Le mie poesie nascono ancora sia dal paesaggio devastato sia dai pensieri sconquassati e incerti delle spinte alla poesia

Paolo Steffan, Ritratto di Andrea Zanzotto, 2009 – Tecnica: matita e sanguigna su carta – Fonte: Wikipedia

La distanza storica permette di definire la grandezza di una vita. Ora, a 100 anni dalla nascita (10 ottobre 1921) e a 10 dalla morte (18 ottobre 2011) sappiamo che Andrea Zanzotto è stato un grande poeta, una della massime voci del Novecento – così ricco di poeti di assoluto valore – scoperto per primo da Ungaretti e oggi fra i più tradotti al mondo.
La sua grandezza la misuriamo dalla strabiliante attualità dei suoi versi, del suo insegnamento, sebbene nulla di moralistico sia rintraccabile nella sua opera. Ecco dunque le due lezioni del letterato di Pieve di Soligo.
Praticandola in maniera quasi ossessiva, Zanzotto ci ha illuminato sul senso e il valore della parola: una parola che non va mai detta superficialmente, va ricercata, raffinata, perché in essa si può “risolvere” il mondo, trasfigurarlo, superandone il male intrinseco e restituendogli appunto un senso. L’esercizio di un linguaggio che non sia mai superfluo, retorico, vano o volgare è l’atto etico che la sua vita, ancor prima della sua opera, ci ha lasciato.
Pensiamo per un istante a quale significato può avere questa testimonianza per noi uomini di questi tempi, sommersi dalle parole, dai messaggi, dalle informazioni; storditi dal brusio ininterrotto dei social; stanchi di parole logore che, anziché dare una forma al mondo, lo confondono, rendendolo più opaco e perciò più brutto, deprivandolo della sua bellezza intrinseca. Parole che rivelano, non confondono.
Ancor prima che l’ecologia diventasse un’istanza condivisa e per certuni anche una moda, Zanzotto ha colto i segni di una dolorosa frattura fra l’uomo e l’ambiente. È stato definito il “poeta del paesaggio”, espressione da non intendere romaticamente come una mera propensione a descrivere la bellezza della natura e i danni inferti dall’invadenza antropica, ma come sofferta e profetica intuizione di un dramma che stava attanagliando la realtà.
L’uomo non può essere felice se non ritrova un rapporto corretteto e armonico con la dimensione naturale, come ci sta drammaticamente ricordando in questi mesi la pandemia, segno di un malessere del paesaggio nei confronti dell’aggressività umana.
Paolo Perazzolo, Andrea Zanzotto. Le due grandi lezioni di un maestro nato cento anni fa, Famiglia Cristiana.it, 16 marzo 2021

Le mie poesie nascono ancora sia dal paesaggio devastato sia dai pensieri sconquassati e incerti delle spinte alla poesia, che ho paragonato per la loro intensità a questi fiumi.
Andrea Zanzotto, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, Milano: nottetempo, 2007

