Non è semplice tematizzare l’attività poetica di Bigongiari

Piero Bigongiari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le esperienze letterarie del primo Novecento tendono a sdoganare le regole della sintassi e della punteggiatura e la poesia assume un linguaggio più suggestivo e maggiormente impressionista. Dal 1916, quando Giuseppe Ungaretti pubblica Il porto sepolto, i poeti ermetici usano la parola in modo nuovo, irrelata e separata, purezza espressiva e pienezza di significato, similitudini e analogie, pause e spazi bianchi, ritmo personale (sillabico in Ungaretti, vibrante in Quasimodo, cadenzato in Montale), polisenso e polisemia, abolizione parziale o totale della punteggiatura. Il punto di riferimento degli ermetici puri rimane Ungaretti, esponente di maggior caratura di questa poesia tanto ardua quanto nuova in cui emergono anche punti di vista non strettamente ermetici come ad esempio in Sereni, Caproni, Sinisgalli, Gatto e Bertolucci. Il discorso sulla poesia di Bigongiari, in consonanza letteraria con Luzi e Parronchi, si prospetta come una teoria di segni, un codice attuato con la trasfigurazione simbolica dove la formula del “critico come scrittore” <3 si impernia sul tema dell’assenza, dell’attesa e della memoria, riferimenti primari, interni e personali del nesso messaggio-forma di una poetica che enuncia la “letteratura come vita” <4 trasparire l’arcano familiare quale assioma di avvicinamento all’interiorità. “Questo è il Serchio/ al quale hanno attinto/ duemil’anni forse/ di gente mia campagnola/ e mio padre e mia madre” <5.
In Bigongiari il riferimento all’antimateria consiste nella materia-forma, impronta materico-formale che teorizza l’approccio alla modernità e favorisce l’atto della fantasia e la prassi del creare. “Alla base del tentativo di raccordo è quantomeno l’ipotesi d’una critica testuale come collaborazione e complemento a quell’oggetto solo apparentemente finito, il testo scritto quale l’autore lo consegna al lettore”. < 6.
La produzione del Nostro, sempre eterogenea e versatile, tra le principali opere dell’ultimo periodo annovera proprio la raccolta «Antimateria» in cui si rivela la spiccata sensibilità e l’acuta percezione dell’autore verso una materia immaginaria, assimilata alla materia reale. L’impianto lirico del libro si articola in nove sezioni (Lingua unica, Materia-Forma, Terre emerse, Plancton, Il segno muta, La parola insensata, Gli animali parlanti, Suite newyorkese, Trasmutazione) così da evitare la congruenza tra un reale ed un altro reale antitetico al primo con la cristallizzazione dei segni, invece la parola quale topos letterario tende a costituirsi nella parola insensata, la parola innervata di sensi, che recupera se stessa negli archetipi primordiali. “Ti chiamo fratello perché ho esaurito tutti gli altri nomi/ ma forse il nome è ancora l’inferno di una bugia/ Vieni anonimo al mio fianco, tutto quello che mi è accanto/ è in me” <7.
In questo, come in altri componimenti, unitari se pure divisi in strofe, in versi polimetrici liberamente rimati con rime perfette e imperfette, i frequenti enjambement, l’agilità lessicale, gli spazi bianchi e i silenzi, le immagini metaforiche, il poeta va nella direzione dell’essere umano, chiamandolo fratello, parola “integra e sacra” nella forma che svolta nella “parola-mano”, la “parola-bocca, la parola-uomo ed invita a guardarsi e a sorridere “sulla terra spaccata/ dalle sue vene profonde” <8 mentre il continuo ricorrere all’antimateria ossia alla materia illusoria, fantastica e irreale giustifica il ripetersi degli elementi tematici dall’una all’altra sezione in cui si articola il testo. Le affinità della parola di Bigongiari con quella di Montale risiedono nei legami fonici, nelle strofe disuguali ovvero, come in Montale, formate anche da endecasillabi, negli spazi bianchi, nel verso lungo novecentesco, nell’alternanza dei versi, nelle argomentazioni e nelle riflessioni che rimandano al paesaggio esterno e a quello interiore. Nel poeta genovese l’aderenza all’oggetto diviene invocazione affinché non si chieda, non si domandi una parola che possa far quadrare le informità dell’animo oppure una formula in grado rivelare mondi nascosti perché la vera impronta dell’uomo è quella che la calura “stampa” sull’intonaco di un muro scalcinato e riarso. “Le antiparole del dramma” risulta essere uno dei componimenti fondanti di Antimateria in cui “le costanti di