Un ulteriore ritorno alla critica d’arte che conferma il transito attraverso la materialità pittorica e poetica del paesaggio, si offre ancora in un pezzo del 1953, in cui Giorgio Caproni affronta di slancio l’opera di un ligure di adozione guardato con particolare simpatia, Rolando Monti. <173 L’euforia esegetica si basa sul gioco fra la materialità innegabile, e la sua trasfigurazione, ostia di una “metafisica del concreto” in cui gli elementi concorrono con la stessa presenza umana: “La Liguria di Monti! La trasparente, delicata, forte Liguria di Monti! […] Una Liguria che sarebbe stupido dire dipinta senza corpo, un poco meno stupido potrebbe essere il dire dipinta nella sua anima, dipinta anzi, si licet il clericalismo, nella sua ostia. […] Smaterializzati e purgati non restano peraltro – così – i paesaggi liguri di Monti: giacché non sono davvero senza corpo, non sono davvero senza peso le sue figure! Accanto a donne abbrustolite come haitiane, senza un’unghia di dubbio si riduce a pura larva l’anemica bimbina, bianca come un baca, che in uno dei suoi quadri sarà dato incontrare: ‘doppio’, più che corpo, di quella bimbina. E quasi una larva di veliero è quello ancorato al di là del molo che sta davanti al terrazzino di Ezra Pound. Ma quei tetti ridotti (se questo vi pare un ridurre!) alla loro pura luce, alla loro pura essenza, al loro puro contenuto, e, appunto, alla loro pura immagine poetica?”
Attratto da ogni altra forma che descrive l’animo genovese e ligure, Caproni carica la scoperta cittadina, e in questo senso la nominazione dei luoghi è ossessiva, di una sovrasignificazione umana, come nel caso fulminante della statua di Enea, <174 scoperta in una piazza secondaria <175 e accolta come un segno di identificazione e ispirazione da mettere naturalmente in relazione ai versi del Passaggio. <176 Probabilmente non si è scavato a sufficienza nel motivo dell’eroe troiano, anche per l’immediato e quasi banale ponte con i versi dietro cui si cela una parte profonda dei temi legati alla guerra, alla colpa di essere sopravvissuto a tanti compagni e alla “vedovanza” collegabile con la scomparsa della fidanzata Olga Franzoni, <177 che avrà nella psicologia dell’autore un impatto dirompente e duraturo, seguendo le metamorfosi di uno spettro mutevole. <178 Il ritrovamento casuale dell’eroe in città fa scattare un meccanismo di riconoscimento valoriale, per cui le sorti dell’umanità, rappresentate nel senso profondo dalla vicenda mitica di Enea, si confermano nella microstoria individuale ambientata in quella città: «Enea a Genova! Enea che, da Troia totalmente incendiata e diroccata dalla guerra, sia pure in monumento finisce la sua fuga proprio in una delle città più bombardate d’Italia. Enea monumentato lì non giustifica forse l’eccezionale meraviglia e l’acuta curiosità che subito la scoperta generò nel mio petto? Perché anche abbassando fino al livello normale la temperatura della propria anima (cioè spegnendo del tutto ogni lirismo) resta pur sempre pungentissima questa domanda: cosa c’entra a Genova un monumento a Enea?», per proseguire poco più avanti: “I genovesi voi li conoscete. Conoscete questa nazione chiusa, con la sua chiusa lingua in salamoia e le sue chiuse tradizioni e, soprattutto, dei genovesi, conoscete il chiuso spirito mercantile, pronto a vendere, come una qualsiasi Corsica, perfino un mito come quello d’Enea. Ma ora vedete se non vi sembra il caso di riesaminare tali vostre conoscenze: di batterle una per una, come monete, sul marmo di questo monumentino, in modo da verificarne dal suono se per caso non fossero false”.
7.2. Vedute cittadine
Senza abbandonare l’assunto di un motivo filosofico e culturale scaturente da un paesaggio enigmatico nella sua interna tensione fra entroterra, città e riviera, vissuto anche tramite il filtro della poesia, Caproni si prova in maniera frammentaria a fare i conti con un’appartenenza territoriale nel momento in cui diviene morale e ancora estetica, cercando nel corpo del panorama il germe di una comunanza riconoscibile.
