TrallalerOnline intervista Giuliano d’Angiolini, classe 1960, etnomusicologo e compositore. Sulla nostra rivista, alla categoria “In libreria” potete trovare a questo indirizzo una scheda del suo volume Canti tradizionali della Val Nure – Il coro di Farini.
TRALLALERONLINE: Cosa significa per te l’etnomusicologia oggi?
D’ANGIOLINI: Ho cominciato a studiare l’etnomusicologia seguendo i corsi di Diego Carpitella nel 1975: ero ancora al liceo… In seguito, avendo scelto la strada della composizione, ho abbandonato, per molti anni, ogni attività in campo etnomusicologico; con la convinzione che le tradizioni orali – con la fine del mondo contadino – erano da considerarsi in grave crisi e che la società del futuro avrebbe avuto bisogno di una nuova musica, la nostra, dei compositori. La seconda considerazione non era che una pia illusione, mentre la prima era giusta, ma non del tutto. Come dico spesso, le musiche di tradizione orale possono permanere vive anche quando scompare il tessuto sociale che le ha generate e che le sosteneva, proponendosi come simbolo di un’appartenenza etnica e culturale, come vessillo di identità.
Il punto è se il loro persistere sia costruttivamente evolutivo, inventivo e creativo, o se invece resti congelato in un atteggiamento “museale”. In Italia le innovazioni che non siano distruttive, cioè che non incrinino le specificità proprie della tradizione sono rare e di scarsa entità. Altrove, per esempio a Creta o a Giava, gli stili evolvono, allontanandosi da quelli secolari che li caratterizzavano, ma “dall’interno”, senza troppe influenze provenienti dal modello occidentale dominante, quello della musica di consumo e dando quindi luogo a fenomeni musicali originali. Se alcune realtà musicali sono del tutto scomparse – anche fuori dall’Occidente – altre permangono vivaci in queste nuove forme, o anche in quelle “secolari”, in quelle regioni nelle quali certe strutture sociali e culturali si mantengono relativamente permeabili ai mutamenti del mondo contemporaneo. Quindi c’è ancora materia da studiare.
TOL: Oggi l’attività di un etnomusicologo è per certi aspetti diversa da quella che svolgeva un ricercatore trenta-quaranta anni fa. Mi piacerebbe sapere come ti muovi per le tue ricerche.
D’A: Fare uso di internet (vedi infra) può essere utile solo a condizione di avere già esperienza e conoscenza delle musiche che si intendono studiare. Per il resto, direi che le ricerche si svolgono un po’ come un tempo. In Italia è cambiato radicalmente il contesto umano e sociale e si tratta non tanto di documentare “tutto”, come si tendeva a fare una volta, quanto di scremare e selezionare ciò che appare interessante; cioè le musiche che presentano delle originalità intrinseche che le rendano uniche, o almeno diverse dal modello colto o da quello della musica di consumo. Almeno, questa è la mia preoccupazione. Mi occupo degli eventuali aspetti etnologici o antropologici – se questi sono di rilievo – solo dopo essermi convinto che la musica meriti attenzione.
TOL: Come nasce Canti tradizionali della Val Nure?
D’A: Mi ero interessato alla polivocalità delle Quattro Province, perchè le mettevo in relazione con il canto di Ceriana, nel Ponente ligure, che ho studiato a lungo. Ora so che, in definitiva, il canto di Ceriana è di tipo appenninico. Mi hanno dato anche la possibilità di spiegare perchè a Ceriana la musica poggi su un bordone fisso: non si tratta che di una riduzione estrema del ruolo dei bassi, che nell’Appennino, molto spesso, si limitano ad alternare la tonica con la dominante. L’armonia del repertorio più antico si basava infatti su questi soli due poli armonici. Devo confessare che per una volta internet, rispetto al quale sono molto critico, si è rivelato utile: bighellonando nell’ascolto di video caricati dai cantori di quelle valli, sono incappato in un unico video dei cantori di Farini, che mi ha colpito perchè sono molto giovani e perchè hanno uno stile vocale tipico, molto particolare e davvero impressionante. All’epoca erano sconosciuti e non partecipavano neanche alla manifestazione più importante per il canto di quella regione, che è il raduno annuale di Bobbio. In un secondo video apparso un anno dopo, i Nostri cantavano, magistralmente, due antiche “ballate”: La Vidovella e La Barbiera. Questo mi ha convinto a prendere contatto con loro, ad andarli a trovare munito di tutta l’attrezzatura necessaria e a registrare in una lunga serata e parte della notte, una porzione di un repertorio che si rivelava molto vasto. Miracolosamente erano pressocché tutti presenti (quando sono al completo sono in dodici). Poi ho scritto il libro che l’editore Valter Colle acuto, appassionato e competente conoscitore delle musiche di tradizione orale ha accettato di pubblicare. Ho approfittato di questo libro anche per inserire temi più vasti che mi stavano a cuore e che riguardano tutta la polivocalità del Settentrione italiano. Si tratta dei capitoli intitolati “Gesti e posture”, “La musica e il racconto”, “Cosa significa cantare una ballata”, “Il repertorio, le forme poetiche”.
