L’arte è ciò che fanno gli artisti

Sorta in una città [Kassel] distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e marginalizzata nel nuovo assetto geopolitico tedesco, che la vedeva collocata a pochi chilometri dalla linea di confine con la Deutsche Demokratische Republik, “documenta” si pone come luogo di recupero di unʼidentità culturale cancellata negli anni della dittatura a partire da una ricerca di dialogo internazionale. Riprendendo Roberto Pinto: “Alcune sue caratteristiche – la sua storia, il suo valore simbolico, lʼabbondanza di mezzi impiegati – rendono tale manifestazione diversa, negli scopi e nelle possibilità, da analoghe esposizioni internazionali; in un certo senso, possiamo considerarla unica […]. Per comprendere il suo valore simbolico è necessario partire dalla genesi di “Documenta“, dalle motivazioni cioè che hanno condotto la Germania del secondo Dopoguerra, quando ancora non si era concluso il processo di ricostruzione, a concentrare gli sforzi per organizzare una grande mostra internazionale” [n.d.a.: R. Pinto, Nuove geografie artistiche. Le mostre al tempo della globalizzazione, Postmedia books, Milano 2012, p. 120].
[…] Analizzare il significato storiografico di unʼesposizione come “documenta” si pone allʼinterno di una precisa linea di studi, volta a considerare il “dispositivo” espositivo come una possibile chiave di lettura di un insieme culturale più complesso, un procedimento narrativo attraverso cui si articola una determinata visione interpretativa, e quindi uno strumento capace di restituire un determinato modello di “produzione di storia dellʼarte”, come sostenuto nei suoi scritti da uno dei maggiori storici di documenta, Walter Grasskamp [n.d.a.: W. Grasskamp, For example, documenta, or, how is art history produced?, in R. Greenberg, B. W. Ferguson and S. Nairne, Thinking About exhibitions, Routledge, London; New York 1996, pp. 67-78].
Il concetto di “dispositivo” è qui inteso in particolare nella sua accezione foucaultiana secondo la lettura di Giorgio Agamben, che ne mette in luce la centralità nel pensiero del secondo Foucault, per quanto esso non sia mai propriamente definito nei suoi scritti. Rifacendosi ad unʼintervista al filosofo francese del 1977, Agamben definisce il termine come un incrocio di relazioni di potere e di sapere, ossia come un sistema eterogeneo, linguistico e non linguistico, che ha sempre una funzione strategica; esso è quindi indentificato come “qualunque cosa abbia in qualunque modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi” [n.d.a.: G. Agamben, Che cosʼè un dispositivo?, I sassi-nottetempo, Roma 2006, pp. 21-22]. Analogamente dunque lʼesposizione può essere ascritta a tale categoria, configurandosi come uno strumento di controllo, diffusione, ma anche occultamento del sapere in cui si intrecciano istanze ideologiche, economiche, politiche. Ciò che caratterizza il dispositivo è infatti la sua natura eterogenea risultante “dallʼincrocio di relazioni di potere e di relazioni di sapere” e come tale esso si pone come uno strumento di soggettivazione, di definizione di un soggetto. Nel caso di Kassel tale soggetto è identificabile con una precisa visione del modernismo, ma anche, in senso più ampio, con la volontà di fornire una definizione dellʼarte stessa, ed è da tale ricerca di definizione che bisogna partire anche per comprendere come viene interpretata lʼarte italiana.
