La Torino di Richelmy è quella meno metropolitana e caotica, quella periferica e dei capolinea dei tram, quella dimenticata dei parchi cittadini

Pagina di un diario di Agostino Richelmy. Fonte: Irene Barichello, op. cit. infra

Stando ai dati in mio possesso, Richelmy iniziò la sua attività di giornalista pubblicista sulla terza pagina (che poi per sempre restò la sua) di “Mondo Nuovo”, il «quotidiano del Partito socialista dei lavoratori italiani» che ebbe sede a Torino e fu diretto da Corrado Bonfantini, socialista già comandante partigiano delle brigate “Matteotti” e tra i fondatori della Repubblica dell’Ossola. La vita di questo foglio (la cui consistenza era davvero di poche pagine) fu breve: fondato nel 1947, prima uscita il 1° febbraio, l’ultimo numero stampato fu quello dell’11 luglio 1948.
Richelmy conosceva personalmente la famiglia Bonfantini: era amico, oltre che di Corrado, degli altri due suoi fratelli: il primogenito Mario (classe 1904), anch’egli partigiano e poi insigne francesista, e il più giovane Sergio (classe 1910), allievo di Casorati e poi riconosciuto pittore (ritrasse anche Tino). Ma i contatti e i legami con “Mondo Nuovo” non si limitano a quelli con il direttore e la sua famiglia, due firme – in particolare – di quel quotidiano appartengono alla più stretta cerchia degli affetti del Nostro: Giacomo Noventa ed Enzo Giachino.
Il primo contributo di Richelmy appare proprio nell’emblematico «dì sesto di aprile» 1947, mentre l’ultimo è datato 25 giugno 1948, per un totale di ventiquattro articoli (diciannove nel ’47, cinque nel ’48). Gli argomenti trattati sono svariati, qui come in “Stampa Sera”, ma mi preme far notare che nelle prose, specialmente negli articoli di giornale e ancor più in quelli per “Mondo Nuovo” – quotidiano, come si è visto, di dichiarata appartenenza e militanza politica –, Richelmy dà voce a un lato della sua personalità che nelle poesie non era pressoché mai emerso. Tra i pur numerosi scritti ‘idilliaci’, in cui vengono esaltati il mondo naturale, montanaro e contadino (quei luoghi, come ricordi, che «ciascuno sceglie […] o impensatamente vi giunge, o per sempre vi sta: abitudini, persone, porzione di mondo diventano affetti totali, definizioni»), <779 si miniano infatti anche impensate scene cittadine, piccoli capolavori di umanità, esempi di vita semplice e domestica: un vecchio ciabattino («È il poco tempo che Giors si prende – un quarto d’ora e un quarto di vino sul corso Fiume – per discorrere delle cose di ieri e per ascoltare, se ce ne sono, quelle di oggi. Egli, finito il rattoppo d’una scarpa, si alza dallo sgabello e quasi scantonando dal deschetto esce sul balcone e scende in cortile. Dal cortile a Via della Brocca il selciato sotto le sue ciabatte non varia: sassi piuttosto smussati che tondi, i ciottoli rimasti in quelle vie di Torino non ringiovanite, memorie di greti e ghiaioni, e per lo scalpicciare di Giors unica immaginazione alpina. Sul lungo Po invece c’è il marciapiede: Giors incontra molta gente, non tutta della zona, ma bada soltanto a chi conosce, per lo più donne e madri di famiglia, vecchi operai o pensionati, abitanti notori del borgo, di cui egli attraverso l’esperienza di tante consunte scarpe voltolate dalle sue mani sa vita e miracoli») <780 o una coppia di innamorati agostani («Nondimeno proprio dalla città semivuota e assopita giunge il fruscio di due alacri passi accoppiati. Signorina e giovanotto si scostano dall’asfalto, scendono i gradini fino alla capanna dell’imbarcatoio, nascondono i lunghi abiti consuetudinari e ricompaiono con schizzate magliette coloritissime, quali altrove guizzano a migliaia davanti agli occhi, ma qui e in quest’ora sono uniche. Lui che poco fa era un giovanotto in abito grigio, appena distinguibile per un nome e per un mestiere e lei, ragazza con gonnella e borsetta, fra le innumerevoli che sbocciano ogni anno, sono adesso gli eletti della felicità fugace»). <781
