La parola poetica di Sandro Penna sceglie il corpo e il paesaggio come spazi privilegiati di una ricerca ontologica inesausta, che esalta la fisicità delle percezioni attraverso veloci illuminazioni. L’esistenza si confronta con l’alterità e la natura partecipa dei sentimenti dell’individuo, esteriorizzando i moti del cuore di un’identità tormentata:
Mi guardavano muti
meravigliati
i nudi pioppi: soffrivano
della mia pena: pena
di non sapere chiaramente…
(Mi avevano lasciato solo, in Poesie)
La felicità e la meraviglia che derivano dalla contemplazione poetica sono minacciate dall’irruzione del negativo, abitate dal sentimento dell’effimero, che è in rapporto con la natura e che dà origine a un’utopia irrisolta, sfiorata dall’elegia. <1 Il piacere è minacciato da una pena che invade la pagina, per cui gioia e dolore sono la diastole e la sistole di un’esistenza perennemente in bilico. L’eros, sorgente di questo idillio elegiaco, è alla base della relazione che l’io instaura con l’altro da sé e col mistero «di non sapere chiaramente». È un movimento sospeso tra la fine e il divenire, che lascia intravedere intermittenti possibilità di salvezza, momenti in cui sembra di poter scorgere la pura gioia, resa nella concisione della forma epigrammatica in cui dialogano la ricerca di sé, la dimensione cosmica e l’esperienza erotica.
Nel sublime antifrastico di queste poesie si manifesta il senso delle cose, emergono dettagli rivelatori che interrompono il percepire abituale e ogni situazione cessa di essere occasione, per assumere una profondità che si apre alle suggestioni dello straniamento e dello slittamento emotivo:
Com’ero lieto sotto un albero in fiore.
Credevo di soffrire ed ascoltavo
i fanciulli voler baciare un cane.
Rispondeva un guaito, – e una risata
spavalda mi faceva ancor più triste.
Tutto poi si perdeva nella luce
ed il bacio mi stava ad ascoltare.
(Com’ero lieto sotto un albero in fiore, in Croce e delizia)
Penna traduce la realtà nella presenza vibrante e sconcertante di luoghi ed esistenze periferiche, apparentemente senza storia, senza un prima né un dopo, ma in cui convivono sofferenza e amore, l’una complementare all’altro. Tutto si perde nella luce di una dimensione primigenia non definibile se non attraverso un lieve e veloce segno poetico. Come ha scritto Alfonso Berardinelli, «Penna istituisce questo altrove, questa seconda realtà esente dalla realtà storica: una realtà di ore, di stagioni e di corpi, una natura sovranamente splendente e variabile». <2 L’accettazione di questo spazio scentrato, sospeso tra concretezza e astrazione, garantisce una sorta di inalterabilità rispetto alla crisi che caratterizza i nostri tempi politici e poetici.
Nella naturale predisposizione alla marginalità esistenziale il sogno e l’infinito si trasformano in un altrove estatico e luminoso: nella prospettiva scorciata dei versi uno spazio imperfetto diventa assoluto, viene strappato all’incertezza del presente. Spetta al poeta il compito di recuperare questa realtà dimessa e anonima in una sorta di mappa mentale, l’atlante di una geografia interiore e intima, ma allo stesso tempo, a suo modo, religiosa e civile.
