L’arretratezza di Riviere non starebbe tanto nel suo contenuto, quanto in alcune soluzioni espressive

  1. La chiusa contraddittoria di Ossi di seppia
    I mutamenti di assetto che hanno riguardato con discontinua incisività la struttura di Ossi di seppia, dalla sua prima edizione del ’25 fino a quella definitiva de L’opera in versi, non hanno mai rimosso Riviere dalla nobile posizione di chiusura del volume; una posizione oltretutto resa ancor più visibile dalla sezione a sé in cui il componimento, da solo, trova collocazione.
    Il testo com’è noto è uno dei più antichi della raccolta, risalendo, come avverte lo stesso Montale in una Nota inserita nell’edizione Ribet, addirittura al 1920, anno in cui di fatto erano state composte – limitando il campione alle liriche poi accolte nel libro – solo Corno inglese e la prima versione di Meriggiare pallido e assorto.
    La sua prima pubblicazione nel ’22 su «Primo Tempo» insieme ad Accordi riconduce inoltre il testo, per questioni sia cronologiche che poetiche, all’area del proto-Montale, quello precedente Ossi di seppia: e tuttavia né l’afflato simbolista, né la datazione alta hanno impedito a Montale di concedere proprio a Riviere le parole di congedo dalla raccolta.
    Ciò che ha spiazzato maggiormente gli interpreti montaliani, ancor più dell’infrazione cronologica (comune ad altre liriche: si pensi ad esempio ad Altri versi, aggiunti nel ’26 e immessi nel finale della prima sezione), è la profonda inversione di rotta rappresentata da Riviere rispetto ai testi precedenti, e in modo particolare a quelli conclusivi di Meriggi ed ombre. Così se già Arsenio era condannato ad una progressiva e inarrestabile discesa verso «una sola | ghiacciata moltitudine di morti» [Arsenio, vv. 57-58], in Crisalide la prospettiva del miracolo è per l’ennesima volta, ma in una forma ben più palese e diretta, rimossa e accantonata:
    […] anche la vostra
    rinascita è uno sterile segreto,
    un prodigio fallito come tutti
    quelli che ci fioriscono d’accanto
    .
    [Crisalide, vv. 38-41]
    E poco più avanti, a fugare ogni dubbio:
    e non vedremo, sorgere per via
    la libertà, il miracolo,
    il fatto che non era necessario!

    [Crisalide, vv. 65-67]
    Sicché l’ennesima esortazione ad affrontare «senza viltà» [Incontro, v. 54] la discesa, come informa Incontro, finisce per concludere una parabola che si estende sì per tutta la raccolta, ma che trova proprio in Meriggi e ombre la soluzione narrativa più serrata e omogenea.
    Riviere si oppone frontalmente a quanto asserito in Incontro, in Meriggi e ombre e in gran parte del volume (almeno a partire dalle Poesie per Camillo Sbarbaro): l’invocazione finale che l’io rivolge alle «riviere», ossia al mare e alla natura in genere, affinché queste permettano una rinascita, un «rifiorire!» [Riviere, v. 66] e una fusione panica con il tutto, sembra non trovare alcuna forma di conciliazione con quanto descritto prima.
    I conseguenti problemi esegetici sollevati da tale contraddizione sono stati sostanzialmente risolti secondo tre direttive. Da una parte ci sono coloro che nel ripercorrere l’intero iter di Ossi di seppia di fatto tacciono su Riviere, delegando in questo modo ad Incontro la funzione di explicit. Volta a rimuovere l’attuale lirica conclusiva è anche quella schiera di critici che in modi diversi ha delegittimato il giovanile componimento, definendolo di volta in volta «un testo “minore”, che non è facile interpretare nella posizione» <1, una «lirica apparsa poi tematicamente inadeguata», un «componimento immaturo », «un regresso» <2, o ancora un «testo sin troppo squillante» <3. Diversa nel procedimento, ma identica nelle conclusioni, è la lettura di chi invece ha tentato di ricondurre Riviere ad una continuità con i testi precedenti, attenuando la matrice simbolista della lirica, a vantaggio di altri elementi poeticamente più vicini a quelli rinvenibili in Meriggi e ombre <4.
    In ogni caso, in tutte e tre le posizioni assunte il messaggio montaliano degli Ossi viene schiacciato unicamente sull’asse Arsenio-Incontro (sulla cui centralità non occorre spendere parole, data la sua evidenza), a danno di Riviere, che sembra non poter trovare alcuna cittadinanza all’interno del sistema elaborato nella raccolta.