Si moltiplicano altresì i brani in cui l’autore manifesta le sue precise convinzioni politico-sociali. Richelmy, per esempio, pur non avendo preso parte direttamente alla lotta di Liberazione, <782 esprime nei confronti dei partigiani sempre una viva simpatia: li dipinge come giovani forti, coraggiosi e leali, dagli ideali onesti, tanto più appassionati alla vita quanto più seppero rischiarla in nome della libertà. <783 In un articolo del 1° giugno 1947 li sorprende in un vagone a cantare e così può – con la solita facilità e felicità associativa che lo contraddistingue e gli consente di muoversi agilmente da un pensiero e da un’immagine all’altra – ricordare che quel canto di indicibile delicatezza e vigore ha il potere di ridestare la Poesia, che – come una canzone – è fatta di parole e queste, sottolinea, sono il «tentativo di perforare l’arco monotono e limitato del tempo, per vedere o inventare al di là dell’ora meschina il passato e il futuro». <784 Oppure si legga l’articolo del 25 aprile 1947, interamente dedicato a celebrare la Liberazione e a deplorare i torinesi che non coltivano abbastanza, anzi abbandonano, la memoria di quegli anni terribili e splendidi; o ancora quello del 1° febbraio 1948, in cui una ragazza rievoca gli anni del liceo – trasferito in campagna a causa dei bombardamenti – e l’incontro casuale e fatale con un giovane ‘ribelle’ che – attraverso la bocca di lei –
Richelmy descrive così (di nuovo inserendovi una considerazione letteraria): «Di viso tutto roseo per la bellezza giovanile e per l’affanno di quel momento, e con occhi di nerezza limpida e innocente e arcana, come soltanto il mare notturno. Lo so, questa è un’immagine letteraria. Ma si può forse ritrarre qualcosa del mondo o una creatura tale qual’è? Mai, e nessuna sensazione e nessuna impressione. Noi traduciamo sempre, come da Saffo, come da Alcmane». <785
In un’occasione più unica che rara (25 giugno 1948), inoltre, Richelmy ci consegna il suo punto di vista sul ruolo della società, sugli eccessi da evitare anche nell’aggregazione collettiva (sembra chiaro il riferimento alle grandi adunate fasciste e alla teatralità farsesca del Duce, specie ai tempi dell’impero), giustificata e giusta soltanto se formata dai lavoratori: «La vita collettiva, così regolatrice di giustizia e di forza, qualche volta è deturpata da eccessive rappresentazioni esteriori. Forse un malefico o pochi corrotti, trasmettono la epidemia del troppo e della grossezza fastosa, come escrescenze che rendono spurio ogni sentimento primitivamente decoroso e buono. Così vi fu un vituperevole e non cancellabile errore popolare nel lasciarsi condurre dietro le passioni altrui, oltre le mura del proprio lavoro e fuori delle proprie case, congregati alle piazze per sbraitare sotto il nostro verecondo cielo e poi al di là dei nostri orizzonti, per combattere. Ora, solamente quando la società dei lavoratori si riunisce nel cortile d’una fabbrica per un legittimo grido volitivo, si sente l’insopprimibile e giusta voce d’un sodalizio». <786
Accanto a questi articoli, così ancorati alla realtà e alla storia, ne trovano spazio nella terza pagina di “Mondo nuovo” anche altri decisamente ‘fantastici’, ora onirici ora quasi fantascientifici: esemplari la prima delle ‘Altre notizie brevi’, <787 o ‘Prima del football’, <788 ‘Ultimi balli’ <789 o il quasi sovrannaturale ‘Notizia segreta’. <790 Richelmy si scopre così versatile e immaginifico inventore di storie, forse di lettura non sempre agevole, ma comunque saldamente agganciato a elementi reali, siano essi toponomastici, luoghi cittadini come un campo da calcio oppure personaggi dai contorni netti e – almeno apparentemente – concreti, come contadini e lavoratori in genere.