2.2.1. La dialettica del desiderio
In versi concisi e lapidari l’esprit de délicatesse di Penna fissa l’intensità dell’istante attraverso una percezione sensoriale e psichica che supera tutti i segni che circondano l’essere. Anche la storia in quanto categoria umana e intellettuale viene messa da parte, mentre il confronto è aperto col tempo, con le stagioni, le ore, i momenti che passano, gli attimi. Si potrebbe dire, prendendo in prestito le parole di Sereni, che Penna è «custode non di anni ma di attimi» in cui un gesto si assolutizza in evento. <3
Si potrebbero ricordare le parole di Ermanno Krumm: «Basta un nulla […] perché in un attimo rivelatore si abbia l’epifania di un impossibile equilibrio, l’intuizione di qualcosa che si arresta nel flusso continuo del mondo […]. È un punto fermo in cui, però, qualcosa danza». <4 Qualcosa danza nelle parole di Penna: egli mette in scena degli oggetti concretissimi, che, inserendosi in un processo di intensificazione emozionale, rendono determinato e nitido il mondo psichico. Spetta al desiderio, elemento dinamico, il compito di collegare i due mondi, quello delle cose e quello della psiche: la poesia sembra trascendere i limiti, ma rimane sempre legata ai particolari fisici della natura, del
corpo, del sesso e dello spirito, che rappresentano un territorio da esplorare infinitamente, per esprimere un piacere di cui occorre rinnovare la pronuncia. Così Penna crea il mito dell’altro – il fanciullo – oggetto e asse del suo desiderio: <5
Esco dal mio lavoro tutto pieno
di aride parole. Ma al cancello
hanno posto gli dei per la mia gioia
un fanciullo che gioca con la noia.
(Esco dal mio lavoro tutto pieno, in Poesie)
L’eros è come una musica contrappuntistica, che emana dagli dei e avvicina ad essi, ma allo stesso tempo la voluttà risolve solo parzialmente il contatto dell’io con l’alterità e conferma il dualismo insormontabile dell’essere, la sua incapacità di partecipare alla vita. In quanto oggetto di un desiderio mai risolto, mai compiuto, l’altro non coincide con l’io, ma rimane avvolto in un mistero che tuttavia ne custodisce anche la potenzialità: esso si adempie sotto l’egida della visione luminosa e irraggiungibile del fanciullo chiuso nel suo pudore o nella sua noia, un’immagine che lo sguardo non può profanare e che per questo è disponibile ad infiniti ritorni.
Non c’è conflitto e non c’è fusione, perciò non c’è conoscenza: la relazione con l’altro da sé, con il suo mistero, è relazione con ciò che, in un mondo in cui c’è tutto, non c’è mai. Tuttavia, proprio tale imperfezione fa emergere la contraddizione di un’istanza a venire, in cui si riproduce la coppia tempo-atemporalità, che tende continuamente la poetica dell’autore perugino, «sviluppando le correlazioni della sfera intuitiva tra percezione, memoria e immaginazione»: <6 in quanto attesa di qualcosa che non si realizza nel presente il desiderio sposta il suo oggetto in una dimensione che non è di questo mondo, che non appartiene alla storia e alla nostra società. In questo senso il
rapporto con l’altro potrebbe essere considerato fallimentare. Lo è nella misura in cui si intenda l’eros come possessione e conoscenza, ma esso non è niente di tutto ciò. <7 Se Penna da un parte non ignora i tempi storici in cui vive, riservandogli spazio nei propri taccuini, <8 dall’altra ne coglie la non vitalità, quasi, potremmo dire, la non dignità poetica: l’eros è altra cosa, partecipa di una natura divina che non ha a che fare con le categorie umane. Se noi potessimo possedere e conoscere l’altro, non sarebbe più altro, non sarebbe più mistero, ossia oggetto del desiderio. Possedere e conoscere sono invece sinonimi e attributi del potere.
L’eros di Penna è al di fuori della società ed è contro la storia, in quanto ne rifiuta le logiche più comuni: la sua relazione con l’altro si basa sul non riconoscimento di leggi e regole prestabilite. <9
L’esperienza dell’io è collocata quindi in una lontananza che determina un rapporto diverso con la realtà. Solo nell’eros, segreto e misterioso, povero e vivo, Penna può collocare la possibilità di un altrove che è salvezza e perdizione contemporaneamente:
La madre mi parlava dell’affitto.
Io ero ad altra riva. Il mio alloggio
era ormai in paradiso. Il paradiso
altissimo e confuso, che ci porta
a bere la cicuta…
(Ero per la città fra le viuzze, in Poesie)
Ci sono momenti in cui l’autore condensa la trascendenza in ciò che accade e la poesia diventa il luogo in cui una circostanza si assolutizza contro la minaccia del vuoto, senza tuttavia la scappatoia della verticalità. La realtà quotidiana può assumere i tratti di un paradiso in terra «fuori del quale abitano […] la precarietà e la morte», <10 tuttavia, poiché il desiderio non trova una compiuta realizzazione ma prelude ad uno smarrimento emotivo (qui il paradiso è «altissimo e confuso»), la distanza sembra essere la vera cifra di una poesia che partecipa di una doppia natura, positiva e negativa allo stesso tempo.
