Ove la nostra fiamma trascorse / non cresce più erba né pietra

Mario Luzi – Fonte: Famiglia Cristiana
Giorgio Caproni e la figlia Silvana all’ingresso del Palazzo Comunale di Livorno in occasione del conferimento della “Livornina d’Oro” nel 1984 – Fonte: TEMI DI CULTURA n. 3 – Dicembre 2012, cit. infra

Non è precisamente una raccolta, nel senso comune, di poesie, ma proprio una sequenza di cadenze liriche, tutte modulate sopra un unico motivo d’addio, che dà unità di poema, più che di canzoniere (che sarebbe già una severissima unità), alla sua opera. Un motivo, dico, d’addio, cioè di pena nostalgica per una perduta figura d’amore, in cui l’amata ritorna, come a memoria, nell’elegia continua ed alta: «Ove andarono i nostri giorni / non so né racconta taluno: / Ove la nostra fiamma trascorse / non cresce più erba né pietra, / è tanto deserto per noi».
E la consolazione della poesia, unica giustificazione al canto, trova una vera ragione: «ti faccio onore di canti, / la storia del tuo nome» <11.
E come già allora notammo quanto il Luzi mostrasse, attraverso un’espressione estremamente musicale, di sentire a fondo la fugacità della vita terrena, pur con tanta dolcezza amata e sofferta, nel presentimento continuo di un approdo in un sereno al di là, anche di fronte a questa seconda raccolta possiamo avvertire la permanenza di tale motivo, intorno al quale altri minori, molteplici, ma non dispersi, si accentrano come a corollario; senonché quella che prima ci parve una tesa speranza, e quasi una prova cristiana di fede, qui sembra ombreggiarsi in un senso di dubbio, e diciamo pure di mistero, che rende tanto più trepida, e ansiosamente interrogativa, la coscienza del poeta per il destino di sé e delle umane cose terrene, mosse tutte verso un esito, un «dove», un «avvento», che appunto per esser «notturno», anziché di futura vita, cioè di fede, ha «senso di morire». Il che non esclude, in tanto dubbio, almeno una certezza: che il dolore della vita («il dolore della giovinezza»), dal Luzi quasi ancora cristianamente sentito come necessaria purificazione («e che altro rimane che il dolore – non rendesse perfetto?») debba, con tale avvento, cessare […]. E si legga […] «Cimitero delle fanciulle» che per noi è la lirica migliore del Luzi, come quella in cui egli trova la sua più umana e piena espressione, senza che l’intelligenza, come qualche volta gli accade altrove, venga a sostituire o a frenare l’impulso del sentimento <12.
Nel libro Ho perduto i compagni Dino Menichini ha scritto in compianto ora d’un amico perduto, ora d’un partigiano morto, ora d’una fanciulla, o della nonna che non esistono più. Poesie le quali anche se così apertamente riverberate (sono poesie di riflesso, cioè generate sugli armonici delle maggiori voci in voga – quelle concorrenti a formare appunto il gusto della stagione ultima), almeno per questo meritano tuttavia una segnalazione: perché senti sotto la nebbia delle parole imposte, o meglio al di là del diaframma d’una scelta o rinuncia che tali parole hanno imposto, un tenue desiderio di libertà che, prendendo vigore, potrebbe aprire una speranza sulla natura ancora di questo (lo immagino giovanissimo) poeta <13.
[NOTE]
11 Id., Recensione a Eclisse di L. De Libero, in «Augustea», XV, 15-16, 15-30 giugno 1940, p. 19.
12 G. Caproni, Recensione ad Avvento notturno di M. Luzi, in «Augustea», XV, 12, 30 aprile 1940, p. 17. Non a caso il Cimitero delle fanciulle pare compendiare le simbologie vitali (natura, sole, feste, canti, balconi) a quelle luttuose
(silenzio, ombra, pallore, vento) del primo Caproni: «Eravate: / le taciturne selve aprono al piano / e al sole il vasto seno: / questo è il campo di fieno ove correste. / E dai profondi borghi alta la torre / suona ancora le feste / onde animava ognuna alle finestre / di gioia umana il volto inesistente. / Ma le mani chimeriche e le ciglia / deserte di chi solleva più al suo nome / nelle vie silenziose e l’aria come / quando la luna le celesti chiome / odorava di rose fiorentine? / Ma l’amore? e i balconi della sera? / le braccia abbandonate / dal sole alla profonda luce nera / ne gli orti dove dirada / impallidendo ignota la contrada / chi preme più, chi bacia? Dallo spazio / lontano un vento vuoto / s’alza e parla coi tetti di voi morte».
13 Id., Due volumi di poesia, in «La Fiera letteraria», 4 settembre 1947, p. 3.
Raffaella Scarpa, Poesia per procura. Caproni recensore e Pasolini in Secondo Novecento: lingua, stile, metrica, In forma di parola, Collana di studi linguistici diretta da GIAN LUIGI BECCARIA, Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Letterarie e Filologiche dell’Università degli Studi di Torino, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2011

