Nei sogni che opprimono all’alba

Le poesie di Daria De Pellegrini si incidono nel lettore come «spigoli vivi»: richiamano a un contatto con la parte della realtà che tendiamo a dimenticare, a scansare, da cui siamo solitamente difesi. Lo spazio in cui siamo condotti è infatti quello più quotidiano e familiare, reso ostile da un dolore che appartiene alla natura stessa delle cose. Lo sguardo di De Pellegrini è educato a riconoscerlo nelle vicende di ogni giorno, negli interni domestici, come nel paesaggio devastato, stagnante, in cui rispecchia la propria vita. “Guasto” e rovina sono condizione stessa dell’esistenza: ciò che si salva è finzione, come le «luccicanti / foglie di una gran palma di plastica». <262 La scrittura si origina da una sorta di sorda e tenace accettazione, come per un’immersione piena nella materia della realtà, mai immaginata o metaforizzata, sempre connessa a un’esperienza vissuta attraverso le fibre del proprio corpo. Fondamentali sono alcuni gesti attraverso cui il soggetto attinge a una forza basica, di resistenza, presente nella natura: immerso in «faccende / diciamo domestiche» <263 o zappando, estirpando erbe, ritrova il contatto con un fare che libera e ricongiunge a una riserva di energia. Nascono così questi versi, affidandosi al ritmo che germoglia dalle cose e dalle vicende della giornata, dono insperato come “la silene che una donna si china a raccogliere da una frana”. <264 Tanto più è cupa e senza scampo la scena, tanto più si innesca la tensione della lingua, per un’implicita possibilità di rivincita. Reclusione e rinuncia appartengono infatti alla postura dell’autrice cresciuta nell’«assedio» delle lunghe nevi dell’infanzia. La propria identità è proiettata in immagini di penuria, di disfatta, di una vita che procede a stento. Eccola così riconoscere la propria vita «nell’alberello / stento che ho sottratto a una scarpata / e ho fatto di Natale», vedersi come «statuina» di un «vasto presepio, assenti la neve, / la natività e la misericordia», <265 e ritrovarsi in quella condizione ultimativa, di solitudine assoluta, senza speranza, che soltanto nella scansione dei versi trova un riscatto:
dedico a me stessa quella storia corta in cui uno
sul far della notte
sul far dell’inverno
perduti i conoscenti
partiti i sentimenti
impreparato al peggio
sbatte le palpebre con un sorriso querulo
a cui nessuno bada
. <266
Brevi tasselli di un romanzo autobiografico affiorano dalla solitudine del presente, avvertito come «residuo» della vita passata. Al centro vi è il rapporto tra una figlia e una madre invalida a cui è dedicata la sezione eponima, conclusiva del libro. La prossemica tra queste due figure è fatta di «spigoli vivi» affilati negli anni, opposizioni radicali e istintive che si risolvono in una sottile identità: non soltanto nel presentimento di un destino comune, ma anche per il riconoscimento di un’eredità accolta nel proprio sguardo:
dall’amore di mia madre
ho imparato a essere cattiva
niente pesi o impicci
a gravarmi sulle spalle
ingenua lei pensava
che facessi un’eccezione.
<267
Questo amore che contiene il suo contrario facendolo affiorare in modo ancora più acuminato e potente, è riconosciuto dall’autrice come il lascito della madre e, ora che i ruoli, per l’avanzare dell’età della madre si capovolgono, sembra volgersi nei confronti dell’anziana donna bisognosa di cure con la giustizia nitida di una vendetta infantile.