    Hanno influito su questa rimozione anche due note dichiarazioni di Montale, che vale la pena riprendere, per tentarne una più piena comprensione. Nel settembre del ’27, mentre preparava la nuova edizione di Ossi di seppia e meditava sull’inserimento di sei nuove liriche, Montale scriveva a Sergio Solmi: “vorrei chiederti un enorme favore. Di rileggere gli Ossi nell’ordine della lista-indice acclusa, che è l’indice che proporrei a Gromo per la riedizione, intercalandovi le liriche indicate che tu conosci e possiedi (credo). Dimmi che te ne pare subito subito. (Naturalmente qualche brutto verso qua e là è stato rabberciato, il nome di Arletta sparisce etc.). L’“intercalamento” (che parola!) mi pare possibile ma ne risulta vieppiù a Riviere il carattere di trombonata giovanile, con quelle camelie pallide, quelle voci d’oro ecc. ecc.!! Scrivimi subito il tuo parere” <5.
    Ancor più note sono le affermazioni montaliane su Riviere contenute nella celebre Intervista immaginaria: “[Ossi di seppia] era un libro difficile a situarsi. Conteneva poesie che uscivano fuori delle intenzioni che ho descritto, e liriche (come Riviere) che costituivano una sintesi e una guarigione troppo prematura ed erano seguite da una ricaduta successiva o da una disintegrazione (Mediterraneo)”. <6.
    Certamente le espressioni «trombonata giovanile» e «guarigione troppo prematura» (con l’accento posto principalmente sull’aggettivo) hanno offerto un punto d’appoggio decisivo alle letture volte a ridimensionare il testo, al fine di espungerlo, nei fatti, dalla stessa raccolta. E certamente nessun commento riuscirà mai ad esporsi, se non ricorrendo a personali quanto opinabili gusti estetici, in un giudizio di valore pari a quello che può essere espresso per altri testi, quali ad esempio Arsenio, Incontro o Crisalide. Tuttavia le stesse parole di Montale se prese nel suo insieme offrono anche altre e non così lineari indicazioni.
    Si potrebbe già dire che nella lettera a Solmi Riviere risulta una «trombonata giovanile» soprattutto perché anteceduta da componimenti più maturi ed elaborati quali Arsenio, Incontro, I morti e Delta, redatti com’è noto tra il ’26 e il ’27, e inseriti in raccolta nel ’28. Inoltre, ed è senz’altro un dato più rilevante, l’arretratezza di Riviere non starebbe tanto nel suo contenuto, quanto in alcune soluzioni espressive che possono essere avvertite ingenue e un po’ datate: soluzioni però che Montale decide comunque di mantenere sia nel ’28, che nelle edizioni successive, in cui si registrano unicamente varianti di interpunzione (di maggior peso sono invece le divergenze tra la versione di «Primo Tempo» e il testo apparso nella princeps di Ossi di seppia). Sicché la sua permanenza nella raccolta non è affatto messa in discussione, né la sua posizione può subire modifiche; anzi proprio in apertura del volume Ribet Montale rimarca ulteriormente il valore di congedo di Riviere, sottolineando come la sua collocazione finale sia stata confermata a fronte della datazione alta del testo: «Riviere, che s’è voluto lasciare in fondo al volume come nella Ia edizione (Gobetti 1925) è del marzo 1920» <7.
    Il motivo dell’ostinata e perpetrata permanenza in chiusura di libro è espresso nitidamente nell’Intervista immaginaria, in cui Riviere è definita una «sintesi» o, per sinonimia, una «guarigione». Nello scritto del ’46 Montale incrocia, percorrendoli contemporaneamente, l’ordine cronologico e quello strutturale del libro. Sicché, agendo sul primo, Riviere non può che risultare «prematura», visto che poi viene smentita dalla «ricaduta» di Mediterraneo. E però a livello di intreccio Riviere non perde la sua funzione di «sintesi», ma anzi la irrobustisce in maniera radicale con la sua collocazione terminale; una «sintesi» oltretutto che a questo punto finisce per inglobare anche Mediterraneo, e tutti i testi della raccolta: sia quelli che mostrano come «per i più non sia salvezza» [Casa sul mare, v. 24], che i componimenti più sinceramente fiduciosi nella possibilità di un riscatto che metta di fronte a «qualche disturbata Divinità» [I limoni, v. 36]. Non si tratta pertanto di contrapporre Riviere a ciò che precede, né di tentare di ricondurre il testo alle istanze espresse in Arsenio. Riviere piuttosto richiede di essere letto – o almeno così suggerisce Montale – come un luogo di convivenza tra aspirazione al miracolo e consapevolezza dell’assoluta immanenza della vita umana, in cui la prima prospettiva non si dà in alternativa alla seconda, ma nonostante la drammatica realtà della seconda. È in questo senso che Riviere può rappresentare un compromesso, una «guarigione», o, per usare la più precisa espressione montaliana, una «sintesi».