La trasfigurazione del reale, mediata dalle immagini dei fanciulli, non porta soltanto ad una diversa misura delle cose, ma anche a saggiarne i limiti: Penna non sembra in grado di meditare sulla trascendenza, eventualmente può nominarla, sfiorarla, farla esistere per infiniti attimi sulla pagina, accanto all’immanenza che ci è toccata in sorte.
Nel gesto distratto, nell’evento non realizzato ma solo atteso, si rivela una «nostalgia d’infinito» <11 che è sorgente del desiderio; al contrario, nell’atto compiuto il desiderio si consuma, eros scompare e dell’amore rimane solo un misero sesso, che non ha più nulla di divino, ma testimonia di un’esistenza spogliata della momentanea numinosità, lasciata a se stessa e al proprio esilio:
Poi fu una cosa povera, avvilita,
nascosta da una mano, il segno della vita.
(Poi fu una cosa povera, avvilita, in Appunti)
Costretta in questa contingenza, la pars costruens del sistema poetico penniano si capovolge, il sogno preannuncia la distruzione in cui si cerca di trovare sollievo dal peso di un desiderio troppo intenso, tuttavia immaginarne o sperarne la fine lo rende più forte:
Come l’amante fugge l’altro amante
solo perché non pesi troppo amore,
così sogni un paese dove un vento
gelido abbia distrutto ogni fanciullo.
(Come l’amante fugge l’altro amante, in Confuso sogno)
In ciò consiste la qualità più profonda e sapienziale della poesia, che si confronta simultaneamente con la gioia e con il dolore, con il finito e l’infinito, la realtà e la surrealtà immaginosa dell’eros, che impasta di sé un’utopia intermittente, fallimentare e tuttavia tenace e necessaria. <12 All’illusione si alterna la realtà per quello che è, alla solarità il lutto, e l’anima del poeta è «triste e / calma» (Andare nella vita, in Confuso sogno), consapevole del fatto che la bellezza e la felicità si trovano solo nella lontananza o nell’assenza, in un altrove che si schiude come una promessa:
Esiste ancora al mondo la bellezza?
Oh non intendo i lineamenti fini.
Ma alla stazione carico di ebbrezza
il giovane con gli occhi ai suoi lontani lidi.
(Esiste ancora al mondo la bellezza?, in Confuso sogno)
[NOTE]
1 In questo spazio dimora la grande varietà d’accenti che compongono il monostilismo penniano, che può essere elegiaco e trattenuto, oppure ampio e sobrio, fino a raggiungere spunti prodigiosi.
2 Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 151.
3 Come ha scritto Elio Pecora nella poesia di Penna troviamo «la particella che accoglie in sé la vita e l’universo, l’attimo che chiude in sé ogni tempo» (Elio Pecora, Sandro Penna: una cheta follia, cit., p. 72). E si legga anche Daniela Marcheschi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 15.
4 Ermanno Krumm, Lirica moderna e contemporanea, cit., p. 134.
5 Cfr. Daniela Marcheschi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., pp. 13-14: «In Penna la vita materiale è liberata da ogni valenza comica e grottesca, perché, semplicemente, il poeta l’accetta nella sua datità, al suo grado zero, e può in tal modo trasferirla in una dimensione altamente spirituale. Il fatto è che Penna non mescola mai corpo, mondo esterno, cose: il corpo dell’amato non cessa infatti di essere se stesso, qualcosa di definito nella sua bellezza e grazia, riflesso della immensa bellezza del mondo. Poeta della corporeità significa infatti poeta del tutto, ossia del corpo come carne, mente, spirito; come capacità di progettare, di slanciarsi verso il mondo e di ricordare».