situazione o frequenze nominali” <9 sono disseminate nella scrittura ed emergono nei toponimi e nei motivi simbolici. In questa alternanza di esposizione alle diverse gradazioni di luce si accorcia la dimensione dello spazio – tempo e il silenzio preverbale, l’assenza di suono che precede la parola, distingue e separa l’indicibilità dal dicibile. “Separava – o univa – cielo e mare/ il segno che tracciava la sua riga/ attenta, anche compunta, non felice/ né infelice: il sospetto di una riva/ tra fulmini o un candore di vetrate” <10 Nell’opera bigongiariana la matrice larica combacia col viaggio compiuto nel Mar Sottile, il mare interiore che l’essere naviga prima di poter raggiungere la completezza del sé, e questo girare tra le terre dei lari collima con l’autobiografia del poeta ed è sempre l’essenza della parola a suscitare un’altra parola. Infatti il vocabolo “sangue” richiama i giorni della guerra a Firenze “I lari sobbalzano ancora sui carretti di guerra,/ cola il sangue tra le fessure, riga via Ricasoli/ fin d’un labirinto che ho seguito a capo chino”
< 11 e il lare oltre alla funzione protettiva assume una connotazione di urgenza, di disastro, una insensatezza di senso come si riscontra nelle diverse impronte del linguaggio bigongiariano. Qui la parola tocca il tangibile, lo traguarda, lo allontana da sé e, rincorrendo la parola che “significa”, realizza l’oggetto. “Laggiù l’isola/ sfavilla, una Gorgona piena d’aria/ impietrita, mia vita che a San Jacopo/ bevi ancora caffè, e l’acqua viva/ cerca la terra […] ma bagnate/ le ciglia ora dai flutti che immortalano/ la loro eternità nel Mar Sottile,/ i datteri di mare che si radicano/ nella pietra, la pietra che si radica/ in un fiore selvaggio e inattendibile” <12.
Il poeta si trova sul lungomare di Livorno nella piazza di San Jacopo in Acquaviva e mentre il mare con la sua “acqua viva” per quella documentata e non più esistente polla di acqua dolce, lambisce la pietra degli scogli dove i mitili stanno confitti, mira l’isola della Gorgona che da lontano appare lucente, ariosa, ma al contempo ferma, aerea ma allo stesso tempo simile ad un ammasso di pietra. Echeggia in questi versi la prosa diaristica di Campana che, ricordando il viaggio alla Verna, descrive la Falterona come un gigantesco cavallone, un’onda enorme, pietrificato e di colore verde e argento da cui traspare il sorriso della dea Cerere. Ma ritorna anche il mito allegorico della Gorgone che ghiaccia quanti osano guardarla negli occhi, come a dire del tratto distintivo e chimerico della poesia ermetica. Non è semplice tematizzare l’attività poetica di Bigongiari, più che di temi bisogna parlare di motivi, più precisamente di moventi quali categorie e sistemi di astrazione. La matrice orfica, recuperata nell’opera di Bigongiari, compare come elemento reale a difesa del dettato poetico, della sua verità, della sua natura e del suo orfismo.
E la memoria orfica, che sia o non sia provvista di coscienza, non richiede tale percezione perché è immediata e sa costruire anche al di fuori del suo universo per cui non necessita “di una coscienza posseduta come cosa altra da se stessa, giacché il valore memoria, in tale disposizione orfica, ha sussunto naturalmente il valore coscienza” <13: per gli ermetici l’oggetto della poesia non è più la negatività, la privazione, la mancanza di una forma, la consuetudine del divenire, ma la disposizione ad accogliere il sentimento, il messaggio dell’animo, la morfé come principio di sostanza e razionalità, e “per il poeta , la categoria più cordialmente sentita sarà la sua velarità, la sua trasparenza: e questo sarebbe un ritorno all’oggetto come allegoria” <14.
Come nella tradizione di Ungaretti e Campana per Bigongiari il viaggio è conoscenza e recupero delle proprie radici mentre la triade morte – vita -viaggio è richiamo all’archetipo dell’origine con la presenza degli elementi acqua e terra. L’oltre presuppone sempre un approdo che talvolta può coincidere col punto di partenza o viceversa in una tensione ciclica da cui trapela la dinamicità dell’orfismo mentre gli elementi topici della poesia del Nostro, l’amore, il dolore, la morte, sono orientati verso la semantica dei segni e l’azione vibrante della parola. Di conseguenza il lare può essere rappresentato da un colore, un profumo, uno scorcio, un personaggio, un suono, ma non resta confinato nel proprio limbo bensì si inserisce e si integra nel discorso lirico.