Di Luzi fui io a scriverne per primo nel ’35. Ero già adulto. La mia teoria che le poesie devono camminare con le proprie gambe, senza chieder le dande, aveva funzionato.
Giorgio Caproni
Sette domande sulla poesia, “Nuovi Argomenti”, VI, 55-56, maggio-giugno 1962, ripreso in (a cura di Lorenzo Greco), Dialogo sulla Letteratura. Giorgio Caproni: le interviste, Volume promosso in occasione del centenario della nascita di Giorgio Caproni da Comune di Livorno e Fondazione Cassa di Risparmio di Livorno, Temi di Cultura, n. 3 – Dicembre 2012, ISBN: 978-88-6297-136-2

Certo amici personali [Giorgio Caproni] ne ha, a cominciare da Mario Luzi – che recensì per primo, nel 1935 – il quale lo presentò ai fiorentini delle “Giubbe rosse” e a De Robertis, di cui Caproni prenderà il posto di critico letterario alla “Nazione”.
Michele Gulinucci, Come su un pentagramma, “Leggere”, 3, luglio-agosto 1988 da Lorenzo Greco, Op. cit.

[…] Mario Luzi, una delle figure chiave della poesia del Novecento, è piuttosto noto per la sua disponibilità e si dimostra molto felice per l’idea di Tordi di incontrare i poeti e registrarne le letture dei propri testi. «Ce n’è una che si riferisce alla guerra», propone Luzi con l’umiltà di chi non sa se i testi che sceglie incontrino il gusto dell’altro. È Viso, orrore, poesia del 1944, ancora da Un brindisi:
Fra i visi inorriditi che si
volgono
per non vedere, il tuo sporge
più intenso,
più alta rocca di lagrime
confitta nel silenzio,
nel deserto di grida soffocate.
Così il tempo propizio per
piangere fugge via,
fra i denti si conchiudono i
sospiri
e recisi dall’anima sguardi
cercano pace
ed all’estremo nascono parole.
Pazienza spenge e fa esigua
la fronte,
un debole sorriso quasi
un’acqua latente
scivola sulla bocca inaridita,
schianta il volto gelato la
pazzìa.
Ma te! ecco ritrovo la tua
essenza rifluita
nel profondo dei gesti
familiari,
delle calme abitudini sulle
sponde solari:
tutto ci resta ancora per soffrire.
[…] Il poeta preferisce leggere versi dei tempi più recenti.
Ma poi leggerà quasi da tutte le sue raccolte tranne dalle prime più ermetiche.  Notizie a Giuseppina dopo tanti anni, da Primizie del deserto del 1952.
Che speri, che ti riprometti,
amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua dove nel sole le
burrasche
hanno una voce altissima
abbrunata,
di gelsomino odorano e di
frane?
[…] I testi che continuerà a scegliere e leggere dimostrano la strada e l’evoluzione della poetica luziana: dalla “voce” ermetica, alla “persona” tra gli altri, alla “voce di tutti”, segnando un cammino in cui costruisce a suo modo una poesia unanime che ne fa un testimone prezioso del nostro tempo.
È la mattina del 23 marzo 1982 quando a Roma (dove il poeta si è stabilito nel ’39 ed è morto nel ’90, dopo nascita livornese nel ’12 e apprendistato genovese negli anni ’22-’36) Pietro Tordi registra la voce squillante, netta e a volte improvvisamente rauca di Giorgio Caproni. Il poeta incespica, non legge bene alcuni testi perché non li vede distintamente e a tratti va a senso. «Non me le ricordo più queste poesie», commenta molto amareggiato. Ricomincia da capo, incespica di nuovo. La voce si alza e si abbassa di colpo. Tossisce: «troppe sigarette», «stamane non va», «questa tosse non se ne vuole andare», «sarà meglio smettere». Tordi suggerisce calma e acqua, Caproni sembra sfiduciato e svogliato.