Il ritratto di un territorio così altamente simbolico nella trasfigurazione artistica operata in parte rilevante dalla poesia, si compie nel corso di circa quarant’anni, ma il primo passo di questo itinerario è un memorabile ritratto di Genova all’indomani della Liberazione. <179
Rivolgendosi all’amico Libero Bigiaretti, che tanta parte avrà nel suo primo periodo romano, Caproni descrive in soggettiva i luoghi di una città offesa e piegata, adottando il tono quasi sperimentale di un “neorealismo lirico” che prova a rendere i casi del proletariato genovese con una prosa ricca di riprese e ripetizioni, sottilmente tramata di espedienti retorici solo in parte volti a un’eleganza rude, e più spesso necessari a un discorso che prova a comprendere nel respiro del periodo lungo e ben costruito l’afflato fine e popolare fatto di visi umili e vicende di piccola umanità brulicante tra le macerie “rosee e bianche”: <180
«Non dico dunque che Genova ora è plebea: dico che si è screziata di plebe. Ed è già tanto, ed è già troppo, perché a Genova una plebe non è mai esistita, nemmeno in Prè esisteva prima la plebe, nemmeno a porta Soprana, forse nemmeno a Ravenna dove vigeva una miseria gelosa di sé e quanto mai pudica, che non avrebbe varcato coi suoi cenci e coi suoi mocci i confini del sacro centro per tutto l’oro del mondo». <181
Con incedere sontuoso e dimesso, la rassegna dei luoghi della città continua stemperandosi sul gusto del porto «abbandonato come un campo da tennis», <182 o dello Strega, «un muraglione a picco sul mare» <183 dove «andavano a fracassarsi la testa che non reggevano più, scossa dal vento della disperazione, i suicidi», <184 cogliendo immagini genuinamente espressive, in preparazione delle cronache del dopoguerra.
L’ultimo panorama della città, una città stranamente vitale in cui si coglie forse il germe e l’entusiasmo della rinascita, è affidato al connubio della luna e della prostituta che spende i suoi malinconici sorrisi ai camion in partenza:
“E fu lì che trassi l’ultima immagine di Genova: la giottesca luna rotonda nell’aria ancora leggermente diurna – la donna fino al sangue tinta e col vestito che copre appena le nude cosce troppo mature, tutta occupata a sorridere professionalmente a ogni camion del convoglio che, ben oliato, con le sue buone gomme sul fondo liscio e netto, transita in quell’istante: a sorridere camion dopo camion, uno per uno, benché nessuno le rispondesse, mentre la luna a poco a poco si alzava, era già alta la luna, e l’ultimo camion non era ancora passato, ed essa non aveva consumato ancora l’ultimo suo sorriso”.
Nel letterato che va alla ricerca di una immagine collegata alla natura idillica dell’esistenza, pure nell’urgenza di una situazione storica drammatica, si riconosce il fondo di una educazione genuinamente umanistica, a cui si allega il mito della presenza poetica. Ed è proprio in nome di una “ricerca dei simili” che si chiude il passaggio di Caproni nella Genova bombardata del dopo-Liberazione, dove le figure vagheggiate di Montale, Cherchi, <185 Sbarbaro, Saccarotti <186 e Barile, affollano la mente del poeta, che non può fare a meno, quasi fosse un vizio dell’anima, di rivolgersi alle sue guide predilette nel momento di una così grave crisi. <187
L’elaborazione intima di un piccolo canone di nomi, pure in grande anticipo sulla corrente ligustica, <188 ci conferma nell’idea di una base empirica e personale, che porrà l’autore di fronte alla responsabilità di una “scoperta” critica.
La calata del poeta si chiude con lo scacco di una umanità nascosta, dove le idee della poesia non possono fare altro che ritirarsi ad aspettare, ed è suggestivo pensare che l’unica figura reale nella conclusione della Lettera sia quella di un filosofo, nell’elenco fitto di artisti.
