Di lui non si parlava quasi più, il suo nome meridionalissimo che pare emergere da una commedia all’italiana era uscito dalle storie letterarie, spazzato via senza complimenti. Ma ora Antonio Pizzuto da Palermo, classe 1893, commissario di polizia e poi questore, torna ad intralciare con uno strano romanzo il quieto andazzo di una letteratura che non ama gli scossoni. Si intitola “Ràpin e Ràpier”, ed è una satira surreale e intrigante dell’Italia fascista (lo mandano in libreria a fine maggio gli Editori Riuniti, pagg. 320, lire 28.000, curato e introdotto da Antonio Pane).
E non è la sola novità che riguarda uno fra i migliori irregolari di questo dopoguerra. Un editore fiorentino, Polistampa, ha appena pubblicato un altro romanzo di Pizzuto, quasi del tutto sconosciuto, intitolato “Così” (pagg. 156, lire 24.000: anche questo curato da Antonio Pane). Nel frattempo sul prossimo numero della rivista “Avanguardia” compare un bellissimo carteggio inedito fra Pizzuto e Gianfranco Contini (la scelta e il commento sono di Gualberto Alvino: brani di queste lettere sono riprodotte in questa pagina).
Nel tempo che si ritagliava fra un rapporto su un delitto e l’informativa di un confidente, Pizzuto scriveva libri che ancora oggi sbalordiscono per l’irruenza sperimentale, le acrobazie lessicali e sintattiche, i sussulti di una spigliatissima fantasia che si delizia guizzando fra arcaismi ed erudizione.
Pizzuto, che è morto nel 1976, era un coltissimo visionario, inventava neologismi che neanche Gadda o qualcuno del Gruppo 63 si arrischiarono a concepire. Accadeva fra la metà degli anni Cinquanta e l’intero decennio successivo, quando di lui si invaghirono due fra le figure meno convenzionali della nostra scena letteraria, Alberto Mondadori e Gianfranco Contini.
Mondadori pubblicò molte sue cose nella neonata casa editrice Il Saggiatore, in dei volumi color ruggine che recavano una imponente testatina – “Opere di Antonio Pizzuto” – e che fino a qualche anno fa si scovavano nei sottoscala delle librerie remainders (ora si recuperano con difficoltà non in tutte le biblioteche).
Contini, dal canto suo, scrisse con entusiasmo di Pizzuto, che gli appariva come un autore “traumaticamente perfetto”.
Intorno al suo nome, già quasi settantenne, si accese molta attenzione, anche se Pizzuto restò per tutta la vita un isolato. I suoi testi, spesso ai limiti dell’ elementare comprensibilità, destarono scalpore (nel 1956 uscì “Signorina Rosina”, nel ’60 “Si riparano bambole”, nel ’62 “Ravenna”, nel ’64 “Paginette”, nel ’66 “Sinfonia”, nel ’69 “Testamento”).
Pizzuto teorizzò una forma di scrittura che rompeva con ogni tradizione. Per Contini la lingua del commissario era assimilabile a quella del Joyce più maturo e del nouveau roman francese, farcita di formule che rimandano al latino (l’uso dell’ablativo assoluto o dell’infinito storico), e condita di richiami alle radici indoeuropee.
“Ràpin e Ràpier” è il meno pizzutiano dei suoi romanzi, e lo stesso autore negli anni Sessanta lo disconosce. Viene iniziato nei primi mesi del 1944, quando Pizzuto presta servizio alla questura di Roma e la città patisce l’occupazione nazista. Pizzuto, figlio della buona borghesia palermitana, si era laureato in legge e in filosofia, aveva tradotto Kant, divorato opere di estetica e viaggiato a lungo nella sua qualità di funzionario di quella che poi sarebbe diventata l’Interpol. Aveva lavorato in vari commissariati palermitani e dal 1930 era a Roma, alla Direzione generale della Pubblica sicurezza, dove – misteri della burocrazia sotto il fascismo – gli avevano assegnato il compito di controllare le lettere spedite da Mussolini ad alcuni familiari. Pizzuto parla benissimo il tedesco (oltre all’inglese e al francese) e nel 1944 ha l’incarico di mantenere i rapporti con gli occupanti. “Conosceva Kappler”, racconta la figlia Maria, e suo genero Michele Friscia assicura che si adoperò presso il comando tedesco per liberare alcuni prigionieri destinati alla fucilazione. Sostanzialmente impolitico, fedele funzionario dello Stato, Pizzuto rifiuta di trasferirsi a Salò e vive nel terrore di essere deportato. “Una volta ci disse di essere stato in via Tasso e di aver sentito le urla dei torturati”, ricorda la figlia. “Ci impose di portare tutte le nostre cose da una professoressa sua amica e che fossimo pronti a fuggire. Lui si era assicurato la protezione di un prelato in Vaticano. “Riparerò lì e mi metterò a leggere tutti i codici petrarcheschi”, ci disse”.