  2. Lo Streben montaliano tra panismo e accettazione del contingente
    L’afflato panico che caratterizza l’intera costruzione di Riviere è denunciato sin dalla prima strofe: è qui infatti che, adottando un presente indicativo che ha valore astorico, l’io mostra come «pochi stocchi d’erbaspada» o «due camelie pallide» «e un eucalipto biondo» [Riviere, vv. 2, 5, 7] siano sufficienti ad esercitare un’irresistibile forza attrattiva, capace di imbrigliare «in un attimo | [con] invisibili fili» il soggetto «in una ragna» [Riviere, vv. 10-11, 12]. L’atmosfera solare e lucente in genere, costruita da un non originalissimo uso di sostantivi e aggettivi («luce», «girasoli», a loro volta rinforzati da «pallide», «biondo», ma anche dai «giardini deserti» per la troppa calura, nonché dall’ambientazione marina), avvalora la sensazione di imminente rivelazione, tanto più perché richiama alla mente del lettore di Ossi di seppia il «meriggio» più volte rievocato nella raccolta.
    E tuttavia la tensione verso la natura, o più correttamente il richiamo della natura che l’io avverte, non conduce alla fusione tra i due elementi. Tutt’al più può essere rappresentato il carattere pulsante e della natura e del soggetto in essa allocato («un eguale | fremer di vite» [Riviere, vv. 23-24]), e il protendere di quest’ultimo verso uno scioglimento liberatorio nel più grande insieme naturale.
    Collaborano a questa rappresentazione non solo gli elementi più prettamente contenutistici, ma anche la catena di sibilanti e di dentali sorde (spesso affiancate e per lo più rinfrancate da doppie o da occlusive), che riproduce metaforicamente, da un punto di vista fonetico, una sorta di sforzo, di tensione, di energia che fa fatica a liberarsi («baSTano», «STocchi», «erbaSPada», «deSerTi», «euCaliPTo», «SFrusci», «PaZZi», «aTTimo», «aSSerPano»).
    È a partire dalla seconda strofe che il testo conosce una biforcazione temporale, di assoluta radicalità, dando vita a due piani del discorso, del tutto speculari alla dicotomia “uomo mortale”/“natura divina” appena esposta.
    Da un lato prende posto un passato mitico, «in cui [per dirla con Lukács] è il firmamento a costituire la mappa delle vie praticabili […] Tutto è nuovo […] e insieme familiare, avventuroso eppure noto. Il mondo è ampio e tuttavia come la propria casa»; insomma il tempo, continua ancora Lukács, in cui «il mondo e l’io […] mai risultano estranei» <8, e in cui il senso è immanente, la «patria sognata » è finalmente abitata, e «il piccino fermento | del mio cuore non era che un momento del tuo» [Antico, sono ubriacato, vv. 13-15]. In maniera evidente, in Riviere, a questo passato si riferiscono plurime immagini, quali l’«antico giuoco», «l’acre filtro che porgeste | allo smarrito adolescente», «un risucchio ampio, un eguale | fremer di vite, | una febbre del mondo» [Riviere, vv. 16, 18-19, 22-24], la figura del ciottolo, già usata peraltro in Mediterraneo e in Falsetto <9, la possibilità di «svanire a poco a poco» <10. E alla stessa area concettuale appartengono anche le «bellezze funerarie» [Riviere, v. 45], che in linea con i Sarcofaghi proiettano verso una trascendente atemporalità <11.
    Tuttavia non può essere taciuto come questi elementi panici e rasserenanti non costituiscano un assoluto e definitivo riscatto al “male di vivere”, risolvendosi piuttosto in «auree cornici | all’agonia di ogni essere» [Riviere, vv. 45-46]. E che quei «tempi beati» <12 non fossero immuni da tristezza è detto anche, e più esplicitamente, pochi versi sopra, nei quali l’io lirico si definisce come colui che «straziato vi fuggiva [riferito alla rive marine]» [Riviere, v. 39], ossia, recuperando l’originaria lezione apparsa su «Primo Tempo», come «chi v’odiò per troppo amore!» <13. In questo passaggio il supplizio non è sinonimo di “male di vivere”, pur presente nel testo, ma coincide più precisamente con lo stato d’ansia di chi non riesce a sostenere la «legge rischiosa» e «severa» del dio mare-padre, e con lo struggimento di chi avverte, proprio nel momento in cui gode dell’abbraccio invisibile e redentore con le “riviere”, che il proprio desiderio è ancor vivo e dunque non completamente appagato. Ciò non toglie che quell’«età verginale», caratterizzata da un «estatico affisare» la natura e da un «mondo [che] aveva un centro» [Fine dell’infanzia, vv. 69, 76, 68], assuma tratti di leggenda, di mito, di felicità primigenia: insomma, detto con parole elementari, di «bella età» [Fine dell’infanzia, v. 103].