Va inoltre segnalato come, nella testimonianza dello stesso Caproni, la Liberazione e la Resistenza rappresenteranno la fine di un’epoca anche dal punto di vista letterario, quel momento cioè in cui la versificazione si arrende ai talenti più attuali della prosa, unica espressione utile a raccontare la storia di quei giorni: “Basta, non c’era un pontile d’imbraco per la mia nave, Libero. Gli artisti e i letterati di Genova non hanno più ritrovo, la mia nave era impaziente di salpare per i suoi sassi, non poteva stanare altri visi alla periferia o nelle redazioni o nelle chiuse case. A me urgeva ormai raggiungere quel punto della Val Trebbia che ti ho detto, e l’indomani mattina, subito, scavalcando tutti i ponti rotti, io lo raggiunsi quel punto, alfine […]”. <189
Passando dalla città natale, contrapposta a Genova già nel 1948, Caproni va a definire il seme di una divisione che passerà con abbondanza di frutti nei versi. Il “genovese di Livorno” si trova a rielaborare in prima istanza lo spazio di una città della mente, che «esisterà sempre finché esisto io […] col suo sapore di gelati nell’odor di pesce del Mercato Centrale lungo i Fossi, e con l’illuminato asfalto del Voltone», <190 accostata alla figura dell’infanzia-madre. Esattamente all’opposto della Lettera si pone una nuova visita in città, di cui si rende conto nel pezzo Genova città di gesso, <191 rendiconto della prima ricostruzione. Con un tono da retorica in minore, che vale nelle intenzioni del cronista l’efficace avvicinamento a chi legge senza abbandonare la cura della prosa d’arte, si procede per fotogrammi, tracciando una prospettiva che unisce l’evocativa vista dall’alto <192 alla calata nel buio dei caruggi e dei vicoli intestinali, con l’effetto di uno zoom in cui non mancano le referenze letterarie e artistiche care al ritrattista.
È così che sulla città si ravvisa un’aura «bianca, gessosa come l’osso di seppia asciutto al sole», <193 mentre i luoghi accolti nel ragionamento in versi <194 fanno capolino descrivendo una geografia che a sua volta inizia a sfumarsi, dato che Caproni, lo ricorda in apertura d’articolo, ha raggiunto la città «di mattina da Roma (dalla luce di terracotta di Roma e da quella cupa e millenaria erba dell’agro)». <195
A chiudere il ritratto della varia umanità è di nuovo la figura di quelle «donne dei marinai, sepolte nel belletto e nella luce elettrica anche al solleone, con le loro carni abbandonate dagli alleati e tornate merce casalinga sotto le velature anch’esse azzurrine e gessose delle ciprie e degli organdis». <196
In un senso non deteriore ma di contorno, bisognerà recepire in questi primi anni le altre manifestazioni d’attenzione alla città, e più precisamente nei campi d’azione che saranno la sfumata appartenenza, o declinazione politica ed il vago eruditismo, clivi entrambi che si accentuano a seconda dell’occasione. <197
La curiosità per il territorio genovese, <198 e per la sua storia, vale, in maniera ormai assodata, come base di partenza per bozzetti di carattere non artistico, e il passo di un ipotetico personaggio sulle tipiche stradine del genovesato dette «cröse», <199 può accogliere in sé una sfumatura allusiva che rappresenta la buona occasione per un ritratto all’aperto dal tono naturalista o macchiaiolo, a tema placidamente socialista, come se le stradine tipiche dei dintorni popolari della città e l’umanità che le percorrono fossero un tutt’uno che richiama a sé in un ragionamento stilistico ancora avulso dalla politica ma ad essa esteticamente solidale, dove la ricerca del bello, ma non attraverso il rinnovamento dell’impianto filosofico, si sposa alla speranza di un rinnovamento sociale. È così che la «plurimilionesima parte di ciò che i giornali chiamano proletariato», <200 dopo aver attraversato i quartieri di Quezzi o Marassi, «dove nella gola del Bisagno asciutto sono i parallelepipedi altissimi e stretti delle case popolari», <201 può concludere la sua camminata «allegramente per i fatti suoi […] a mangiare una minestra o a mettere in moto un motore, a baciare una ragazza o a risolare un paio di scarpe: a fare insomma una cosa vera per sé e per gli altri, e quindi con mille buone ragioni per aver quel passo sciolto che vedete e per fischiettare con la mano destra in tasca». <202
Ci bastano queste poche righe per inquadrare l’esperienza volta a un socialismo popolare, in cui le stradine del genovesato saranno il punto di partenza per un approdo che si rivelerà, in fronte alla riviera, scettico, esistenziale.
[NOTE]
173 «Buon genovese già. Anche se genovese nato da genitori umbri nell’etrusca Cortona. Anzi, proprio perché genovese così […]», Rolando Monti e la Liguria, «Il Lavoro nuovo», 3 giugno 1951, Prose, pp. 439-41, p. 440.