“Ràpin e Ràpier” con la sua grottesca immagine del fascismo nasce in quei giorni. Dietro Ràpier, uno strillone che diventa edicolante nella Palermo di inizio secolo e tenta la scalata al potere fidandosi delle sue arti declamatorie, si cela scopertamente la figura di Mussolini. E, aggiunge Pane, Ràpin nasconde Hitler. La storia procede come un vortice, si avvita su vicende intricate e apocalittiche, con escursioni fantastiche in cui compaiono serpenti e figure microscopiche. La stesura prosegue negli anni successivi, quando Pizzuto viene promosso vicequestore a Trento e poi questore a Bolzano, da dove invia rapporti la cui sorprendente fattura colpisce il presidente del Consiglio De Gasperi, che li vuole appositamente sulla sua scrivania. Nel frattempo medita di tradurre l’Ulisse di Joyce, che ha letto in inglese nel ’26, alla Biblioteca nazionale di Palermo, dove ha vigorosamente chiosato la copia in prestito. Il romanzo resta nel cassetto, nonostante l’interessamento di Giacomo Debenedetti, che lo suggerisce a Vittorini per i Gettoni einaudiani. Un suo amico, Salvatore Spinelli, si prodiga per farlo pubblicare da Bompiani. Ma la risposta è negativa e Pizzuto reagisce con veemente sarcasmo: la lettera di rifiuto, replica all’amico, “dimostra da parte di chi l’ha scritta un’evidente, morbosamente gelosa, cura di tener celato come un segreto di ufficio il proprio acume” (la lettera è pubblicata in un saggio di Pane che sta uscendo sulla rivista Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena).
Dal gennaio del 1950 Pizzuto è in pensione, ha più tempo per la letteratura, ma i rifiuti e il senso di isolamento crescono. “So benissimo ormai”, scrive nel ’52, “che i miei scritti cominceranno a esser letti (semmai) dopo che avrò stirato le cuoia”. L’esasperazione è al culmine, quando compare al suo orizzonte Bobi Bazlen, il quale si adopera perché venga pubblicato “Signorina Rosina”, composto nel 1954 e stampato da un piccolissimo editore, ma passato completamente inosservato. Bazlen lo suggerisce a Roberto Lerici, che, sentiti Mario Luzi e Romano Bilenchi, un giorno del 1959 piomba a casa Pizzuto, in via Fregene alle spalle della basilica di San Giovanni, con un assegno, un contratto e un fotoreporter. Da quel momento cominciano a uscire tutti i romanzi che giacevano.
Ma la consacrazione arriva nel 1963. “Mi è spuntato, come aggigghia sulle patate, un nuovo ammiratore”, scrive alla figlia Giovanna l’11 ottobre, “il prof. Gianfranco Contini dell’università di Firenze: a seconda lettera, già ci diamo del tu. Di questo passo me lo vedrò spuntare un giorno cu a granatiera sfigghiata. Mi ha invitato, per quando verrà qui, al ristorante cinese, banane fritte nel miele etc., ma io preferisco pasta cu i sardi e panielli”.
