L’analisi dell’impianto metaforico a cui le immagini delle favole alludono è uno dei capisaldi del pensiero di Cristina Campo

La definizione che Ceronetti <1 ha dato di Cristina Campo (1923-1977) racchiude due aspetti maggiori del pensiero della scrittrice. Se da un lato il critico non esita a definirla una «tessitrice», mettendo in evidenza la tendenza della Campo a concepire il mondo come una serie inesausta di analogie da disbrogliare, dall’altro ne definisce anche il milieu d’azione, quell’ « inesprimibile » che è senza alcun dubbio il terreno di ricerca da lei prediletto. Del resto questi due termini sono, per loro stesso statuto, inscindibili : le evocazioni che la presenza fisica del mondo suggerisce alla poetessa rinviano univocamente a una dimensione altra, trascendente, che ha a che vedere con l’inesprimibile mistero a cui il mondo stesso sottende. È precisamente per questa ragione che la fiaba comporta una delle chiavi d’interpretazione privilegiate dell’opera della Campo : il genere favolistico comporta in sé una fitta struttura metaforica che mette il lettore in contatto diretto e non più mediato con l’altrove a cui la scrittura, così come il pensiero, devono condurre. Tuttavia, la fiaba non comporta il punto di partenza della riflessione dell’autrice, ma una sua acquisizione ulteriore, un mezzo volto a decifrare il profondo sostrato mistico che domina la sua scrittura e che ne costituisce il fondamento. Il misticismo di Cristina Campo trova le sue origini nell’opera di Simone Weil con cui la poetessa entrò probabilmente in contatto all’inizio degli anni ‘50 grazie alla mediazione di Luzi, che le offrì La pesanteur et la Grâce <2. Il pensiero weiliano rimarrà un porto sicuro per la poetessa sino alla metà degli anni ‘60, quando la scomparsa di entrambi i genitori (avvenuta tra il ‘64 e il ‘65), spinse la Campo ad avvicinarsi in modo più istituzionale <3 alla religione, e a prendere dunque le distanze dal suo modello originario. Nei pochi anni che ne precedono la “riconversione” (fra il 1960 e il 1963), Cristina Campo pubblica i suoi saggi critici sulla fiaba <4, che costituiscono un vero e proprio ponte per l’interpretazione del suo misticismo e della sua poesia. La poesia di Cristina Campo si fa infatti interprete ulteriore del suo modo di concepire la fiaba, un aspetto che si riflette soprattutto nell’aura mistica ed evocativa del paesaggio, luogo per antonomasia del mistero e della rivelazione. Nelle pagine che seguono vorremmo ritracciare il percorso di Cristina Campo nei suoi tre momenti principali, tentando di dimostrare come tutti e tre siano toccati, benché in modi differenti, dalla sua interpretazione della fiaba e dell’infanzia. In prima istanza, analizzeremo l’impronta mistica della sua opera al fine di metterne in luce le dinamiche interne e l’influenza maggiore di Simone Weil. In secondo luogo vedremo come sarà proprio il misticismo a spingere l’autrice verso la fiaba e a concepirla come uno strumento di conoscenza in virtù della sua struttura figurale e metaforica. Infine, analizzeremo la poesia Diario bizantino, apparsa l’anno della morte dell’autrice, e considerata dalla critica come una sorta di summa del suo pensiero.