Puntualizzo innanzi tutto che non sono un critico: non ne ho né l’acume né lo statuto. Mi sono sentito titolato a parlare del tema proposto per la contiguità territoriale e linguistica col poeta e sulla scorta delle consuetudinarie conversazioni con lui. Previa notificazione che era sempre stupefacente avvertire il contrasto fra la sua affabile dialettalità veneta e lo spessore culturale che ad ogni suo minimo affondo si rivelava e nel contempo il rapporto di ancestrale fedeltà che intratteneva con la cultura del suo territorio, ritengo opportuno partire da due citazioni inerenti alla sua posizione rispetto all’impiego linguistico in poesia: “Direi che una concezione poetica del linguaggio per me si è giocata nel rapporto tra un tono lieve, delicato e comprensibile, e l’impennata improvvisa del mistero, della parola che attendeva di essere compresa. Potrebbe essere qui una possibile chiave della mia tendenza ad avere un piede nella tradizione e un altro nella sperimentazione. Ricordo bene che se tutto mi risultava chiaro e limpido, alla fine mi stufavo. Se invece sentivo parole che non conoscevo, il mio interesse si moltiplicava. È nato qui il mio amore per l’espressione linguistica, e anche la sua duplicità” <1.
E più avanti, alla richiesta del ruolo che per lui ricopre il dialetto: “”È stato una specie di controcanto. Nel dialetto si somma il massimo del quotidiano, del semplice, dell’ovvio direi, dell’affettuoso, del profondo, dell’irraggiungibile, del sorgivo. Nel dialetto risuona l’antico sussurro della lingua. Non si sa da dove venga. Dal momento che lo si impara per osmosi con l’ambiente, in forma del tutto inconscia, come si impara a respirare, rappresenta una lontanissima forza originaria. Mentre la lingua formale, l’italiano, viene percepita nelle zone super-consapevoli della coscienza”.
E per significare come quella del dialetto in poesia sia per lui un’esperienza tutta particolare, ecco un’altra sua affermazione: “Per quanto mi riguarda, un componimento che io devo scrivere in dialetto mi dà un senso di liberazione e di sollievo, ma anche di impudicizia. Nella realtà esacerbata dell’oggi, mi vedo in esso come partecipe dell’ambiguo terrore di una piccolissima società di vermiciattoli brulicanti, dai quali, con tale gesto, sia stato bruscamente tirato via il sasso che li negava e insieme li proteggeva. Se ne può avere la brusca presa di coscienza del fatto che nessuno ormai è protetto, che tutti sono «esposti» a tutto, come lo si è alle fughe letali di radiazioni che certo non conoscono frontiere” <2.
Il territorio di appartenenza linguistico-dialettale di Andrea Zanzotto si trova sulla linea di confine fra Trevigiano e Bellunese ed è quest’ultima l’area in cui la parlata si è conservata abbastanza vicina a quello che era l’«Antico Trivigiano».
1 Alberto Papuzzi (a cura di), Dossier Romanzo di formazione, in «Leggere», 48, marzo 1993, p. 40.
2 Cfr. Cinquantesimo congresso del P.E.N. Club a Lugano, intervento trasmesso e riportato da «Azione», 14 maggio 1987, p. 7.
Luciano Cecchinel, Peculiarità dell’espressione poetica zanzottiana in dialetto, in (a cura di) Giorgia Bongiorno e Laura Toppan, Nel «melograno di lingue». Plurilinguismo e traduzione in Andrea Zanzotto, Firenze University Press, 2018

[…] Siamo nel 1980. È uscito da poco Il Galateo in Bosco, con la prefazione di Gianfranco Contini. «Il più importante poeta italiano dopo Montale» incontra gli studenti di una scuola di Parma. Alla domanda Come mai la poesia contemporanea è spesso difficile da capire? Andrea Zanzotto risponde con una metafora: «C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così, perché qui si trasmette per una serie di impulsi sotterranei, fonici, ritmici, ecc. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un “cortocircuito”, una oscurità da eccesso, non da difetto».
Dunque attrito, resistenza, sforzo, fatica per generare un fatto nuovo e luminoso. Sull’intensità dell’attrito, sul grado della resistenza linguistica da opporre al flusso si potrà discutere a lungo. Ciò non toglie che quella di Zanzotto sia una delle definizioni universali di “poesia”, della sua natura e funzione, più cogenti mai formulate.
Il ricorso alla fisica elementare – una delle tante scienze che entrano nella sua poesia – non è casuale, e non lo è forse nemmeno il carattere applicativo e tecnologico dell’esempio addotto. D’altronde, come si potrebbe separare scienza e tecnologia, salvare l’una e condannare l’altra? Zanzotto non lo fa mai. La vis polemica potrà coinvolgere le derive storiche, non la legittimità dell’anelito umano al progresso. Insomma, fede nella scienza e fede nella poesia coabitano dinamicamente in Zanzotto e si danno la mano. Il metodo oggettivo dell’una è complementare al metodo soggettivo dell’altra.
Ma il campo di indagine è il medesimo: è la Natura il grande protagonista della poesia scientifica di Zanzotto, la Natura, o meglio ciò che vi presiede, ciò che vi sta dietro: da lì partono i messaggi che la poesia tenta di decifrare, lì sono implicate le leggi che la scienza cerca di scoprire. Anche per questo l’esempio della lampadina non pare scelto a caso: è uno dei tanti misteri naturali ancora insondati dalla scienza, che sa tutto di come funziona l’elettricità, ma ancora nulla del perché funziona, cioè del perché esista la forza di attrazione polarizzata che muove il flusso elettrico e ci dà la luce […]
Stefano Dal Bianco, Il percorso della poesia di Andrea Zanzotto, Le parole e le cose, 10 ottobre 2011