Lʼidea che lʼesposizione non sia un luogo “neutro” ma uno spazio complesso, un “dispositivo simbolicamente denso” [n.d.a.: S. Zuliani, Esposizioni. Emergenze della critica dʼarte contemporanea, Mondadori, Milano 2012, p. 24] che partecipa al processo di significazione dellʼopera è un tema che ricorre nella vasta letteratura sulle esposizioni, soprattutto a partire dagli anni ʼ80, e che vede negli ultimi anni un particolare rilancio. Anche in Italia sono numerosi gli studi e le operazioni che intendono restituire la memoria storica di mostre effimere [n.d.a.: Zuliani ricorda ad esempio tra numerosi casi di mostre documentarie lʼesposizione tenutasi al MACRO del 2010 “Macroradici del contemporaneo: a Roma la nostra era avanguardia”, dedicata alle due mostre curate da Achille Bonito Oliva Vitalità del negativo 1969/70 e “Contemporanea, e la ricostruzione” al MADRE nel 2011 – in occasione della grande mostra “diffusa” curata da Germano Celant per celebrare lʼArte Povera – della mostra “Arte povera + azioni povere” tenutasi ad Amalfi nel 1968], con lʼintento quindi di indagare il ruolo esercitato da esse nello scenario artistico.
[…] Il successo ottenuto dalla seconda edizione impone “documenta” come una rassegna di interesse nazionale e internazionale, ma determina anche una serie di problematiche quali le critiche negative, rivolte in particolar modo allʼapproccio proposto da Haftmann, e le questioni organizzative e finanziarie che si accompagnano allʼistituzionalizzazione della manifestazione. In particolare, a seguito del netto disavanzo con cui si era conclusa “documenta II”, si acutizza il contrasto tra lʼapparato burocratico e quello organizzativo. Tali problematiche, assieme alla scelta di utilizzare il castello di Wilhelmshöhe che necessita di complessi restauri, determinano lo slittamento dellʼedizione prevista per il 1963 allʼanno successivo. Il primo documento relativo alla terza “documenta”, ‘III documenta 1963, ein Vorschlag’ (III documenta 1963, una proposta) viene redatto il 15 giugno del 1959, ed è quindi precedente allʼinaugurazione della seconda edizione; in esso si afferma che se questa dovesse eguagliare lʼimportanza della prima, si dovrebbe pianificare la ripetizione stabile e quadriennale della manifestazione, non più però utilizzando come sede il Fridericianum. Nel testo si propone infatti di ristrutturare lʼedificio, al fine di garantire alle opere dʼarte moderna della città una nuova collocazione e quindi di fornire a Kassel un museo civico. Nel caso tali lavori non risultino portati a termine entro quattro anni, si propone lʼutilizzo del castello e dellʼOktagon nel parco barocco di Wilhelmshöhe, a ovest della città, mantenendo lʼutilizzo e la riqualificazione di edifici in rovina come aspetto centrale della mostra.
Anche in questo caso torna ad essere proposta una centralità dellʼarchitettura, assente o marginale nelle due precedenti edizioni, presentata non più con semplici riproduzioni fotografiche ma attraverso un vero e proprio intervento urbanistico collegato allʼevento espositivo.
[…] Un programma dettagliato del modo in cui dovrà articolarsi lʼesposizione è proposto nel documento del 27 giugno 1963 “Die Dritte Documenta: Das Programm” (“La terza ‘documenta’: il programma”) firmato Documenta-Sekretariat, in cui si afferma che lʼintento principale della mostra è quello di “permettere la delimitazione tra le problematiche di oggi e quelle (ricerche) influenzate da componenti extra-artistiche”. Ancora una volta “documenta” vuole cioè “documentare” cosa sia lʼarte, non attraverso una prospettiva dal taglio storico ma ponendosi, in chiave essenzialista e universalizzante, come dispositivo capace di legittimare ciò a cui può o meno essere riconosciuto lo status artistico.
Per raggiungere tale compito, che è definito di importanza “spirituale, politico culturale e, non in ultimo, pedagogica” si ritiene necessario guardare al lavoro dei singoli artisti, in un percorso che è del tutto ancorato dunque alla categoria della personalità, del “genio” nel senso idealistico del termine.