[…] Abbiamo ricordato più sopra che Cristina Campo scoprì il pensiero di Simone Weil all’inizio degli anni cinquanta. Questa idea è supportata, fra altri, dall’intensa corrispondenza epistolare che l’autrice intrattenne con Leone Traverso <9 e con Margherita Pieracci Harwell <10, in cui troviamo le sue prime entusiastiche affermazioni sull’opera della filosofa francese. D’altra parte, se osserviamo attentamente alcune fra le teorie maggiori di Cristina Campo non possiamo non ritrovarvi una radice esplicitamente weiliana, al punto che la critica è arrivata a dire che la Campo inizia a « parlare, a pensare e a scrivere <11 » grazie a Simone Weil. Questo vale soprattutto per le sue riflessioni sulla legge di necessità, sul carattere illusorio delle manifestazioni fisiche e per quelle sull’attenzione. Per quanto riguarda la questione della necessità, Simone Weil fa una distinzione netta fra il legame di necessità inerente alla vita umana, la « dure nécessité » che comporta la perdita di ogni dignità, e la « nécessité universelle <12 », ovvero lo forza che ci chiama a Dio e che ci libera del primo tipo di necessità, puramente materialistica. Anche Cristina Campo propone una riflessione essenzialmente binaria attorno all’idea di necessità, che si declina però in modo diverso. Contrariamente alla Weil, che non poteva non attribuire anche un senso sociale e storico <13 alla necessità materialistica, le cui origini vanno ricercate nella lotta contro lo sfruttamento dei più deboli, la nostra poetessa attua una distinzione maggiormente legata alla questione del sapere. Cristina Campo lega infatti più astrattamente l’idea di una necessità “impura”, in quanto insieme dei limiti e delle obbligazioni inerenti alla vita fisica, alla pura realtà in quanto tale. La fuoriuscita da questo tipo di necessità – che conduce, come nella Weil, al pensiero mistico-religioso – si realizza però attraverso due arti letterarie, la fiaba e la poesia.
[…] È nel saggio In medio cœli che Cristina Campo tesse uno dei legami più solidi fra fiaba e gnosi. Il ruolo della fiaba all’interno del processo cognitivo vi è espresso in modo così chiaro da assomigliare al rito, un’altra delle forme gnomiche predilette dall’autrice. Benché l’infanzia contenga naturalmente in sé l’accesso al « regno dei cieli <27 », ovvero alla conoscenza, allo svelamento del mistero intrinseco all’esistere, tale presa di coscienza non può realizzarsi che durante la vecchiaia, attraverso il ritrovamento delle proprie origini <28. La poetessa considera infatti il potere cognitivo della fiaba nei termini di un lungo percorso riflessivo che tocca l’intera vita umana, ragion per cui l’autrice definisce la fiaba stessa come una figura « del viaggio <29 ». Nell’infanzia acquisiamo un sapere per immagini che solo in età adulta potrà essere svelato nei suoi significati interni, e che la Campo esprime con la bellissima formula, d’origine marittima, di «avanzare di ritorno <30». D’altra parte, la lettura critica che la poetessa fa della fiaba compie precisamente questa operazione, quella di uno scioglimento delle immagini che essa contiene allo scopo di rivelarne la gnosi soggiacente. Non è infatti un caso che l’autrice usi la celebre immagine favolistica del tappeto volante come un simbolo del percorso cognitivo cui la fiaba sottende. Il volo del tappeto indica infatti il volo di un oggetto spirituale che è tuttavia annunciato nella fitta trama geroglifica dei disegni contenuti sul tappeto stesso, che la Campo definisce come un « fulcro di contemplazione » animato da una « soggettiva oggettività»: “Su questa soggettiva oggettività la mente che contempla un tappeto può riposare soavemente, come in un bosco animato da una sorgente nascosta. Le sapienti misure, il disegno concentrico, il ristoro balsamico di colori puri, distillati dalla natura e rinfrescati in acque correnti convertono il tappeto in un fulcro di contemplazione […]”. <31.
In altre parole il tappeto spicca metaforicamente il volo nel momento in cui la simbologia dei suoi disegni è trasformata di volta in volta in senso, laddove il senso, nonostante la fissità dell’immagine che lo suggerisce, è sempre nuovo e inedito <32. D’altronde, l’analisi dell’impianto metaforico a cui le immagini delle favole alludono è uno dei capisaldi del pensiero dell’autrice. […]
[NOTE]
1 Guido Ceronetti, Cristina, in Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. XIV.
2 Simone Weill, La pesanteur et la Grâce, Paris, Plon, 1947.
3 A questo proposito rinviamo all’articolo di Cristina Campo Introduzione a Simone Weil, “Attesa di Dio”, ove la poetessa mette in luce alcuni limiti della filosofia weiliana. L’articolo è attualmente pubblicato nel volume Cristina Campo, Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, p. 150-162.