[…] In Andrea Zanzotto si esprime il tragico dissidio tra quella che i cristiani dicono anima e ciò che gli scienziati dicono psiche.
Eugenio Montale, 1968
Andrea Zanzotto è un grande poeta. Affermarlo dopo sei decenni di brillante carriera mondiale del poeta di Pieve di Soligo può sembrare pleonastico. Eppure l’esperienza del comune fiancheggiatore contemporaneo si scontra non di rado con le voci di lettori, di professori e perfino di poeti italiani che non mancano, con toni più o meno accesi, più o meno ammiccanti o soffocati, di dichiarare la loro estraneità: «È una poesia troppo difficile». La terapia che noi suggeriamo è sempre la stessa: «Hai provato a leggerlo davvero, dall’inizio alla fine?». Al che, immancabilmente: «Sento che il gioco non vale la candela. È troppo intellettuale. Nella poesia io cerco carne e sangue, e qui non provo emozioni, si fa troppa fatica». Così termina lo scambio: noi ce ne stacchiamo con malcelato senso di pena per le sorti dell’umanità, mentre la voce di fronda, nei casi più benevoli, si adopera per tacitare interiormente un vago senso di colpa appigliandosi ai diritti dell’immediatezza del poetico.
Sbagli, cara voce di fronda: il gioco vale la candela. Andrea Zanzotto è un grande poeta per due motivi che proveremo a dichiarare e poi a chiarire. Essi sono, in sintesi e molto banalmente, a) la bellezza, ossia la specifica qualità poetica della sua scrittura e b) il fatto che ciò di cui Zanzotto parla è importante.
a) La bellezza è prerogativa esclusiva, senza la quale l’opera che abbiamo davanti non è un’opera di poesia. È necessaria per fare il poeta ma non è detto che sia sufficiente, da sola, a farne uno grande. Nella nostra accezione non si tratta di un termine generico. Potremmo definire la bellezza come l’effetto particolare che si produce in un lettore attento in corrispondenza di determinati passaggi della scrittura, adeguatamente preparati dal contesto più e meno immediato: è la vertigine che ci prende e ci fa quasi cadere dalla sedia. Il brodo di giuggiole in cui ci sciogliamo fa sì che siamo costretti a interrompere la lettura per misurarci con una dimensione altra, una specie di tunnel infinito che ci tocca in essenza e ha molto da insegnarci. È attraverso momenti simili che la poesia conserva e trasmette ciò che fu il sacro entusiasmo delle sacerdotesse del dio.
Nei casi più forti l’effetto è accompagnato da commozione vera, intellettuale (Dante: quante volte nel Paradiso?), in altri casi l’effetto consegue all’esasperazione di un principio tecnico formale che si fonde con qualche cosa di fisico e di trascendente, e la voce che parla parla a noi attraverso la sapienza dei secoli e dei millenni: è il brivido estetico che ci dà Petrarca. Ciascuno dei libri di Zanzotto ci elargisce almeno due o tre di questi momenti […]
Stefano Dal Bianco, La religio di Zanzotto tra scienza e poesia, Le parole e le cose, 18 ottobre 2011