    Dall’altro lato, ossia all’opposto del «tempo [che] s’arresta» [Upupa, ilare uccello, v. 6], si situa invece il «tempo inesorabile» [Scendendo qualche volta, v. 7], quello che «non mai due volte configura | […] in egual modo i grani!» [Vento e bandiere, vv. 13-14]: il transitorio presente insomma, in cui l’io è ridotto a «esiliato» dal «paese incorrotto» [Ho sostato talvolta, v. 15]. Sono in primo luogo i marcatori temporali a segnare uno stacco e una discontinuità con l’età aurea dello «smarrito adolescente» [Riviere, v. 19]: si noti il ricorso oggettivamente esibito ed evidenziato all’avverbio «oggi» [Riviere, vv. 14, 46b, 59], che contrapponendosi ad «antico» [Riviere, vv. 16, 35], ad «allora» [Riviere, v. 26], a «ieri» [Riviere, v. 59] <14, crea un solco temporale capace di dividere senza ambiguità passato mitico e presente contingente.
    [NOTE]
    1 T. Arvigo, Guida alla lettura di Montale Ossi di seppia, Roma, Carocci, 2003, p. 227.
    2 N. Scaffai, Montale e il libro di poesia (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro), Lucca, Pacini Fazzi, 2002, pp. 67 e 68.
    3 A. Casadei, Montale, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 38. Particolarmente severo è il giudizio di Bonora, che quando giunge a commentare l’ultima strofe scrive: «Non sto a dire quanto sia frusta l’immagine del porto di saggezza, che si trova in Dante […], in Petrarca e in non so quanti altri. Non credo dover dare peso al proposito di “cangiare in inno l’elegia” […]. È piuttosto vero che forse Montale non ha mai scritto versi brutti come in questo punto in cui parla dell’elegia e dell’inno» (E. Bonora, Lettura di Montale. 1. Ossi di seppia, Torino, Tirrenia Stampatori, 1980, p. 78). Non più clemente è Ramat, il quale, ancor più di Bonora, sottolinea la discontinuità tra Riviere e il resto della raccolta: «Ci vuole dunque uno sforzo notevole per attaccare Riviere (1920) al carro in discesa degli Ossi: è questa una poesia giovanile che si affida al gioco sfrecciante delle luci per imprimersi durevolmente in chi legge. Così, entro questo limite di suggestione visiva, è assai bella la prima strofe, mentre nella seconda e nella terza si avverte come un impaccio la memoria pesante di Gozzano» (S. Ramat¸ Montale, Firenze, Vallecchi, 1965, pp. 77-78).
    4 È il caso di Mario Ceroti che sottolinea la «funzione anaforica» di Riviere rispetto al resto della raccolta, ossia la capacità di questo componimento di ribadire la perdita di illusioni circa la possibilità di «smuovere | un sasso solo della gran muraglia» [Crisalide, vv. 62-63]. Scrive Ceroti nella parte conclusiva del suo saggio: «Nel microtesto [Riviere] abbiamo la riflessione del protagonista che si confronta con il passato ormai irrecuperabile, che dichiara la propria disarmonia con la natura e che cerca di assumere […] una identità, un senso in un futuro non lontano. […] L’explicit della poesia, infatti, non contiene, nonostante forti ascendenze di matrice dannunziana, una rêverie panica, un desiderio di annullamento nell’indistinto naturale che era proprio dello “smarrito adolescente”, bensì il tentativo del giovane Montale di costruirsi un “aspetto” e conseguentemente di poter mutare l’“elegia” […] in “inno”, espressione di “una personalità integra”» (M. Ceroti, Ossi di seppia. Una proposta di lettura, in «Allegoria», 52-53, gennaio-agosto 2006, pp. 107-116: p. 114). Una posizione simile era stata già in qualche modo assunta anche da G. Cillo, Le spore del possibile. Sviluppi di alcuni aspetti della poesia di Eugenio Montale dagli Ossi di seppia alle Occasioni, in Contributi per Montale, a cura di G. Cillo, Lecce, Milella, pp. 109-137, in particolare p. 116, in cui Riviere è letta come la «formulazione in poesia di una nuova poetica, le cui grandi linee teoriche sono ormai chiaramente tracciate».