Le lettere che Pizzuto e Contini si spediscono sono l’esempio “di un sodalizio umano e culturale vissuto all’insegna dell’irripetibile e del meraviglioso”, scrive Gualberto Alvino presentandole su “Avanguardia” (tutte le lettere a Contini sono ora custodite dalla Fondazione Ezio Franceschini). Le loro lingue barocche si incrociano e fanno scintille, dietro si ode lo sfrigolìo di due intelligenze acuminate, che credono nel gioco lessicale e nella bizzarria sintattica come in un attributo essenziale della ragione. “Non ha importanza il giudizio – del resto lusinghiero – dei critici di oggi, romantici, silenziosi e flatulenti”, scrive ancora alla figlia. “Ma ce n’ è uno che mi ha compreso perfettamente, ed è Gianfranco Contini (…). E’ il solo, credo, a persuadersi che non sono io oscuro, ma all’oscuro chi me ne rimprovera”. Contini apre lo scrigno di Pizzuto, rivela la trama di questa scrittura che sfida tutte le leggi dell’ unità di spazio e di tempo. Segue l’apprezzamento di Giuliano Gramigna, Angelo Guglielmi, Luigi Baldacci e di altri critici vicini al Gruppo 63.
Una vera infatuazione coglie Alberto Mondadori, sensibilissimo agli equilibrismi intellettuali di quel commissario di polizia in pensione. “Diventò una fissazione”, racconta Pane, “lo veniva a prendere a Roma e lo scorrazzava con il suo macchinone, lo invitava in grandi ristoranti. Gli assicurò un contratto vantaggiosissimo, che suscitò molte gelosie e si impegnò a pubblicare tutte le sue opere, un compito che assolse anche dopo la morte di Pizzuto”.
Gli ultimi anni del commissario-scrittore sono tristi, perché Pizzuto è pressato dal disagio economico. Contini resta fino alla fine un interlocutore privilegiato. Tenta di ritrarsi di fronte all’invadenza epistolare di Pizzuto, che gli scrive anche tre lettere al giorno, implorando raccomandazioni e premi. Il loro rapporto desta malumori: Pasolini scrive a Contini lamentando di essere stato trascurato a causa di un “pensionato”. Ma a poco a poco l’attenzione
sull’autore della “Signorina Rosina” si allenta e inizia un lungo tunnel fatto di indifferenza ai limiti del dileggio. Ora su Antonio Pizzuto da Palermo si accende un riflettore.
Francesco Erbani, Il poliziotto che diventò scrittore, la Repubblica, 16 maggio 1998
Dovrebbe essere tra i romanzieri più celebrati l’ex questore-scrittore Antonio Pizzuto (Palermo 1893 – Roma 1976) ma la sorte pare gli abbia assegnato la medesima fortuna del suo maestro Cosimo Guastella <1. Dopo una fiammata di ricordi e qualche celebrazione negli anni seguiti alla sua scomparsa è stato un progressivo calare di sipari di silenzio sulle opere di questi singolare narratore che ha modellato un codice linguistico “pizzutiano”. Anomalo fenomeno, anche se tutt’altro che nuovo, ma stupisce il fenomeno dell’oblio per Pizzuto perché dimostra come l’autorità di Gianfranco Contini non sia bastata a stimolare, dopo la morte dello scrittore, quanto di più conveniente per la conoscenza e lo studio adeguato ai meriti di originalità di scrittura delle sue opere edite. Opere recensite dai maggiori critici tra gli anni 1950 e fine secolo e sui più importanti organi di stampa, dall’Avanti! che nella immediatezza della scomparsa ne ha celebrato il ricordo con interventi di Angelo Guglielmi, Luigi Malerba, Walter Pedullà e Cesare Segre (Cfr. Avanti! del 28 novembre 1976). Ricordo che era stato preceduto da un commosso intervento dell’autorevole Gianfranco Contini su la Repubblica del 26 novembre 1976. Sia chiaro, come qui precisato, oltre ai suddetti non c’era stato difetto di interventi da parte della più qualificata critica, da Ruggero Jacobbi a Giuliano Gramigna a F. Virdia (quest’ultimo su La Fiera Letteraria), un continuum di analisi sulla originalità, della scrittura pizzutiana. E altrettanti interventi si posso trovare fuori dal precario dei giornali, nei compendi di Storia della Letteratura italiana di Giuliano Manacorda, di G. A. Peritore ne I Contemporanei edito da Marzorati, del già citato Guaglielmi in Vero e falso (Feltrinelli 1968). A parte il successo di critica riscosso dalle opere di Pizzuto nel presso i cugini d’Oltralpe. Tutto questo però sembra essersi fermato negli ultimi anni fino ai nostri giorni. […] Un episodio che ci è capitato di ripetere nel corso di qualche nostro intervento su Pizzuto, è quello di Ravenna. Libro di cui si era venduta solo una copia a Napoli. Fatto che incuriosì l’editore Lerici fino a fargli decidere di rintracciare la libreria della capitale partenopea dove risultava avvenuta la vendita, e chiedere al libraio di