Il bianco della pagina viene sfruttato da Zanzotto con diverse funzioni, a volte anche senza particolari intenzioni; ci si muove fra queste zone di non-scritto e non-detto, di vuoto grafico e silenzio, con una visione inevitabilmente soggettiva guidata dalle suggestioni del testo. Si possono riconoscere varie funzioni svolte dagli spazi vuoti, la prima, dal punto di vista iconico, è quella di manifestare visivamente quanto alluso nei versi; in Periscopi (PPS, 689) ad esempio, il bianco simula il buco di un picchio <41 nel legno:
sulle prime gettate – forse – di un’altra natura
picchio stomacato      anche se indegno
di fronte a eccessi immensi di legno [vv. 29-31, PPS, 689]
Più in generale, le fessure che si creano fra le parole manifestano semplicemente l’immagine di uno spazio, come in (Sotto l’alta guida), (PPS, 627):
caparbiamente definiente spazi
incomprensibilmente      spazi rameggiati come elitre
avido verso le mucillagini e l’agar agar [vv. 5-7, PPS, 627]
Non si allude solo al vuoto; in Tavoli, giornali, alba pratalia, (PPS, 706) il bianco è, immaginariamente, riempito di neve:
trai con amo e filo per me della neve
te agnello di neve smemorato      per alba pratalia
tu neve agnella
che io andando per queste righe calpesto, calpesto [vv. 21-24, PPS, 706]
Il riferimento alla neve è reso percepibile attraverso la tinta della carta. Anche in Chìve, chive à l’ombria (PPS, 553) il colore viene alluso e annunciato metadiscorsivamente dalle parole che lo incorniciano:
– bianco      idea ninfea [v. 11, PPS, 553]
41 «La metafora del picchio […] è chiara allusione al poeta […] che si trova sempre di fronte l’immenso materiale della realtà e del paesaggio dal quale può prelevare le occasioni della scrittura» (Piangatelli 1990, 98).
Elisa Barbisan, Il negativo del testo. “Punteggiatura bianca” nella poesia italiana del secondo Novecento: Montale, Sereni, Caproni, Zanzotto, Sanguineti, Rosselli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, anno accademico 2018/2019

A partire dal periodo che è stato definito “lunghi anni Settanta”, l’esperienza del linguaggio assume una centralità sempre più determinante all’interno del percorso poetico di Andrea Zanzotto: da un lato, essa può essere definito, attraverso una nota formula heideggeriana, un cammino verso l’autenticazione del proprio io, verso la sua natura profonda; dall’altro lato, questo movimento di analisi linguistica assume i contorni di uno scavo profondo all’interno della realtà, sondata e per questo scomposta nelle due dimensioni della microstoria del Soggetto e della macrostoria nella quale l’evento poetico si trova situato e con la quale esso entra dialetticamente in comunicazione.
In questo senso, il linguaggio viene interrogato da Zanzotto non limitatamente alla sua funzione di medium attraverso il quale realizzare il proprio dettato poetico, ma soprattutto in quanto oggetto della propria poesia. Per mezzo di un movimento tipico del genere lirico, il linguaggio viene implicato in una dinamica di assentificazione e presentificazione, alla stregua di un qualsiasi altro terminale poetico, sovrapponibile per questo motivo alla nozione di oggetto piccolo a enunciata da Lacan. Questi sono i due fattori che hanno portato Stefano Agosti a delineare l’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto come un’esperienza di natura noetica […] Se il Soggetto si afferma come il centro concettuale di tutta la produzione di Andrea Zanzotto degli anni Settanta, deve ora essere sottolineata la differente trattazione che viene riservata ad esso all’altezza delle tre prime raccolte. La prima stagione poetica del poeta di Pieve di Soligo vede infatti come centrale non tanto l’esperienza di un Soggetto in quanto filtro linguistico (e quindi simbolico) del reale, quanto piuttosto la consistenza grammaticale dell’io, ridotto ed indagato proprio in quanto pronome.
Roberto Binetti, Geografie del Soggetto. Per una teoria poetica degli anni Settanta: Andrea Zanzotto e Franco Fortini, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, anno accademico 2017/2018

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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