli il capitolo della Storia della letteratura italiana Garzanti nel 1969 -, «ha continuato a correre sotto il letto del fiume, ma invisibile e soltanto molti anni dopo, quasi alla fine della sua vita, è riapparsa».
La seconda e ultima fase dell’attività poetica di Rebora è documentata nella Seconda parte che riunisce tutte le raccolte pubblicate dopo il 1930, quando, in seguito alla distruzione delle sue carte («E venne il giorno, che in divin furore / la verità di Cristo mi costrinse / a giustiziar e libri e scritti e carte: / oh sì che quello fu un gran bel stracciare!» scriverà nel 1955 nel Curriculum vitae in riferimento al gesto che sancisce il rinnegamento della sua attività precedente) e all’ingresso nell’ordine dei rosminiani di Stresa, l’autore interromperà il lavoro poetico per riprenderlo dopo più di un ventennio. Attraverso un atto di decostruzione del canone poetico istituito da Piero Rebora con Le Poesie del 1947 e da Vanni Scheiwiller con i nuovi Canti dell’infermità del 1957, la curatrice intende qui restituire al poeta solo i componimenti che lui stesso aveva deciso di pubblicare. Sono incluse quindi: le otto Poesie religiose, tratte dal volume Le Poesie, uscito nel 1947 presso Vallecchi e curato dal fratello Piero – e aggiunte alla raccolta del 1947 «come “sanazione” degli antichi sviamenti» (p. CXXIV) -, che intendeva recuperare la produzione poetica precedente alla conversione nonostante la ritrosia del poeta, dubbioso sulla pubblicazione di «un Clemente Rebora morto e seppellito» (p. 1108); il poemetto del 1955 Curriculum vitae, testo che segna il «riaccendersi dell’ispirazione» (Isotta Piazza, Il ritorno alla poesia di Clemente Rebora…, cit., p. 95); i Canti dell’infermità (1956) «l’ultima pubblicazione organizzata o almeno coscientemente approvata dall’autore» (p. XL) e, a seguire, una serie di testi presenti nei nuovi Canti dell’infermità, raccolta curata da Scheiwiller e uscita nel 1957.
Chiudono questa seconda sezione poetica quattro Poesie sparse, di cui tre (Da Gregorio a Gregorio l’Inghilterra, La casa religiosa, Versi per la prima Santa Comunione d’un fanciullo) uscite in «The Calvarian», scritte fra il 1935 e il 1938 e assenti nella raccolta curata dal fratello Piero, e una (La regalità di Nostro Signore Gesù Cristo) pubblicata sul «Bollettino Parrocchiale di San Marco» nell’ottobre del 1946 e inclusa nelle raccolte poetiche solo a partire dall’edizione Mussini-Scheiwiller del 1988.
Il secondo nucleo del volume è costituito dalla variegata sezione delle Prose (1910-1930), che raccoglie un ventennio di produzione e include la tesina su Leopardi e la musica (Per un Leopardi mal noto, 1910); il saggio su Romagnosi uscito nel 1911, ossia un estratto della tesi di laurea discussa l’anno precedente; gli articoli pubblicati su diverse riviste fra cui la «Voce», il saggio La letteratura italiana alla luce della Fede del 1930, ultimo testo pubblicato dall’autore prima della partenza per Stresa, e Dio ci lasciò vedere l’Italia.
L’ultima sezione riporta le traduzioni, per la prima volta raccolte in un unico volume e realizzate dall’autore fra il 1916 e il 1922, la cui scelta «nasceva, […], “dietro la spinta di un bisogno spirituale e per affinità e simpatia con l’opera tradotta”» (p. CXXXI): si tratta di Lazzaro e altre novelle di Leonida Andreev, traduzione che Piero Gobetti definì «un capolavoro» (p. XXV), La felicità domestica di Tolstoj, una poesia di Gogol’ sull’Italia, il racconto dello stesso Gogol’ intitolato Il cappotto, di cui sono presenti due versioni, e la novella di ispirazione religiosa tradotta dall’inglese Colui che ci esaudisce o Gianardana, uscita anonima a Londra nel 1905 ma attribuibile al premio Nobel Tagore Rabindranath, e accompagnata nel volume dalle annotazioni e da un commento.
Oltre che nella scelta dei testi e nel loro ordinamento, il pregio più evidente di questa edizione risiede nell’ampio uso, tanto nella Cronologia – che ripercorre anno per anno le tappe della biografia di Rebora anche attraverso le testimonianze di figure come Giovanni Boine, Eugenio Montale, Renato Serra, Giuseppe Prezzolini – quanto nelle Note e notizie sui testi, poste in fondo al volume, di materiali documentari fino ad oggi inediti (conservati presso l’Archivio reboriano di Stresa e l’Archivio Scheiwiller), materiali che contribuiscono a definire con maggior precisione il percorso letterario compiuto dall’autore su uno sfondo esistenziale non sempre lineare: «per ogni singolo testo si dà conto della vicenda compositiva ed editoriale e si riportano le testimonianze e i più rilevanti riferimenti intertestuali d’autore. […] Il commento, così come la Cronologia, si giova anche di numerose lettere inedite e di cospicui materiali documentari, archivistici e a stampa, fino ad oggi sconosciuti o mai utilizzati» (p. CXXXII). Le Note e notizie sui testi ripercorrono dettagliatamente la genesi dei singoli testi, specificando le varie edizioni delle poesie e le riviste su cui escono le prose e le traduzioni, indicando l’occasione di composizione e gli eventuali riferimenti al testo in lettere e appunti; inoltre, sono illustrate le varianti nei titoli e le redazioni diverse dei testi riportati nelle sezioni.