Finalmente riesce a leggere Alba, da Il passaggio d’Enea del 1956:
Amore mio, nei vapori d’un
bar
all’alba, amore mio che
inverno
lungo e che brivido
attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è
gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio,
ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale
tram
odo, che apre e richiude in
eterno
le deserte sue porte?…
Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere
entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i
denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu,
amore,
non dirmi, ora che in vece
tua già il sole
sgorga, non dirmi che da
quelle porte,
qui, col tuo passo, già
attendo la morte.
Allitterazioni, rime interne e soprattutto quegli enjambements che, diceva Giovanni Raboni, sono «la sua regola», assieme a uno dei classici temi della sua poesia: l’amore, al cui centro vi sono sfumate figurine di donne, di meretrici oppure l’evanescente figura materna. Proprio i versi sull’amore mercenario sono tra i più belli di Caproni; del tutto estraneo al tipico clima novecentesco della sensualità composta e tenue, traccia alcuni mirabili ritratti di giunoniche forme dalla concreta e trascinante presa realistica.
Ma l’amore di Caproni è spesso indirizzato alla sua città: Genova che è al centro di molti versi degli anni Trenta e che sarà poi eternamente amata e rimpianta dalla nuova città d’esilio, Roma. La città ligure insegna al poeta un saldo, virile stoicismo; l’accettazione del destino, qualunque esso sia. Si fa città dell’anima, luogo privilegiato con i suoi dintorni scabri ed essenziali, i precipizi sul mare e gli ulivi, l’arsura in giro, che costituiscono quel paesaggio ligustico cui tutta una linea di poeti del Novecento ha cercato di accordare la propria voce.
Nei casi migliori nascevano i frammenti di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, le poesie dette pianissimo e i trucioli di Camillo Sbarbaro, i Murmuri ed echi di Mario Novaro, i frantumi e i peccati di Giovanni Boine, fino ad arrivare agli Ossi di seppia di Eugenio Montale e alle prime prove di Caproni.
[…] Pietro Tordi gli chiede di leggere qualche poesia sull’amore, sulla guerra. Caproni legge da I lamenti, tornando indietro sui suoi passi, al Passaggio d’Enea. Ne legge tre, ma qui riporto solo 1944:
Le carrette del latte ahi
mentre il sole
sta per pungere i cani. Cosa
insacca
la morte sopra i selci nel
fragore
di bottiglie in sobbalzo? Sulla
faccia
punge già il foglio del primo
giornale
col suo afrore di piombo –
immensa un’acqua
passa deserta nel sangue a
chi muove
a un muro, e già a una
scarica una latta
ha un sussulto fra i cocci. O
amore, amore
che disastro è nell’alba! Dai
portoni
dove geme una prima chiave,
o amore
non fuggire con l’ultimo
tepore
notturno – non scandire
questi suoni,
tu che ai miei denti il tuo
tremito imponi. […]
Roberto Mosena, La voce dei poeti: Luzi e Caproni registrati da Pietro Tordi in Mosaico Italiano, Editora Comunità, Rio de Janeiro (Brasil), maggio 2010