Il programma passa quindi in rassegna le diverse sezioni attraverso cui si articolerà la mostra: i Gabinetti dei maestri, definita come “la mostra principale”, costituita da piccole monografiche volutamente incentrate su una selezione mirata e non ordinata cronologicamente ma volta piuttosto a mostrare nella sua globalità ciò che caratterizza la produzione degli artisti selezionati, ponendo ancora una volta lʼaccento non su una riesamina storica ma sul lavoro del singolo; la sezione dedicata al disegno, definito come una “trascrizione spontanea di unʼimmagine mentale ottenuta per intuizione”, particolarmente adatto a rispecchiare la personalità dellʼartista e quindi lʼidea di fondo della terza “documenta”; “Quadro e scultura nello spazio”, in cui torna lʼidea del “museo ideale” e che vede un immediato cambiamento di intenti: allʼapproccio idealista delle prime due sezioni succede infatti unʼattenzione per la dimensione fruitiva dellʼoggetto artistico a partire dal suo rapporto con lʼambiente circostante; attraverso lʼedificazione di appositi spazi direttamente modellati sulle specificità della singola opera si intende dunque valorizzare la dimensione ambientale dellʼopera e fare della tipologia di allestimento uno strumento di analisi critica con precise ricadute sulla dimensione progettuale, tanto in campo architettonico quanto nella tecnica degli allestimenti; infine viene proposta la sezione dedicata alle ultime ricerche, “Aspekte 64”, dedicata ai giovani artisti o ad artisti ancora poco noti al di fuori del proprio territorio dʼappartenenza, insistendo nuovamente sulla necessità di istituire una linea di demarcazione tra un piano artisticamente legittimato e quelle che vengono definiti come “fenomeno pseudo-moderni”, specificando in nota che con tale concetto si intendono la Pop Art e il Nouveau Rèalisme.
Anna Zinelli, Documenta 1955-1964. Dalle origini all’istituzionalizzazione del “museo dei cento giorni”: la messa in scena, i modelli teorici e la presentazione dell’arte italiana, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, 2015

“L’arte è ciò che fanno gli artisti” è il motto della Documenta 3 inaugurata nel 1964 simultaneamente all’esplosione del fenomeno internazionale della Pop Art. Tuttavia questa Documenta sotto la direzione di Werner Haftmann si ricorda per il tentativo di ipotizzare la superiorità del primo modernismo sul contesto contemporaneo e viene centrata sul percorso della vecchia generazione di artisti. Altra caratteristica di questa edizione è quella di aver sostenuto un’idea di arte fondata sull’individualismo in un allestimento che non contemplava la possibile relazione fra i differenti lavori. Implicito era anche il pensiero di un’arte sganciata dai teoremi stilistici e dalle scuole generiche, un assunto che ingloba in sé la certezza di “rappresentare” attraverso le grandi esposizioni un’idea storicistica dell’arte contemporanea. Altra importante notazione, in questa visione esposta da Documenta 3 è quella di imporre attraverso il percorso curatoriale un punto di vista privilegiato e spesso chiuso alle nuove emergenze che invece venivano espresse proprio in quella Biennale di cui si voleva essere antagonisti. Il problema posto da Documenta 3 in qualche misura giustifica la sua importanza storica: in essa infatti si sottolinea forse in misura clamorosa come il pensiero curatoriale possa deviare dal percorso “reale” della storia sino a produrre una prospettiva totalmente sganciata dal possibile ruolo di testimoniare, con le dovute impostazioni individuali, un pensiero complesso sulla storia del presente. Un’altra specifica realizzazione di Documenta 3 è quella di aver prodotto degli allestimenti speciali e ad hoc per i lavori esposti. Ideati da Arnold Bode gli ambienti di Documenta 3 privilegiavano l’impatto con l’ambiente circostante. Anche quando venivano realizzati degli ambienti chiusi si cercava di far filtrare la luce in maniera naturale piuttosto che non artificialmente. Pannelli e strutture divisorie per delimitare i percorsi individuali, che segnano un allestimento appunto fondato sul singolo lavoro, hanno mantenuto questo carattere aereo e non invasivo.
Domenico Scudero, Manuale del curator. Teoria e pratica della cura critica, Gangemi, 2004

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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