La “mosaicità” del titolo Antimateria è riferita alla missione del poeta, in questo caso del poeta novecentesco, isolato nella confusione dei segni, allusivi per sonorità e forma; non a caso esiste il riferimento bigongiariano alla pittura di Pollock, anche in concordanza al tracciato di quella parola dagli innumerevoli sensi. Come ultimo discorso di complemento e raccordo con l’intera opera di Bigongiari, bisogna dire di quei “rari poeti e i nuovissimi [che] tentano una memoria di natura orfica, una memoria che non ha bisogno di fingere perché non si distacca mai da se stessa, ma giace perennemente nel limite di un’eterna presenza” <15.
[NOTE]
3 SILVIO RAMAT, Op. cit., p. 30.
4 Ivi, p. 34.
5 GIUSEPPE UNGARETTI, in PIER VINCENZO MENGALDO (a cura di), Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano, 1990, p. 394.
6 SILVIO RAMAT, Op. cit., p. 112.
7 PIERO BIGONGIARI, “La parola insensata”, in ID., Antimateria, Mondadori, Milano, 1972, p. 189.
8 Ivi, p. 190.
9 SILVIO RAMAT, Op. cit., p. 116.
10 PIERO BIGONGIARI, “Le antiparole del dramma”, in ID., Op. cit., p. 125.
11 Ivi, “Lari in cammino”, p. 7.
12 Ivi, “Due giorni di viaggio scrutando sul Mar Sottile”, pp. 143-44.
13 SILVIO RAMAT, L’ermetismo, La Nuova Italia, Firenze, 1969, p. 139.
14 EMILIO VILLA, cit. Frontespizio, agosto 1937, in SILVIO RAMAT, Op. cit., p. 170.
15 ORESTE MACRÌ, Del nostro umor filosofico, cit. Corrente, 30 luglio 1938, in SILVIO RAMAT, Op. cit., p. 138.
Lucia Bonanni, Realtà e antimateria nella voce poetica di Piero Bigongiari, Academia.edu

«Il problema, più che altro è di non bloccare mai il moto interno della creazione in immagini definite e stabili, immobili, ma piuttosto di lasciare aperto il corso, il flusso» <24 : queste parole sono di Luzi, ma l’interlocutrice, Bernardi Leoni, proprio nella fase di riflessione sulle poetiche informali, le rincalza suggerendo un pensiero bigongiariano, questo: «Bigongiari, associando la propria poetica alla sua, dice che il poeta è il “momento captante, il momento tracciante di un linguaggio scatenato”» <25. Ed è facile notare che l’orientamento assunto da Bigongiari, per certi versi condiviso da Luzi, tende, comunque, a dissociare caso e irrazionalità, caso e involontarietà <26.
Ancora una volta, serve storicizzare: in sede di riflessione poetica personale l’idea di un « surrealismo razionale» è confermata fino agli anni Sessanta, quando Bigongiari insiste nell’indicare una «situazione storica» all’ermetismo (alla propria generazione) « tra il surrealismo e l’informale» <27.
Tuttavia, sebbene il coagulo forte di questa concezione si situi, come si è visto, negli anni della raccolta degli studi pittorici, che chiariscono il rapporto tra ermetismo e informale, il maturarsi di questo scambio di ruoli, da «non ragione a ragione», come la critica ha ampiamente rilevato, continua la temperie riflessiva di qualche decennio prima. Negli anni fra Quaranta e Cinquanta, quando, non casualmente, Bigongiari costruisce la sua opera poetica e nel contempo legge e fa leggere in Italia gli scrittori francesi: non solo Mallarmé, Breton, Reverdy, Éluard, ma, soprattutto, Char, Ponge, Bonnefoy, Deguy, Michaux, Dupin. Gran parte degli studi raccolti nei volumi Il senso della lirica italiana e Poesia francese del Novecento risalgono a quel periodo <28. È risaputo, infatti, che la lezione dei surrealisti francesi di prima, seconda e terza generazione ha contribuito alla vicenda poetica e riflessiva di Bigongiari per una personale immersione alle origini della poesia ed ha avuto, insieme ad altre suggestioni filosofiche (non ultime quelle scientifiche), una sicura influenza circa la consapevolezza critica e teorica delle tendenze poetiche; una consapevolezza, come si può vedere, che traccia confini rispetto alle esperienze coeve: “L’ermetismo, tra il surrealismo e l’informale, ha agito come la spada di San Giorgio liberatrice della principessa incatenata agli scogli del subconscio […]. La mia generazione affrontò i cosiddetti mostri della ragione: non perché non ragionasse più, e si desse all’automatismo surrealista […] ; bensì per portare al limite il nuovo segno poetico, sapendo che il significato nasce al limite, tutto adempiuto del significante: laddove esso scocca in una direzione e in un senso che ne verificano l’intenzionalità”. <29