In un solo caso Richelmy, su “Mondo nuovo”, il 13 marzo 1948, si occupa di un autore, ed è un regista, Frank Capra. <791
I rimanenti articoli, tutti abbastanza brevi, parlano di episodi che possono capitare nella città semivuota d’agosto (nei parchi polverosi, nei lungo-Po…), o per le sue vie affollate, oppure sulle colline e montagne circostanti. Ciascun pezzo è animato da personaggi spesso senza nome, ma tipici abitanti dei luoghi descritti. Richelmy li segue (sembra persino pedinarli talvolta, interrogandosi sulla loro vita) con una dedizione e un’attenzione che si spiegano solo con un profondo affetto per l’umanità in ogni sua manifestazione, specie se umile, originale e discreta: madamin, vecchi, bambini, impiegati… Nessuno di loro annoia mai l’occhio e la penna dello scrittore, che si fa annotatore minuto di quanto gli capita di vedere; lo zelo nel registrare i dettagli, la cura e la sapienza artistica (che comunque non altera mai la freschezza della materia) con cui elabora gli appunti certamente presi girovagando per gli stessi posti di cui poi scrive testimoniano una volta di più la sua predilezione per gli ‘ultimi’, non tanto cristianamente intesi, quanto modernamente identificati in una società che, dopo la guerra, stava riassestandosi e crescendo. Rimangono categoricamente fuori, se non per essere fatti segno a fulminee critiche, i grandi borghesi, gli arricchiti rampanti, i nuovi imprenditori alla ribalta. Sembra che Richelmy, rassegnato ormai all’irreversibile male del mondo contadino e alla sua prossima estinzione, si sia preoccupato di rintracciarne gli ‘eredi’ nel covo della tanto odiata modernità, ossia in città. La Torino di Richelmy è quella meno metropolitana e caotica, quella periferica e dei capolinea dei tram, quella dimenticata dei parchi cittadini dove resistono e sopravvivono – coi grandi alberi – quei tipi umani (vecchi su una panchina, ragazzini-calciatori su campi polverosi, impiegatucci, sartine e operai) che sfruttano gli spazi loro lasciati dalle classi sociali più elevate, che in estate migrano nelle località di mare e d’inverno in quelle sciistiche.
Grazie a loro semplici e poveri, Richelmy si riappacifica con lo spazio urbano comprendendo che anche lì – come in campagna, in collina o sull’alpe – queste persone riescono a essere senza pensieri, dunque felici, e ciò per una virtù che è tipicamente e solo loro: la capacità di accontentarsi.
Spesso, poi, nei suoi articoli s’inseriscono, con molta naturalezza, considerazioni letterarie, su che cosa sia letteratura e quale la funzione delle parole; Richelmy le esprime in prima persona o le attribuisce alla voce di alcuni dei personaggi. Questo, anche, incanta della sua prosa, la capacità di riportare interi dialoghi che non suonano mai inventati, ma li si immagina fedelmente riportati da uno scrittore che a lungo, senza fretta, abbia avuto l’interesse e la pazienza di ascoltarli fino in fondo, in discreto silenzio. <792
Capita così che si possa assistere, nella notte, al colloquio d’alta quota fra due amici: «– Aspettiamo il mattino, per muoverci di nuovo, per correre con fresche forze un po’ più in là verso la morte. Come allegra la nostra obbedienza all’eterno!… E ancora è notte. Senti il vento alto, suona da sé. Non musicheggia su le ostanti roccie o fra gli abeti, con nacchere o cennamelle; non sbietta, non scivola. Forse scandisce e ritma i cirri invisibili o trasparenti nella notte eccelsa. Cirri osannanti e inusitati come d’un’ottava estrema. – Non è letteratura? – No, ma consolazione di parole. Tutti, negli asili, nei casolari, nelle città appassionate, tanto nei colloqui quanto nelle fantasie tacite
si consolano così: con le parole». <793
[NOTE]