4 Nel 1960 Cristina Campo pubblica la prima e la seconda parte del racconto Parco dei Cervi, L’approdo letterario, IV, n° 9, gennaio-marzo. Nel 1962 pubblica il suo saggio forse più celebre, Fiaba e mistero, presso l’editore Vallecchi, a Firenze, in cui riunisce anche le riflessioni di In medio cœli, apparso lo stesso anno su Paragone, XIII, n° 150, giugno 1962. La maggior parte dei suoi testi sarà poi riunita nel volume Il flauto e il tappeto, Milano, Rusconi, 1971.
9 In una lettera del 7 maggio 1954 la Campo afferma che il « cerchio della ricerca weiliana […] in fondo è la “lettura multipla” di ogni spirito attento », Cristina Campo, Caro Bull. Lettere a Leone Traverso (1953-1967), a cura e con una nota di Margherita Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 2007, p. 14. Nemmeno due anni più tardi, il 10 gennaio 1956, elogiando la finezza interpretativa di Jung vi ritrova uno stampo weiliano : « Jung è un grandissimo pensatore […]. C’è tanto di Simone Weil nei suoi scritti scientifici », ibidem, p. 42. O ancora la lettera del 31 marzo 1960, ove riconosce che « […] tutte le idee essenziali […] dalla politica alla poesia, all’arte, alla vita » possano essere filtrate alla luce del sistema di pensiero della Weil », ibidem, p. 104.
10 Margerita Pieracci Harwell contattò Cristina Campo nel 1952 proprio per poter discutere con lei de La pesanteur et la grâce. Tutta la corrispondenza epistolare fra le due donne è racchiusa nel volume Cristina Campo, Lettere a Mita, Milano, Adelphi, 1999.
11 Laura Boella, Le imperdonabili. Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo, Milano, Mimesis, 2013, p. 170.
12 « La nécessité est ce qu’il y a de plus bas par rapport à l’individu (contrainte, force, une “dure nécessité”) ; la nécessité universelle en délivre […] Agir, non pour un objet, mais par une nécessité. Je ne peux pas faire autrement. Ce n’est pas une action, mais une sorte de passivité. Action non agissante. L’esclave est, en un sens, un modèle (le plus bas… le plus haut… toujours la même loi). La matière aussi. Transporter hors de soi les mobiles de ses actions. Être poussé. Les motifs tout à fait purs (ou les plus vils : toujours la même loi) apparaissent comme extérieurs. », Simone Weil, La pesanteur et la grâce, Paris, Éditions Plon, 2004, p. 55-56.
13 Massimo Cacciari ha parlato a questo proposito di un processo catartico volto a perseguire un ideale estremo di Giustizia : « […] ce processus cathartique se manifestera dans l’effort à réaliser cette idée de Justice parfaite, qui nécessairement vit seulement comme Fin dans la naissance en tant que péché », Massimo Cacciari, Platonisme et gnose – fragment sur Simone Weil, in Simone Weil, Sagesse et grâce violente, édition de Florence de Lussy, Montrouge, Bayard Éditions, 2009, p. 164.
27 « [… S]olo per l’infanzia si accede al regno dei cieli […] », Cristina Campo, In medio cœli, ibidem, p. 13.
28 « Solo quando la sua memoria [celle de l’enfant] si richiuderà come un cerchio sopra i suoi stessi inizi, potrà saperlo. Lo sa il vecchio, invece. Il dialogo si svolge tra un giardino dove si è nudi senza saperlo e un vestibolo dove ci si è denudati », ibidem, p. 15.