Nella ricostruzione della storia dei Frammenti lirici, ad esempio, si riportano stralci di lettere che l’autore scriveva a Daria Malaguzzi e ad Angelo Monteverdi, fra i primi interlocutori ai quali Rebora espone il suo progetto di pubblicazione. «Le lettere permettono di seguire quasi passo passo il formarsi della raccolta» (p. 1028) e costituiscono un supporto essenziale per il commento: «Ho instancabilmente riveduto i miei Fr., dei quali sento più e più l’imperfezione che potrebbero non avere; li tormento e mi tormento, […] raramente con frutto. Ne ho elaborati due o tre di nuovi […]; ed ora basta, sul serio. Sento desiderio di altro» (p. 1032). E se i carteggi si rivelano estremamente funzionali per una dettagliata ricostruzione della storia di ogni singola raccolta e di ciascun testo, decisivo è il lavoro di orditura fra i testi eterogenei legati fra loro da fili sottili. È così nei Canti anonimi dove Se Dio cresce è messo in relazione con il frammento Clemente, non fare così!, con il Commento al Gianardana e con alcune lettere (p. 1091). E sempre nelle Note e notizie sui testi è riportata una dettagliata e completa descrizione di tutte le edizioni delle Poesie di Rebora (fisionomia, storia del progetto editoriale ed elenco completo dei testi contenuti in ciascuna raccolta), anche quelle pubblicate dopo la sua morte, contenute nella sezione Le raccolte postume, con l’obiettivo di «chiarire l’intricata storia editoriale» (p. 1999) del corpus poetico reboriano. Se già la ricostruzione delle vicende delle raccolte poetiche successive al 1930 risulta complessa, ulteriori problemi pongono le otto edizioni uscite dopo la morte dell’autore, «che hanno determinato negli anni il formarsi di un corpus testuale complesso e stratificato» (p. 1999). Il criterio inclusivo delle raccolte precedenti, volte a riportare «il massimo dei componimenti comunque utili a comprendere la vicenda poetica e umana di Clemente Rebora» (p. CXXVI), «finiva per falsare la fisionomia del Rebora poeta, nonché per sminuirne la stessa statura spirituale e religiosa» (p. CXXVII). La mancanza di selettività che ha caratterizzato Le Poesie del 1947, i Canti dell’infermità del 1957 e le Poesie curate da Scheiwiller ha comportato inevitabilmente una sovrapposizione del piano letterario e di quello più strettamente religioso, limite ormai superato dal questa nuova edizione.
Un Rebora nuovo quello del Meridiano: la poesia torna al suo autore e alle sue volontà; le prose e le traduzioni sono riunite a testimoniare la ricerca interiore di un autore che sembra aver trovato pace soltanto nella conversione.
Beatrice Pecchiari, Clemente Rebora. Poesie, prose e traduzioni, Oblio, Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, Anno VI, numero 21, Primavera 2016

O pioggia feroce
O pioggia feroce che lavi ai selciati
lordure e menzogne
nell’anime impure,
scarnifichi ad essi le rughe
e ai morti viventi, le rogne!
Quando è sole, il pattume
e le pietre dei corsi
gemme sembrano e piume,
e fra genti e lavoro
scintilla il similoro
di tutti, e s’empiono i vuoti rimorsi;
ma in oscura meraviglia
fra un terror di profezia
tu, per la tenebra nuda
della cruda grondante tua striglia,
rodi chi visse di baratto e scoria:
annaspa egli nella memoria,
o si rimescola agli altri rifiuti,
o va stordito ai rìvoli di spurghi
che tu gli spazzi via.
Ma per noi, fredda amazzone implacata,
o pioggia di scuri e di frecce
tu sei redentrice adorata
del rinnegato bene;
per noi, che sentiamo insolubil mistero
quando la vita si sdraia alle cose,
mentre l’eterno in martirio di prove
ci sembra spontanea purezza del vero,
tu sùsciti come il silenzio
dove natura è più forte,
operi come la morte
dove immortale è il pensiero.
Oh, lava e scarnifica e spazza
chi fra i bari del mondo non volle aver bazza:
sgrumando la lugubre scoria
che c’inviliva alla gente,
snuderai l’oro e la gloria
che non si vendon né recan piacere,
ma splendono d’un balenìo
che irraggia invisibile sugli altri con Dio.
Clemente Rebora

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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