174 Fra gli altri articoli cfr. Monumento ad Enea, «Voce adriatica», 20 ottobre 1948, e Noi Enea, «La Fiera letteraria», 3 luglio 1949, rispettivamente ivi, pp. 315-17 e 399-403.
175 «Enea, m’ha riferito il bravo cronista, giunse in piazza Fossatello, a Genova, nel giugno 1844. Aveva prima sostato a lungo in piazza Soziglia e anche in piazza Lavagna, e a riceverlo in piazza Fossatello furono le bisagnine, cioè proprio le erbivendole, le quali, secondo le esatte parole dello stesso cronista, “gli fecero buona accoglienza data la comodità ch’esse ottenevano per lavare gli ortaggi”», Noi, Enea, cit., p. 401.
176 Pubblicato da Vallecchi nel 1956, cfr. L’opera in versi, p. 1127.
177 «Perché mai allora io, dico un uomo sperduto come me, cui sono incanutiti molti capelli pensando ch’era giusto che costoro (costoro ch’erano stati i torturatori e i carnefici dei compagni nostri); pensando ch’era giusto che costoro venissero fucilati com’era giusta la pietà che ne provavo; perché mai, mio Dio, nemmeno dopo la guerra e le fucilazioni, so dimenticare il profondo e oscuro senso di colpa che in me irragionevolmente cresce col tempo ripensando alla morte, in fondo così piccola in un mondo dove milioni d’uomini si sono distrutti senza un filo di rimorso o pietà, ch’ora avanzava accanto a me in quella stanza verso il debole viso di Olga?», CAPRONI, Il gelo della mattina, in ID., Il labirinto, Milano, Garzanti, 1992, p. 110.
178 «Enea è un uomo il cui destino m’ha sempre profondamente commosso. Figlio e nel contempo padre, Enea sofferse tutte le croci e le delizie che una tale condizione comporta. E dico, si capisce, Enea non come progenitore della stirpe Julia, di cui non m’importa un gran che, sibbene come uomo posto nel centro d’un’azione (la guerra) proprio nel momento della sua maggior solitudine. Enea che non ebbe una madre (esser figliolo d’una dea equivale ad esser figlio d’ignota), e che a questa prima condizione di solitudine e alla vedovanza aggiunse, terrificante, l’altra che abbiamo detto», Monumento ad Enea, cit., p. 315.
179 Cfr. Lettera da Genova, «Aretusa», I, 9, novembre 1945. A questo filone si addebitano anche pezzi come Io genovese di Livorno, «Italia socialista», 22 febbraio 1948. Genova città di gesso, «Italia socialista», 22 luglio 1948; Le stradine del genovesato, «La Repubblica», 25 maggio 1948; «La Fiera letteraria», 25 dicembre 1955; «Immagine di una città», «La Fiera letteraria», 4 ottobre 1959; Nelle chiese di Genova il rumore del mare, «Corriere mercantile», 25 febbraio del 1960; Viaggio a Genova, «L’Espresso», 24 gennaio 1982.
180 Varrà la pena ricordare che proprio nell’ambito di un concorso bandito da «Aretusa», Caproni nel 1946 si aggiudicherà un premio di 10.000 lire con il racconto Giorni aperti.
181 Lettera da Genova, cit., p. 146.
182 ivi, p. 148.
183 ibid.
184 ibid.
185 «Diciamo subito che, anche nel giovane Cherchi, quel che più ci piace è proprio quel suo felice ritorno, tentato finora con tutta onestà, all’originaria funzione della scultura italiana: la quale, più che al “frammento”, mira piuttosto a una vera e propria compiuta estrinsecazione che vorremmo dire “narrativa” del sentimento plastico, se questa parola non ci conducesse ad equivoci di natura letteraria. Una “narrazione”, insomma, intesa non nel senso proprio di letterario racconto (col suo svolgimento nel tempo) ma nel senso invece (un poco come accade nella lirica) di contemporaneità di più motivi insieme composti, sì quasi a dare all’opera una funzione di spaziale rappresentazione, che vorremmo dire propria per distinguerla dal letterario) dal racconto plastico», Arti belle in Liguria, cit., p. 37.