29 In questo senso la struttura della fiaba costituisce una vera e propria mise en abîme della sua funzione cognitiva poiché essa stessa, come lo ricorda la Campo, mette in scena un sapere che può essere conosciuto solo facendo ritorno alle proprie origini : « Non a caso la fiaba, questa figura del viaggio, si chiude per lo più come un anello allo stesso punto nel quale era cominciata. Il termine raggiunto, al di là dei sette monti e dei sette mari, è la casa paterna ; il parco familiare o il giardino dove nel frattempo sono cresciute delle erbe. Là il re canuto attende di poter cedere la corona a suo figlio, il principe prodigo », ibidem, p. 16.
30 « Gli antichi navigatori, dopo aver perduto la rotta per traversie di mare, al momento di ritrovarla, spesso dal lato opposto, chiamavano la manovra avanzare di ritorno. […] È certo, in ogni caso, che dallo zenith della vita – si trovi al suo vertice naturale o lo percorra – il cammino non è verso l’oblio, come la legge del tempo lo vorrebbe, anzi verso la memoria. Tutta la conoscenza acquisita prima di toccare quel punto – a mezzo il cielo – sembra rivolgersi allora verso l’infanzia, la casa, la prima terra, verso il mistero delle radici, che di giorno in giorno acquista eloquenza », ibidem, p. 18-19.
31 Cristina Campo, Il flauto e il tappeto, op. cit., p. 65.
32 « Come i vangeli, la fiaba è un ago d’oro, sospeso a un nord oscillante, imponderabile, sempre diversamente inclinato, come l’albero maestro di un vascello su un mare ondoso. […] Nessuna Scrittura offre precetti buoni per sempre, o negherebbe la vita », Cristina Campo, Della fiaba, op. cit., p. 35.
Elena Paroli, «Cristina Campo, una «filatrice d’inesprimibile». Il valore simbolico della fiaba nel processo cognitivo di una mistica del nostro tempo», Italies, 21/2017

Ho scelto di utilizzare due termini specifici per intitolare questa sezione: “fuga” e “difesa”. Li sento particolarmente adeguati a definire i moventi che per primi hanno spinto Cristina Campo verso il mondo della scrittura.
Avevo già affrontato il tema della fuga all’interno del precedente capitolo, laddove argomentavo il grande interesse della Campo per la fiaba, da lei intesa come un mezzo in grado di trasportarla con l’immaginazione verso sconfinati universi lontani. Talmente lontani, e talmente magnifici, da farle dimenticare, fintanto che il libro rimane aperto, la sua desolata condizione, la cui sfortuna maggiore proviene dal disagio di una grave malattia incurabile. La bellezza, da lei conosciuta per la prima volta proprio attraverso la lettura dei favolisti, scaturisce una tale identificazione in lei da spingerla al desiderio di produrre qualcosa che a tale bellezza sia riconducibile.
Non esclude alcun tipo di forma artistica, mai <2, ma sceglie per se stessa la materia intellettuale che sente appartenerle più di ogni altro: ancora una volta, la letteratura.
Questa fuga diventa l’azione più cara agli occhi di Cristina, che la compie quotidianamente recandosi nel suo rifugio immaginario, il solo ad avere il merito di farle dimenticare i patimenti e i disagi ansiosi che da sempre disturbano e torturano il suo animo fragile.
È innegabile che la Campo arrivi ad affezionarsi al benessere offertole dal suo rifugio tanto da esserne assolutamente gelosa e protettiva nei suoi confronti. La solitudine diventa la prerogativa imprescindibile alla creazione di questi momenti di temporaneo svago, e non è certo un caso se Cristina difende per tutta la vita la sua condizione di donna sola. Sta così bene con se stessa che non riesce mai a legarsi fino in fondo sentimentalmente, non ci riesce con Leone Traverso, e non ci riesce neppure con Elémire Zolla molti anni più tardi.
Già ho avuto modo di dilungarmi in merito alla questione inerente l’assoluta sensazione di Cristina di non appartenere a questo mondo; nulla di questa vita terrena riesce mai a soddisfarla appieno.