779 MONDO NUOVO, Alla ricerca di Torino, 17 aprile 1947.
780 MONDO NUOVO, Pochi passi oltre il Po, 14 settembre 1947.
781 MONDO NUOVO, Amore non prende le ferie, 17 agosto 1947.
782 Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Richelmy venne richiamato alle armi come ufficiale e – stando ai ricordi della figlia Iti – il suo ruolo era quello di sorvegliare i prigionieri alleati (soprattutto inglesi) detenuti del campo che i tedeschi avevano allestito a Salussola-Brianco (oggi in provincia di Biella, ma all’epoca in quella di Vercelli). La signora Iti ricorda che lei e la madre dovettero trasferirsi in un albergo nei pressi del campo, che si trovava a una settantina di chilometri da Collegno, e che la madre – la signora Jole Giacherio – andava a trovare il marito in bicicletta, almeno per un saluto e scambiarsi qualche parola. Alla volta dell’8 settembre, però, Richelmy – pur non unendosi ad alcuna formazione partigiana – lascia fuggire gli inglesi, anzi li aiuta tentando di trovar loro qualche abito civile o di fornire almeno quel po’ di denaro necessario per riconquistare i loro reparti d’appartenenza.
783 In un articolo, però di “Stampa Sera” del 6 marzo 1974, Richelmy afferma che i partigiani «morirono perché – sia buona qua la parafrasi delle parole d’una lettera del Cavour – «volevano indipendenza della nazione senza perdere la libertà propria».
784 “Mondo Nuovo”, Alcuni canti, 1 giugno 1947.
785 “Mondo Nuovo”, Lirici greci, 1 febbraio 1948.
786 “Mondo Nuovo”, Purità rara, 25 giugno 1948.
787 “Mondo Nuovo”, 4 dicembre 1947.
788 “Mondo Nuovo”, 12 ottobre 1947.
789 “Mondo Nuovo”, 28 settembre 1947.
790 “Mondo Nuovo”, 14 dicembre 1947.
791 La passione di Richelmy per il grande schermo è antica, lo testimonia in un suo racconto anche Mario Soldati: «Torino, 1919, 1920, 1921. Tino Richelmy e io, guidato da lui in età leggermente maggiore della mia, eravamo assidui, entusiasti, fanatici frequentatori delle comiche di Charlot. Richelmy, tra noi ragazzi della vecchia borghesia torinese, era stato il primo, e uno dei primi in Italia e nel mondo, a codificare intellettualmente il valore poetico, etico, vitale dell’arte di Chaplin. Sotto i portici di via Po, Richelmy teneva in proposito lunghe e particolareggiate lezioni peripatetiche: lezioni alla buona, ma illustrate da abili imitazioni mimiche e acrobatiche. Vennero, poi, con relativa ma travolgente frequenza, i sei grandi film: nel ’21 Il monello, nel ’23 Il pellegrino, nel ’25 La febbre dell’oro, nel ’28 Il circo, nel ’31 Luci della città, nel ’36 Tempi moderni, l’ultima sua vera grande opera. Come li vedevamo? Li vedevamo, nella prima settima, magari negli stessi giorni di programmazione, subito tre, quattro, cinque volte. Tutto ci incantava; tutto ci consolava dalla nequizia dell’epoca, anzi dell’Era; ci rianimava, ci entusiasmava, esaltava. E potevamo, inoltre, ragionarci su a non finire, dedurne sicure condanne di una società, di una politica, di un’estetica che noi aborrivamo ma, sentendoci quasi isolati in questa nostra avversione, non trovavamo forse, senza Chaplin, idee abbastanza chiare e sentimenti abbastanza forti per rifiutare decisamente. Sicché, dopo la seconda guerra mondiale, quando Chaplin venne a Roma al Centro sperimentale, volli vederlo, salire sulla cattedra da cui aveva parlato, stringergli la mano: ed ebbi il coraggio di affrontarlo, trattenendo la commozione infantile delle lacrime e di dirgli che io ero lì per ringraziarlo anche a nome del mio amico Tino Richelmy col quale da ragazzi, a Torino, fin dal lontano 1919, ero solito…», da M. SOLDATI, «Chiniam la fronte al Massimo», in ID., Le sere, cit., pp. 136-137.
792 Nel ricordo 16 del “Quaderno di fili” Richelmy parla dei «dialoghi tolti dal fiato dei viventi e immessi ancora tiepidi e ‘non inodori’ nella narrativa moderna».
793 “Mondo Nuovo”, Retorica con sci, 25 dicembre 1947.
Irene Barichello, Le carte segrete di Agostino Richelmy, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2012

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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