La lunga storia del rapporto tra la poesia e la vita di Mario Luzi (1914-2005) ha continuato e continua a interessare chi si rivolge a lui come protagonista del Novecento letterario italiano. Figura completa e a tutto tondo di poeta moderno, la sua opera muta colori e suoni tracciando un arco sorprendentemente ampio, la cui mole è sorretta da forti colonne poggianti direttamente nel vivo della storia. In questo modo la critica ha potuto orientarsi nel tentativo di tracciare delle coordinate che possano mostrare il lungo percorso effettuato da Luzi in tutta la sua vita, solcando le acque di un mare che appare sempre più immenso.
Ora che è culminata la sua Torre delle ore, e ne contempliamo – con le sue parole – il lascito: «Guarda come entra / nel cielo il vespertino turno. Guarda» [Torre delle ore], l’opera di Mario Luzi attraversa il Novecento nel «magma» della storia, nel «rigoglio dell’essere», nella «fulgida agonia / del mondo e delle sfere». Lo riconobbe tra i primi, liberandolo dalle sedimentazioni dell’Ermetismo nel quale l’aveva confinato la critica, Giorgio Caproni <1.
Quasi giro di boa nel continuum del lavoro creativo di Mario Luzi, poeta e «cittadino esemplare» (Ossola), il libro di poesie che ci accingiamo ad analizzare fa la sua comparsa in un anno, il 1963, che lo pone sotto una luce di chiara importanza: modello innovativo per una diversa fase dell’opera luziana ed esemplare calato nel vivo della situazione storica – nazionale, culturale e letteraria. Pubblicazione sorprendente sia per via dell’«intatta carica di energia nell’attuale momento di generale stanchezza o rilassatezza o sfiducia» <2, sia perché questi componimenti fanno la loro comparsa «nell’acme del “furor novissimo” (il quale vedeva Luzi spacciato se non putrefatto) [e] costituiscono l’esempio più netto di un poeta capace sempre di sorprendere e di ricominciare con altra pelle» <3. Come afferma Ossola, fu Caproni uno dei primi che si accorse del valore di Nel magma, il quale in una recensione pubblicata su «La Nazione» nel Marzo del 1963, intitolata “Nel magma” di Mario Luzi, scriveva:
…ci troviamo qui di fronte a una di quelle «operette» risolutive non solo della «carriera» di un poeta, ma addirittura delle aspirazioni e della lunga ricerca – della lunga disputa – d’un’intera epoca: e precisamente di questa nostra epoca d’oggi, ahimè altrettanto ricca – nella sua ansia di una poesia nuova capace di rappresentarla intera, e in tale suo rovello sicuramente sincero ma non sempre sufficientemente sentito intus et in cute – di cavillose e perfin piccose discettazioni e polemiche, e di cincischiati e malfermi esempi, quanto in realtà è povera di atti concreti e vitali <4.
[NOTE]
1 C. Ossola, Mario Luzi «nel vento inesauribile del mondo …», in «Lettere italiane», Vol.57, I, 2005, p.36
2 G. Caproni, “Nel magma” di Mario Luzi, in «La Nazione», 10 Marzo 1964
3 S. Verdino, Introduzione a L’opera poetica, a cura di S. Verdino, Milano , “I Meridiani” Mondadori, 1998, p.XXX
4 G. Caproni, “Nel magma” di Mario Luzi, cit.
Carlo Zacchetti, 1963-1966: “Nel magma” di Mario Luzi. Naturalezza della rivoluzione, Tesi di laurea, Università degli studi di Milano, Anno Accademico 2012-2013

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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