Eppure, in questa relazione di tensioni e grumi irrisolti negli anni, vige una corrispondenza che non permette di soffrire senza recare patimento e dolore all’altro, in una catena più o meno consapevole di durezza, rabbia e sensi di colpa. Questa sottile e continua lotta quotidiana a un tratto cambia luogo, come aprendo una momentanea apparente, liberazione per entrambe:
nei sogni che opprimono all’alba,
dopo le veglie rabbiose dei sensi di colpa,
mia madre placata si alza raddrizza
la schiena mi spinge di lato e con un sorriso
di scherno per il mio sfinimento
si avvia spedita verso il ricovero
. <268
La precisione nitida dei versi di Pellegrini disegna i movimenti di questa relazione che sembra avvenire per scatti, come tra due figure legate da un elastico. Attraverso il suo sguardo velato di ironia si fa strada una pietas inavvertita, che affiora dalla materia stessa della lingua chiamata a dire questa vicenda dolorosa e a trasformarla. Lo sguardo di De Pellegrini non fa sconti, non si allontana o schernisce dalla realtà più quotidiana e bassa, anzi, proprio a questa si affida, raffinando le sue doti di messa a fuoco e di capacità di accogliere ogni cosa nel proprio ritmo, e nella sua implicita forza di trasformazione:
legata alla poltrona se la trascina sotto
a furia di strattoni, come un bagaglio
fuori di misura, rumoreggiando in mezzo
agli altri ostili tutti che mai l’aiuteranno
a raggiungere in tempo utile il binario
. <269
In questi brevi acuti fotogrammi che De Pellegrini restituisce dal ricovero per anziani, i personaggi che lo abitano vivono sospesi, in un’esistenza residuale di sguardo, di attesa, aggrappata alle funzioni del corpo, ai momenti del pasto che scandiscono la giornata. La loro condizione è paragonata a quella di esseri senza cura e riparo, come le piante grasse nell’inverno, o a quella di un cibo consumato che potrebbe diventare il loro stesso corpo, come in questi due testi:
in ombra sulla veranda le piante grasse
crescono magre, e quando viene il freddo
nessuno si dà la pena di metterle al riparo
e le vecchie in carrozzina dietro le vetrate
le guardano guardandosi e si chiedono
se mai una di loro sopravvivrà all’inverno.
tra un pasto e l’altro tiene
in tasca un pezzo di pane
che è cibo e memoria di cibo
e tormentandolo in punta di dita
sente quanto poco ci vuole
per fare di sé becchime da uccelli
. <270
Attraverso questa esperienza l’autrice riafferma il proprio contatto con le fondamenta della vita, con la terra, sede di rituali che la riportano, attraverso la pratica dell’orto, a ricongiungersi con se stessa e con le proprie emozioni represse. È così che, di fronte alla paura di restare con le mani “sporche di lutto e di vergogna”, <271 riesce ad accettare l’identità che la lega alla madre e, attraverso questo riconoscimento di un destino comune e di un comune modo di stare nella vita, si spezza anche quel laccio fatto di rancore, odio represso e sofferenza patita e inferta:
Preme nell’afa un residuo d’estate
mentre da sopra la sbarra del letto
lei mi abbranca feroce la mano
mi tiene e mi dice di andare
tu che ancora hai le tue
gambe e una casa.
Sopra gli occhi a fessura che vedono
altrove ha la fronte bagnata – lo stesso
sudore di palude lo sento tra i seni
quando il sonno non viene e come lei
mi ferisco a tentoni fra spigoli vivi.
<272
Il rispecchiamento nei confronti della madre avviene attraverso qualcosa di istintivo e corporeo, in un passaggio di liquidi, in una condivisione della stessa irrequietudine che porta a ferirsi e a soffrire. Il contrasto tra la forza animale del gesto della madre e le sue parole che vorrebbero liberare la figlia alla vita, dice quanto la liberazione possa essere soltanto parziale, in quanto la figlia continua a portare in se stessa, nel proprio essere e nei propri gesti, la madre.
Nell’ultimo testo del libro, il gorgo cupo attorno a cui gravitano questi versi, arriva a sciogliersi nel chiarore di una dissolvenza che apre a una diversa capacità di appartenere all’esistenza: attraverso il rapporto con la madre malata è avvenuta una trasformazione del soggetto che ora è diventato capace di aprirsi, senza sensi di colpa, alla luce: «dal davanzale / sia dato essere nel sole / bolla di sapone e sul selciato / traccia di lumaca». <273
[NOTE]
262 Daria De Pellegrini, Spigoli vivi, Interno Poesia, Milano 2017, p. 15.
263 Ivi, p. 51.
264 Ivi, p. 24.
265 Le citazioni si riferiscono a versi a p. 7 e 8.
266 D. De Pellegrini, Spigoli vivi, cit., p. 47.
267 Ivi, p. 50.
268 Ivi, p. 53.
269 Ivi, p. 55.
270 Ivi, p. 54 e p. 56.
271 Ivi, p. 58.
272 Ivi, p. 61.
273 Ivi, p. 65.
Franca Maria Mancinelli, Percorsi tra la poesia italiana e spagnola contemporanea, Tesi di Dottorato, Università di Malaga, Anno Accademico 2019-2020

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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