6 Ivi, p. 14.
7 L’eros di Penna è rinuncia e speranza che si rinnova. Così Alfonso Berardinelli: «Non c’è altra legge che quella dettata dagli alti e bassi dell’energia erotica e vitale, con le sue ierofanie della pienezza e della perdita, della presenza e dell’abbandono. […] Penna è aiutato in questo dalla sua religione della fisicità. Il corpo e la vita del corpo sono tutto ciò che Penna conosce dell’anima e dello spirito. […] Il mondo sociale è percepibile, ci offre la forma fisica determinata dei nostri oggetti d’amore. Il mondo storico è invece solo pensabile: non attraverso la memoria che il corpo ha di se stesso nel tempo, ma attraverso la memoria morale e ideologica. A questo secondo sistema della coscienza e della memoria […] Penna ha rinunciato» (Alfonso Berardinelli, Penna o l’altrove, in AA.VV., Sandro Penna. Una diversa modernità, a cura di Francesca Bernardini Napoletano, Roma, Edizioni Fahrenheit 451, 2000, p. 21).
8 Su questo tema si possono dare due letture. Una è quella di Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 177: «Penna si mette fuori dalla storia, ignorandola. È anche lui un borghese, un piccolo borghese […], ma vive e si regola, quindi si esprime poeticamente, come se fosse prosciolto, svincolato da qualsiasi classe sociale. Bisognerà spiegarci meglio: si vedrà che la giustificazione storica, l’esserci della storia, della poesia di Penna è tutto in quel come se. Anticipiamo la spiegazione, dicendo che quel come se, quel come essere fuori dalla storia, è già un prendere atto della storia, già un modo di esserne condizionato». L’altra lettura è quella di Daniela Marcheschi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., pp. 18-21: «È chiaro che Debenedetti pensa alla storia come un assoluto, come STORIA in breve, sede esemplare dell’agire umano; e da questo ha in lui origine l’idea sia del cronachismo sia dell’evasività presunta di Penna: due facce della stessa medaglia, cioè quella dell’esclusiva concentrazione del poeta sui minimi e massimi accadimenti privati dell’esistenza. Ma questi non sono meno “storici” anche se appartengono alla cronaca biografica, non per nulla spunto della moderna storiografia. […] In realtà, i taccuini o i diari di Penna mostrano lacerti d’attenzione alle vicende storiche che smentiscono la presunta sottrazione del poeta alla storia: si pensi, in particolare, alle pagine in cui Penna racconta della ritirata tedesca da Roma, riportate da Elio Pecora nel suo volume biografico».
9 Si legga Alfonso Berardinelli, Penna o l’altrove, in AA.VV., Sandro Penna. Una diversa modernità, cit., p. 19: «In ognuno dei suoi versi si celebra l’assenza e l’irrilevanza di una storia che viene allontanata e messa da parte con il gesto indifferente di chi sta guardando altrove. Sovrana è l’indifferenza di Penna alle vicende del mondo storico. L’irradiante immobilità delle sue immagini è appena screziata dalle vicende di una cronologia che non è storica ma biologica».
10 Così Elio Pecora, Premessa alla nuova edizione, in Sandro Penna: una cheta follia, cit., p. XXIX.
11 Roberto Deidier, L’estate se ne andò senza rumore, in AA.VV., La vita… è ricordarsi di un risveglio. Letture penniane. (Atti del convegno – Roma, 30 maggio 2007), a cura di John Butcher e Magda Vigilante, Roma, Fermenti Editrice, 2007, p. 20.
12 Cfr. Cesare Garboli, Penna, Montale e il desiderio, cit., p. 23: «nella sua divinità, il mondo fanciullesco resta inossidabilmente disumano. I fanciulli trasformano l’esperienza del mondo; la trasfigurano; la rendono vivibile, ma non la cambiano. […] I ragazzini di Penna non salveranno mai il mondo, non essendoci nel mondo niente da salvare».
Andrea Masetti, Una lingua che combatte. Tempo e utopia nell’opera di Penna, Caproni, Fortini e Sereni, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, Anno Accademico 2008-2009