    5 Citazione tratta da G. Zampa, Introduzione a E. Montale, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 19902, pp. XXX-XXXI, nota 1.
    6 E. Montale, Intenzioni (Intervista immaginaria), in «La Rassegna d’Italia», I, 1, gennaio 1946, pp. 84-89, poi in Id., Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, pp. 561-569: p. 566.
    7 Id., L’opera in versi, edizione critica a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 892.
    8 G. Lukács, Teoria del romanzo, Parma, Pratiche, 1994, p. 57.
    9 Leggiamo in Riviere: «diventare | un albero rugoso od una pietra | levigata dal mare» (vv. 29-31). L’immagine della «pietra levigata | dal mare» è la stessa di Falsetto (in cui l’io dice ad Esterina: «noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo | come un’equorea creatura», vv. 31-32) e ancor più di Mediterraneo («una legge severa. | Ed è vano sfuggirla: mi condanna | s’io lo tento anche un ciottolo | róso sul mio cammino, | impietrato soffrire senza nome,» [Ho sostato talvolta nelle grotte, 16-20]). Il «ciottolo» mostra perfettamente la fusione panica con l’ente superiore della natura, rappresentata a sua volta dal padre-mare. Il «ciottolo» infatti ha perso ogni forma di individualità e di identità, ed è del tutto indistinguibile dalle altre pietre marine; e tuttavia, a risarcimento di tale perdita (imposta appunto da una «legge severa»), può godere dell’abbraccio con il «divino amico» [Falsetto, v. 49], ossia con un’entità trascendente, completamente appagante, e capace di redimere il soggetto della sua contingenza. Sulle diverse occorrenze di «ciottolo» cfr. E. Gioanola, Mediterraneo IV (da Ossi di seppia), in Letture montaliane: in occasione dell’80° compleanno del poeta, a cura di S. Luzzatto, Genova, Bozzi, 1977, pp. 55-68, in particolare p. 66.
    10 Il termine «svanire» ritorna in un altro testo di Ossi di seppia, Portami il girasole: «Svanire | è dunque la ventura delle venture» (vv. 7-8). In entrambi i componimenti il verbo indica la possibilità di perdere la propria identità terrena, per parcellizzarsi e diffondersi in un’entità superiore, che per rapidità individuiamo sic et simpliciter nella natura. L’approdo a questa dimensione, attuata attraverso uno «svanire a poco a poco» sarebbe infatti «la ventura delle venture».
    11 Una posizione simile ha assunto Tiziana Arvigo che, dopo aver indicato «l’interpretazione che Bourget dà della sofferenza di Amiel» in Essais de psychologie contemporaine quale una delle chiavi di lettura di Riviere, sostiene: «risulta allora più eloquente la figura un po’ carducciana del “fanciullo antico | che […] moriva sorridendo”, dello “smarrito adolescente” […], depositario di una purezza di pensiero che si rispecchia nell’esuberante, ancorché straziata, dichiarazione d’amore per le “bellezze funerarie”, “auree cornici” che hanno inquadrato il suo doloroso affacciarsi alla vita» (Arvigo, Guida alla lettura di Montale Ossi di seppia, cit., pp. 228-229). Non condividono questa lettura Cataldi e d’Amely, secondo i quali le «bellezze funerarie» sono più schiettamente «bellezze colme di senso di morte» (E. Montale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d’Amely, Milano, Mondadori, 2003, p. 259).
    12 Lukács, Teoria del romanzo, cit., p. 57.
    13 Montale, L’opera in versi, cit., p. 892.
    14 Gli altri due indicatori temporali sono offerti dall’espressione «un giorno», che al v. 44 si riferisce al passato («Ah, potevo | credervi un giorno o terre, bellezze funerarie»), e al v. 53 al futuro («Ed un giorno sarà ancora l’invito | di voci d’oro»). Anche in questo caso, tuttavia, il «giorno» lontano a cui si allude è associato ad un “tempo beato”, naturalmente contrapposto all’«oggi» terreno.
    Massimiliano Tortora, Vivere la propria contraddizione. Immanenza e trascendenza in “Ossi di seppia” di Eugenio Montale, Pacini Editore, 2015, qui ripreso da iris.unito.it

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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