La sua attenzione è sempre rivolta esclusivamente a un altrove, inizialmente indefinito, che diventa connotato sempre più con il passare degli anni, dopo la conversione religiosa.
È alla dimensione divina che Cristina sente di appartenere davvero, lo sguardo della sua anima rimane per tutta la sua breve esistenza puntato in alto, verso il Cielo.
2 Già è stato sottolineato il fatto che Cristina Campo abbia numerose frequentazioni e rapporti d’amicizia con le più disparate personalità del mondo culturale. Non solo letterati, dunque, ma anche musicisti e pittori, quali Carlo Belli e Ottone Rosai. Fonte: www.cristinacampo.it.
Enrico Casetta, Alla ricerca di uno stile ‘perfetto’. Per una lettura del profilo letterario di Cristina Campo, Tesi di Laurea Magistrale, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2017/2018

Di pochi temi si è occupata in vita Cristina Campo e, fra questi, il destino, il linguaggio, l’attenzione, il simbolo costituiscono i nodi principali di tutti i suoi scritti, da Fiaba e mistero ai ricchi epistolari, in costante dialogo, a volte silente, a volte rivelato, con la sorella dell’anima prediletta per molti anni, Simone Weil.
Dopo aver attraversato il mondo delle fiabe, il linguaggio di Proust e di Manzoni, la Città di Rame e altri racconti orientali, Cristina Campo tira il filo nell’ultima parte della raccolta concentrandosi sul destino, il Fato o la Moira degli antichi “o ciò che i cristiani chiamarono sempre con il suo nome: vocazione” <14. I savi e i poeti per secoli lo hanno assimilato a un tappeto “di meravigliosa complicazione, del quale il tessitore non mostri che il rovescio” <15, unico lato che è dato all’uomo di vedere, tranne che per alcuni, supremi attimi di visione, nei quali riesce a intuire l’altro lato, il diritto nascosto. Per un momento, egli può scorgere “l’inconcepibile disegno” <16 e riconoscere le figure intessute che parlano della sua vita. Sono figure simboliche, che bisogna saper leggere e interpretare, eppure non arbitrarie perché “non c’è allegoria che la realtà non racchiuda” <17. Esse dunque richiedono una lettura su molteplici piani, le cui radici affondano nella realtà che ci circonda.
Ma come pretendere una lettura simbolica da uomini che hanno perduto il proprio destino, dal momento che “il destino non si scinde dal simbolo e non è per nulla strano che l’uomo abbia perduto l’uno nell’atto stesso che rinnegava l’altro” <18? L’uomo dovrebbe essere in grado di leggere innanzi tutto la realtà, ma questo, nota la Campo altrove, sarebbe “chiedergli qualcosa di molto prossimo alla santità”: non dovrebbe distrarsi, anzi, dovrebbe sottrarsi senza riposo all’immaginazione, alle abitudini, all’ipnosi del costume – in una parola, dovrebbe fare attenzione, “in un tempo che sembra perseguire soltanto […] il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione”19.
La prima imputata accusata di aver distolto lo sguardo dell’uomo dal reale è l’immaginazione, intesa negativamente come fuga, disancoramento. Si tratta di un distacco che inevitabilmente finisce per appiattire la realtà, riducendola a un impossibile volto collettivo e indistinto, immagine di “destini vicari” che hanno perso le loro identità singolari. Le svuota, cioè, di significato, riducendole a un insieme confuso di segni che si rimandano fra loro senza indicare alcunché di reale.
Le conseguenze pericolose di un simile meccanismo furono individuate, quarant’anni prima, da Simone Weil, con quella lucidità straordinaria che ne ha fatto una delle voci più autorevoli del Novecento e profeta del nostro tempo.