soddisfargli la curiosità di sapere chi aveva acquistato quella copia, unica venduta in tutta Italia. E quale non fu sorpresa al momento di apprendere che l’acquirente era stato l’Ente turismo di Napoli, che aveva dedotto dal titolo si trattasse di una guida della città romagnola. Errore di cui una volta accertata l’entità aveva indotto l’Ente a restituire il volume al libraio! Anche i libri hanno un loro destino! Così il detto latino che qui ripetiamo nella nostra lingua di comunicazione nazionale. Quindi anche gli scrittori. E tutti, come con elegante metafora definitiva, anche stavolta d’origine latina ma frequentata dalla contemporaneità del dialetto siciliano: “Ogni pisci di lu mari è distinatu a cu si l’ha’ mangiari”. Forse tra gli auspici che il presente Medaglione per Antonio Pizzuto propone potrebbe aver fortuna quello di sempre nuovi studi su questo Autore tutto da indagare nel codice linguistico sintattico-grammaticale tutto “pizzutiano” un augurio che viene spontaneo destinare a un momento culturale di riscoperta del “Maestro” Cosmo Guastella degli anni universitari della seconda laurea di Antonio Pizzuto, quella in Filosofia, dopo la prima in Giurisprudenza; laurea quest’ultima che gli aveva agevolato il concorso a vicequestore e poi la carriera fino a Questore e altri importanti incarichi di carattere internazionale e poliziesco, prima del ritiro da pensionato, nel 1950, e l’inizio (proseguimento) di altra carriera, quella di scrittore. Gli studi filosofici al futuro narratore e saggista erano stati stimolati dalla presenza nell’Università di Palermo nella facoltà, appunto, della storia del Pensiero, del genio di Cosmo Guastella. Su cui ha scritto la ricercatrice qui prima citata, Paola Perretti. “Senza Cosmo Guastella Antonio Pizzuto probabilmente non avrebbe fatto il viaggio che l’ha portato così lontano da tutti i viandanti che imbrogliavano con i libri in cui A non era più A da molto tempo ma che per questo inganno si consumavano meglio per complicità di libretto rassicurante e di musica orecchiabile. (…). Una voce di innovatore e di teorico di tutta una linea di pensiero, di cui si sono obliate le tracce. Non sarebbe idea peregrina unire le due figure del genio siciliano panormita per qualche settimana di studi che ne agevoli il rivisitarne personalità e opere, fosse solo per ribadire quanto non ha smesso e non smette la Sicilia di proporre in geni delle arti e del pensiero alla universale civiltà e sue nuove frontiere. Concludiamo con una risposta che Pizzuto dà alla intervistatrice e con un breve stralcio di nota critica scritta da Gianfranco Contini. Dice Pizzuto alla Perretti: “Tu nelle mie pagine due volte ripetuta la stessa parola non la trovi, neanche “in”, neanche una preposizione. Se c’è un “sul” o un “del”, tu non li trovi più in tutta la pagina”. Ed ecco Gianfranco Contini: “Ciò che stacca Pizzuto da ogni altro autore non è un semplice stilema (o sistema di stilemi) poi grammaticalizzato, bensì un insieme di caratteri quali quelli che nella tipologia linguistica contraddistinguono lingua da lingua, nel caso presente l’italiano dalle indoeuropee arcaiche, latino o greco o magari russo (per l’assenza della copula), ma anche le lingue occidentali dal cinese dove cede la distinzione di nome e verbo), dall’eschimese, dal tibetano (dove i verbi sono sempre coniugati in forma passiva e il soggetto è allo strumentale). Per l’ellissi in molti tipi, per l’infinito storico, per la sorta di ablativi assoluti, per le concordanze rivelate da tenui distinzioni desinenziali più adatti a una lingua con casi, è certo che le matrici di Pizzuto sono state il greco di Platone , il latino di Tacito, portati tuttavia all’iperbole, cioè oltre la frontiera riconosciuta all’indeuropeo. (…)” Opere di Antonio Pizzuto: Sul ponte di Avignone (1938); Signorina Rosina (1956, 1959); Si riparano bambole, Ravenna (1962); Il triciclo (1962); Paginette (1964); Sinfonia (1966); Natalizia (1966); La bicicletta (1966); Vezzolanica (1967); Nuove paginette (1967) ; Testamento (1969) ; Pagelle I (1973); Pagelle II (1975); Giunte e virgole (1975) – prima pagella eponima; Ultime e penultime (postuma), 1978; Giunte e virgole (postuma), 1996, opera completa; Rapin e Rapier (postuma), 1998 Così (postuma), 1998; Spegnere le caldaie (postuma), 1999; Narrare (postuma), 1999; Sinfonia 1923 (postuma), 2005; Giunte e Caldaie (postuma), 2008; Sinfonia (1927) (postuma), 2010. 1 Su Cosmo Guastella si veda tra i Medaglioni pubblicati su Esperonews, quello dedicato alla figura e le opere del pensatore.