186 «Oscar Saccarotti, […] è giunto alla sua conclusione proprio attraverso una tormentata e “voluta” esperienza: esperienza che si è svolta non solo nello spazio (Italia ed estero) ma anche, e più, nel tempo (Ottocento e Novecento). Certi suoi ‘fiori’ e certe sue ‘nature in silenzio’ (il neologismo però non ci piace) dipinti con quei toni tra grigi e azzurri e rosei che son tutti suoi, – e adattissimi del resto a soddisfare (per quella poesia che in sé contengono tali oggetti) lo spirito eminentemente malinconico e agreste del nostro – bastano a farci riconoscere in lui un pittore, come volgarmente si dice, nato», ivi, p. 38.
187 «M’infilai come un topo su per la salita di Santa Caterina, m’imbucai nel budello che da Santa Caterina porta alla redazione del “Lavoro Nuovo”, e lì alfine lo trovai qualcuno: Ciccirelli m’accompagnò da Poggi, ritrovai Alfredo Poggi annerito dal campo di concentramento, non più a scuola, in cattedra, ma sulla plancia del suo giornale. E fu una commozione grande per me rivedere, come una pietra cariata dai fulmini, colui che conoscevo col cuore come uno dei più giovanili maestri d’Italia», Lettera da Genova, cit., p. 151.
188 Ci troviamo circa un decennio a monte di quella serie.
189 Lettera da Genova, cit., p. 151.
190 Io genovese di Livorno, «Italia socialista», 22 febbraio 1948, Prose, pp. 281-3. Interessante, tra l’altro, la caustica definizione, in apertura, dell’opera più celebre di De Amicis: «[…] Cuore, questo tremendo libro d’un uomo che, senza un filo di carità o di poesia, allettava i bambini per farli piangere e per ricavarne tanti piccoli funzionari dell’esistenza: tanti futuri “scrivani fiorentini”, inzuppati fino alle midolla di lacrime e di sopportazione sotto la mano di pietra d’un loro Iddio piccino e cattivo come un capufficio».
191 «L’Italia socialista», 22 luglio 1948, Prose, pp. 289-92.
192 «E m’è parso anche che quelle calcine nude dessero maggior consistenza a un’antica immagine di Genova vista da Castelletto, dove ancora cospirano i gatti teppisti cari a Gianna Manzini, o dal Righi: di Genova come città di macerie, quale è sempre apparsa dall’alto spaziando l’occhio sui vecchi muri di grigiobianca arenaria e sui tetti chiari d’ardesia, disordinati e con tutte le loro scaglie addossate l’una contro l’altra», ivi, p. 289.
193 ibid.
194 Stando alle date, ci troviamo nel periodo subito posteriore alla composizione delle
Stanze della funicolare, cfr. CAPRONI, L’opera in versi, cit., p. 1145.
195 Genova città di gesso, cit. p. 289
196 ivi, p. 291.
197 Mi riferisco ai pezzi Le stradine del genovesato, «La Repubblica», 25 maggio
1948 e L’acquasola dei nostri nonni, «Il Lavoro nuovo», 13 gennaio 1949, Prose
rispettivamente alle pp. 303-5 e 325-7.
198 «[…] la salita del Seminario a lato di via XX Settembre, o le innumerevoli salite di Sant’Anna, di San Nicola, di San Rocchino, di Sant’Ugo, dell’Incarnazione, delle Convertite, delle Giannelline, delle Dorotee, e via dicendo (portano tutte un nome religioso, e tutte sono ‘salite’, il toponomasta locale non essendosi mai posto dal punto di vista adatto per considerarle ‘discese’, giacché il luogo d’ogni litoraneo, si capisce, è il livello marino)», Le stradine del genovesato, cit., p. 302.
199 «Stradine come questa, a Genova e nel genovesato, le chiamano chissà perché ‘cröse’, e sono inconfondibili, fatte di viva ghiaia marina incastonata nel terreno, con in mezzo la guida rossa dei mattoni di costa: vie nitide e pulite, lavate dalla pioggia e spazzate dalla tramontana, le quali nulla hanno a che fare coi famosi ‘carrugi’ della zona intestinale della città», ibid.
200 ivi, p. 305.
201 ivi, p. 304
202 ivi, p. 305.
Fabrizio Miliucci, Lettore e letterato: attività critico-giornalistica (1932-1989) di Giorgio Caproni, Tesi di dottorato, Università degli studi Roma Tre, 2016