[NOTE]
14 C. CAMPO, Il flauto e il tappeto, cit., p. 114.
15 Ivi, p. 115.
16 Ibidem.
17 Ibidem.
18 Ivi, p. 116.
Laura Fasani, “Così come l’acqua”. Forza, giustizia e bellezza nell’opera di Simone Weil (con particolare riferimento a Venezia salva), Tesi di Laurea Magistrale, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2016/2017

Le concordanze e le risonanze platoniche si inseriscono coerentemente e a pieno titolo nell’impianto strutturale contraddistintivo dell’opus letterario di Cristina Campo <1, che si presenta denso di significati poetologici e di connotazioni intertestuali, con un carattere centrifugo per gli svariegati spunti teorici, critici, antropologici o sociologici in esso impliciti, intrecciati fra loro in maniera insolubile. In questo senso, va constatata la molteplicità di rimandi filosofeggianti che trovano spazio nello stile campiano. Essa si deduce da incisivi passi prosastici, su cui si concentrerà maggiormente la presente analisi per una più spiccata evidenziazione dovuta alla discorsività del registro, ma lo stesso vale per i pregnanti tratti lirici, sempre contenenti preannunci o palesi manifestazioni di una tale propensione. La filosoficità intrinseca può dunque rappresentare la cifra ideativa della complessiva produzione della Campo, architettata con raffinatezza e concentrazione nell’espressione come basilari qualità formali, che ebbe un notevole impatto nel contesto del Novecento letterario italiano, e la cui valorizzazione e risonanza comparatistica continua a intensificarsi fino ai giorni nostri.
A mo’ di introduzione, va altresì rilevato che la tendenza a filosofare si identifica qui a una persistente quête etica ravvisabile nell’esposizione, che si interseca con la dimensione estetica da un punto di vista compositivo e viene sempre focalizzata con i mezzi della letteratura.
Ed è proprio il logos filosofico di ascendenza platonica a essere particolarmente vicino all’universo letterario dell’autrice, permeando di sé quella realtà poetica, per il suo idealismo di stampo metafisico come fondamento ontologico condiviso. Come verrà dimostrato di seguito nel presente lavoro, la scrittura campiana, per quel che ne concerne la genesi, i principali contenuti conoscitivi e il potenziale interpretativo, contiene infatti una cospicua presenza di richiami il cui valore speculativo e gnoseologico-euristico è riconducibile alla filosofia platonica o a qualche fonte a essa attinente. In tale luce, nella ripresa di determinati aspetti della dottrina platonica si potrà altresì evidenziare il rapporto della Campo con la tradizione, collocando la sua poetica entro un quadro più ampio. L’attenzione verrà inoltre concentrata sul fatto che la possibilità di accostamento del mondo letterario campiano al canone istituito da Platone non dipende unicamente dalla matrice concettuale riguardo alla ricerca comune di idealità. Ma la portata di questo confronto proficuo si estende anche al livello espressivo, poiché la Campo si esprime attraverso un metaforeggiare analogo a quello platonico.
Oltreché per le corrispondenze interiori tra la rappresentazione letteraria campiana e i ragionamenti originariamente fatti da Platone, il motivo di convergenza consistente negli elementi sopraelencati è da cercare nelle ulteriori simmetrie riscontrabili nel sistema ideativo di quei pensatori le cui concezioni portanti costituiscono l’orizzonte entro il quale matura e si affina la coscienza critica della scrittrice. L’intento perciò sarà anche quello di seguire alcuni filoni riguardanti le similitudini sostanziali che sono dovute al dialogo realizzato con una costellazione degli autori affini alla scrittrice e che rendono complementari le rispettive esperienze poetico-filosofiche: si può così, tra l’altro, introdurre la tematica relativa ai concetti platonici che sono derivati dagli schemi precedentemente impiegati da Simone Weil, oppure le reminiscenze echeggianti nozioni teorizzate da Andrea Emo e María Zambrano.