Mario Grasso, Antonio Pizzuto: da questore a romanziere dimenticato, Esperonews, 19 dicembre 2019
Quasi un decennio della vita di Antonio Pizzuto è rifratto nei nuovi carteggi – dopo quelli con Nencioni, Margaret e Gianfranco Contini, Betocchi – che Polistampa rende adesso disponibili, seguitando l’opera di reimpressione integrale di un vertice del nostro Novecento: Antonio Pizzuto e Alberto Mondadori, (L’ultima è sempre la migliore. Carteggio (1967 – 1975), a cura di Antonio Pane, introduzione di Claudio Vela, pp. 288, euro 18,00 Polistampa). Il volume raccoglie 263 missive: 92 a Alberto Mondadori e le repliche pervenute; 171 a Madeleine Santschi – di cui un piccolo numero a Pierre Graff, marito di lei -, spericolata traduttrice e scoliaste del Pizzuto definitivo di Pagelle I, Pagelle II, Ultime. I carteggi registrano il passaggio dello scrittore siciliano da Lerici al Saggiatore, traghettato anche lui nella storica avventura editoriale che Alberto Mondadori intraprese per scissione dal fratello Giorgio e dalla casa madre, passaggio propiziato dal favoloso anticipo di 10 milioni di lire più il 20% sulle vendite; saggio di esordio della generosità di «Mecenate», come quando il questore in quiescenza si vede recapitare 5 metri cubi di carta: «Alla mia richiesta di una piccola scorta di buste, me ne hai mandate settemila. Stamane poi ricevo 7.500 cartelline di scorta per i nuovi lavori: qualità insuperabile, peso Kg. 404, quante oltrepasserebbero i bisogni di un novello San Paolo o di un altro Wundt». Dall’attivissimo scriptorium di via Fregene 6 a Roma, Pizzuto invia agli amici copie manoscritte delle sue paginette, poi lasse, poi pagelle, in progressione geometrica di impegno formale, dove si va fissando il suo eleatismo e la leggendaria sintassi nominale che ne costituisce i cingoli: «Di un nuovo libro – da intitolarsi: “Forme” -, assolutamente altro che le lasse finora composte, ho già redatto un primo piccolo pezzo: “Lettura” (che Contini ha detto “stupendo” – bontà sua) e sono a un buon punto col secondo: “La stufetta a petrolio”, migliore, secondo me; non facili da leggere; ma chi vorrà un Pizzuto accessibile, avrà l’epistolario». O da una latteria sotto casa, insieme ad Albino Pierro, indirizza cartoline alla Lavoratrice Oziosa, ancora Santschi, che per accensioni ipocoristiche diventa Madame Priducre, Madama Barnum, Malou (in alcune lettere di Pizzuto sarà puro amor de lonh: «quanto a me, ciò che desidero è rivederti, a Roma, Milano, Losanna, o Valpurga a piacere»). Nel volume è riportato, da un ricordo di Garboli, anche questo aneddoto: «a Roma, in una trattoria che oggi non esiste più, Gadda e Bonsanti discutevano di letteratura. Richiesto di un parere su Pizzuto, Gadda sentenziò: «Pizzuto? A me sembra un po’ uno scrittore rosa …». E il giudizio dell’Ingegnere coglie nel segno, davvero nella prosa da camera di Pizzuto è un mondo di piccoli affetti, minimi accidenti della memoria, ma rosa shocking: è il signor Biedermeier passato al microonde della modernità, coi lampi al magnesio del suo indeterminismo sintattico-narrativo e le vertiginose campate di chi voleva «edificare senza armature».