TOL: Parliamo di Farini, dei cantori e del repertorio, brevemente.
D’A: Cito dalla prima pagina del libro:
«Quello che oggi si chiama Coro di Farini si è venuto a costituire spontaneamente presso un gruppo di giovani – certuni giovanissimi – che hanno l’abitudine di cantare insieme da molti anni nel paese di Farini, nell’alta Val Nure, in provincia di Piacenza. Ma ben prima di riunirsi nella formazione attuale, tutti loro hanno cominciato a cantare fin da bambini. […] Alcuni di loro provengono da Groppallo – una frazione di Farini – che è stata in passato una località importante per la ricchezza del suo folklore musicale. Tutti partecipano, insomma, ad una tradizione locale che non si è interrotta. Questo genere di canto appartiene alla polivocalità della zona dell’Appennino che viene denominata delle «Quattro Province», cioè di quelle valli che si trovano all’incrocio delle province di Piacenza, Pavia, Alessandria, Genova. Questo territorio mostra una certa omogeneità culturale, sopratutto per quel che riguarda la musica: vi si condivide uno stesso repertorio e uno stesso stile vocale e vi è anche molto presente il binomio strumentale piffero-fisarmonica […]. In quest’area appenninica si cantava molto e rispetto ad altre regioni italiane si canta ancora molto. I giovani di Farini lo fanno soprattutto per sé stessi, in particolare nel corso di riunioni che si svolgono nel bar di uno di loro. Ma il canto accompagna anche matrimoni e battesimi talvolta come iniziativa spontanea, talvolta su richiesta e la loro presenza è indispensabile in paese durante la festa del «Maggio», quando viene eseguito uno specifico canto di questua».
Il nucleo del repertorio è quello, di origine tardo medievale, del canto narrativo, da loro denominato “canto fermo”. Accanto a questo si aggiunge quello, molto in voga, delle canzoni più recenti, di genere lirico o non precisamente narrativo.
TOL: Quanto deve il trallalero al repertorio delle Quattro Province?
D’A: È il tema dell’altro libro, scritto con Mauro Balma: “Alle origini del trallalero genovese”, che è nato a partire da uno scambio molto fitto con lui su queste questioni, durato un anno e mezzo. Devo dire che senza Balma – che da decenni è un profondo studioso di entrambi i repertori – non avrei potuto realizzare questo lavoro. Anche l’idea di un rapporto tra il canto genovese e quello delle Quattro Province era inizialmente una sua convinzione che mi riferì in un pranzo sul lungomare di Bordighera… Ho deciso allora di indagare a fondo su questa questione, sempre confrontando con lui ogni mia scoperta o riflessione. È stato davvero un dialogo intenso. Poi abbiamo pensato di scrivere un libro, nel quale lui si è occupato delle relazioni tra il trallalero e il canto operistico, l’operetta, la romanza da salotto, la canzone d’autore.
Il mio studio vuole dimostrare che il trallalero ha in comune un buon numero di qualità strutturali – compresa, spesso, la presenza di un ritornello sillabico, nonsense – con un certo tipo di canzone appenninica “moderna”. Questo stile doveva essere inzialmente condiviso a Genova: il trallalero proviene da questo fondo comune, risulta come una sua evoluzione che – dal punto di vista strutturale – si svolge nella complicazione del tessuto contrappuntistico, ma che ne mantiene gli aspetti di base.
Redazione, Intervista con Giuliano D’Angiolini, TrallalerOnline, 25 gennaio 2019