Ma, appunto, Bigongiari parla di «caso intenzionato», teso a correggere lo «hasard objectif». Che cosa significa ? Che cosa ha tagliato la spada di San Giorgio? Che cosa ha liberato? Il caos? E chi lo ha tentato, e in che modo? Il «poeta è il momento captante, il momento tracciante di un linguaggio scatenato » ricorda Bigongiari. Al poeta basta una notte buia per sperimentare lo scenario surreale del caos, come in questa poesia, intitolata Buio a New-York, e, come per effetto di una memoria involontaria, farne riaffiorare dal fondo, nuovamente trasformato, nel ricordo biografico di colui che traccia, che «segna l’area / dov’era la casa» (vicino alla stazione di Navacchio), la città dell’infanzia: Pistoia (e quella del poeta adulto: Firenze); il buio attraversato; l’instabilità della vita; l’evento esistenziale che, «passo dietro passo», ha trasformato il bambino in uomo:
“Il tordo annusa il fiume col suo peso
miraggio, l’acqua va, seguita a andare
torbida al sole, lenta, verso il mare.
New-York è al buio, i pazzi nelle celle
non vogliono questa notte a cui l’uomo
non sa opporsi, le sotterranee sono
piene d’uomini talpe, saltano sui binari
morti che conducono all’infinito
sempre allo stesso punto.
Dicono i giornali:
« interruttori automatici saltano, fontane
di scintille si levano dalle stazioni in trasformazione,
colano dalle linee aeree ad alta tensione… »
Non sporgerti
dal treno fermo, Nicht hinauslehnen,
c’è cresciuto il bambino troppo piccolo
per sporgersi, col naso sopra e gli occhi,
tra Pistoia e Firenze e poco oltre
lasciati i primi poveri balocchi […]”. <30
[NOTE]
24 Margherita Bernardi Leoni, Colloquio con Mario Luzi, in Informale e Terza generazione, cit., p. 67 e Adelia Noferi, Introduzione, ivi, p. XXXVII.
25 Ecco la risposta di Luzi : « Sì questa è un po’ la premessa, nel senso che io ho cercato sempre, anche perché mi ripugnava ideologicamente, di non dare l’anticipazione, l’a priori del giudizio, ma, in un certo senso, ho cercato proprio di essere il medium di avvenimenti a tutti i livelli, che ad un certo punto si catalizzano sullo scrivente, su colui che scrive, ma non gli appartengono. Il famoso « ego » non deve essere un punto di arresto, ma semmai di drammatizzazione di sensibilizzazione del reale » (ibidem).
26 Si veda : la frase « Diventa che sei », posta come esergo ad una delle sue più importanti e suggestive raccolte poetiche, Rogo (1944-1952), ora in in Tutte le poesie, I (1933-1963) con la raccolta inedita L’Arca, a cura di P. F. Iacuzzi, cit., p. 128.
27 P. Bigongiari, Éluard un classico[1968], in La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Milano Rizzoli, 1972, pp. 244-245.
28 Rispettivamente, Firenze, Sansoni, 1952 e Firenze, Vallecchi, 1968.
29 Intervista non immaginaria[1973], in Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia I965-1997, a cura di A. Dolfi, cit., pp. 28-29.
30 P. Bigongiari, New-York al buio, in Antimateria (1964-1971), Milano, Mondadori, 1972, pp. 57-58 (ecco i versi mancanti : « Ne pas se pencher au dehors, / dehors c’est la nuit, elle n’est pas humaine, // la corrente è invertita, è instabile : è instabile la vita, tu non scendere / non salire, ti fa-scia questa immota / benda che porta il sangue in superficie / a fiorire all’oscuro, ma forse è / questa la fioritura che qualcuno attende, // questa la festa, nervi cartilagini / l’insieme che può dirsi uomo, ossa / pensieri vene passo dietro passo / che segna l’area dev’era la casa. / « Dalle stazioni di trasformazione » / e già s’è trasformato un bimbo in uomo / « scintille si levano, colano dalle linee ad alta tensione… »).
Enza Biagini Sabelli, «Piero Bigongiari: i «giochi del caso» fra teoria, critica e poesia», Italies, 9 – 2005

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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