L’articolo è apparso su «Alias» il 02/02/2008.
Domenico Pinto, Lettere al microonde, Nazione Indiana, 10 settembre 2008
Ci sono appunto alcune foto di Castronovo risalenti proprio agli anni raccontati presumibilmente da Pizzuto che mostrano la precisione della descrizione: alla sinistra dell’ultima curva prima dell’entrata in paese si trova il convento; camminando ci si trova al calvario e alla vasca, e subito dopo al corso, la «via d’accesso» (come la chiama Pizzuto). Il narrare pizzutiano, che punta alla testimonianza, si alimenta dunque di tutte queste esperienze.
Poi siamo nuovamente ammessi in uno di quei salotti borghesi: “Giorno per giorno pranzo in questa od in quella famiglia, Luciano la brillantina, Mino sbottonato dove non ne era più il caso, papà con le barzellette, gli ospiti fonti inesauribili di avite sentenze leggi eterne ruralità. Su ogni mensa sempre le stesse posate d’argento grandi robuste a bulino, come se ne mutuassero in giro, commesso l’astuccio zigrinato sotto lo scialle di una famula: così forse i tucididei segestini con l’unico servizio dorato per trasecolare nei conviti gli scaltri messi ateniesi non, certo, qui”. <19
In un passo di “Ravenna” Pizzuto ricorda il cugino castronovese: il cav. Eugenio Landolina, famoso ginnasta fra i più anziani di Sicilia.
Ecco un articolo, scritto proprio su di lui, sul “Giornale di Sicilia”: «[…] Ecco un campione della nostra razza: l’amico cav. Eugenio Landolina da Castronovo, non è uomo disposto ad arrendersi davanti ai suoi 68 anni. Spirito sempre giovane, muscolatura d’eccezione. Eugenio Landolina (dilettante, nel senso puro che a questa parola si dava nel primo decennio del secolo) continua nella sua palestra a sollevare pesi e a tirar anche di scherma. Membro onorario della
Federazione Atletica Italiana, il cav. Eugenio Landolina si può dire fra i più anziani sportivi di Sicilia. Sportivi anche stavolta nel senso genuino della parola di chi pratica cioè lo sport.
[…] “Sinfonia” rappresenta uno snodo cruciale dell’opera di Pizzuto, in cui si «consuma» la rottura della narrativa tradizionale: l’abolizione del personaggio di cui restava ancora garante di una costruzione romanzesca. La rinuncia ai fatti porta a una narrazione senza bussola, costituita da accumuli di eventi che vengono reinventati in una “sintesi trascendentale”: il lettore è chiamato infatti a connetterli, «consuonando con l’artista che li ha congiunti» musicalmente. Privo di una trama, «il racconto pizzutiano concresce su stesso, convocando “cose di vita”».
Come ricorda Antonio Pane, Pizzuto iniziò la stesura di Sinfonia il 27 gennaio 1964 ed è il primo libro concepito dopo la conoscenza con Contini, consacrata dalla dedica. «Gianfranco Contini fu promosso lettore privilegiato, unico giudice chiamato a collaborare soprattutto con consulenze linguistiche, alla sua composizione e alla fase di stampa». Per questo sistematico confronto con il suo critico, lo scrittore rafforzò l’inclinazione verso una scrittura preziosa. Lo testimonia una lettera in cui egli scrive all’amico Salvatore Spinelli (9 gennaio 1965), «dovrebbe essere il mio parto migliore (almeno dal punto di vista filologico)».
“Sinfonia” apparve per la prima volta nell’ottobre 1966, n.38 della «Collana Narratori ǀ Nuova serie» di Lerici. Formato da venti lasse, al centro di tutta la composizione, precisamente alla decima lassa, si trova “Frumentaria”. Mi occuperò di questa lassa come ho spiegato nella presentazione di questo lavoro.
19 A. Pizzuto, Ravenna, cit., p. 143.
Enrica Antonella Ciminato, Castronovo e i suoi personaggi nelle opere di Antonio Pizzuto, Tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo, 2018