In questo contesto va dunque primariamente osservato che le premesse estetiche nelle creazioni letterarie della Campo si delineano sulla base di certi principi filosofici, non di rado per estensione mediati dall’influsso di quei pensatori nel cui corpus si riscontra un’affinità di pensiero con le sue idee. Tali principi non evolvono però nell’opera campiana in un elaborato sistema speculativo, ma è importante il ruolo del simbolo. Secondo la convinzione dell’autrice, nella caratteristica rappresentazione obliqua un concetto simbolico può diventare un segno e indicare in via indiretta, lateralmente, un determinato paradigma filosofico che è, a sua volta, in questa maniera reso parte della sua espressione letteraria. La seguente considerazione della Campo indirizzata a Margherita Pieracci Harwell, che il lettore conosce dall’epistolario Lettere a Mita, viene a inserirsi nella sua riflessione intorno a questo modo di intendere il simbolismo: «Ci occorre sempre un simbolo concreto per afferrare un’idea come si afferra un pezzo di pane – ma non è mai il simbolo che potemmo supporre, quello calzante e perfetto – ma un’altra cosa che indica obliquamente, a una cert’ora propizia» <2. Vale a dire che il rielaborato citazionismo si pone da presupposto del metodo letterario e critico che le è proprio, e che in tal senso include altre cognizioni e sperimentazioni tra le quali figurano quelle riprese immediatamente dall’ambito filosofico. Possiede inoltre questa valenza un’osservazione campiana concepita sotto forma di consiglio scrittoriale tratta dalla stessa corrispondenza: «stenda un elenco di appunti (citazioni) e il discorso che li deve legare crescerà in mezzo da solo, come un rampicante fra i sassi» <3. Questi elementi si possono rinvenire in svariati contesti, sia strettamente letterari sia epistolari, poiché la scrittrice continua ad argomentare a tratti in chiave filosofica nei suoi carteggi, in cui elabora una serie di motivi che sono compresenti nel registro narrativo oppure lirico, e che mantengono lo stesso statuto ontologico. Ciò significa che nelle sue lettere lei trova le nuove connessioni per concetti noti, scoprendo le relazioni inedite, oppure prosegue a condensare le sue idee, conservando sempre la spontaneità nell’atteggiamento dovuta a quello squisito tono conversativo di cui vi dà la miglior prova. Nel considerare le missive campiane nei loro risvolti letterari, si può così notare che la parola si fa filosofica o poeticizzata per la presenza di una componente autoriflessiva, nonché per un sapiente dosaggio di narrazioni realizzate a metà strada tra la sfera interiore e quella estrinseca, storico-sociale, ovvero per una commistione tra l’aspetto veritiero e contemplativo. Si può allora affermare che la stratificazione multipla, in cui la componente filosofica si pone come uno degli elementi conduttori, tiene annodati e non di rado indissolubilmente legati i fili di una scrittura che si è fatta di volta in volta saggistica, poetica, epistolare e critica, e come si potrà constatare, sempre pervasa dalla curiosità per le voci altrui.
[NOTE]
1 A costituire il fondamento del versatile itinerario intellettuale di Cristina Campo (nome anagrafico di Vittoria Guerrini; Bologna, 1923 – Roma, 1977), saggista, poetessa, epistolografa e traduttrice, sono i suoi tre volumi cardine (la raccolta di versi Passo d’addio del 1956 che segna l’esordio lirico, alla quale seguono i libri di prosa: Fiaba e mistero, 1962; Il flauto e il tappeto, 1971). Il suo repertorio pubblicato si andrà successivamente allargando, soprattutto a partire dagli anni Novanta, quando cominciano ad aggiungersi anche le versioni tradotte delle edizioni principali, e questo persisterà nei decenni seguenti.
2 C. Campo, Lettere a Mita, a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano 1999, p. 28.
3 Ivi, p. 44.
Višnja Bandalo, Concetti platonici nell’espressione letteraria di Cristina Campo in “Platone nel pensiero moderno e contemporaneo”, vol. XIV, a cura di Andrea Muni, Limina Mentis Editore, Villasanta, 2018

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.