Proprio alla scuola di Pasquali, di cui si rivelò uno tra gli alunni più capaci, Perrotta maturò una formidabile preparazione filologica

Giorgio Pasquali – Fonte: Wikipedia

Giorgio Pasquali, nato a Roma nel 1885, aveva compiuto i suoi studi classici alla scuola del Festa. S’era poi specializzato a Gottinga; di lì era passato a Berlino come assistente del Wilamowitz. Il lungo soggiorno tedesco fu decisivo nella sua formazione, come egli volle ricordare in varie pagine di ricordi e nella postuma «Storia dello spirito tedesco» (1953); mentre in « Filologia e storia » aveva detto il suo parere equa­nime nella polemica allora dilagante pro e contro la filologia tedesca (1920). Chiamato dall’Università di Firenze nel 1921, fu lì, e nella Scuola Normale di Pisa, maestro insuperabile a generazioni di classicisti e mo­dernisti, molto al di là dei limiti della specializzazione: « dalla cattedra e per la strada», come è stato scritto.
[…] Alla riapertura dei corsi universitari dopo la li­berazione di Firenze, nel ’44, mancava Giorgio Pasquali: si sapeva che era malato di una grave depressione nervosa e che non si sarebbe ripreso tanto presto, ammesse le possibilità di guarigio­ne. Alcuni suoi scolari affezionati preferirono ri­mandare l’esame di letteratura latina da sostene­re con Bignone, scopritore dell’Aristotele perdu­to e traduttore di poeti greci è latini in versi gin­nasiali. Gli esami con Pasquali erano piuttosto difficili e si raccontavano non pochi aneddoti sul­le sue intemperanze alle risposte di studenti so­mari ma erano veri esami di filologia
[…] Pasquali fu il maggiore filologo italiano del suo tempo e incarnò una nuova figura di studioso nella nobile tradizione italiana promossa dal Comparetti. La filologia del Comparetti apparte­neva alla corrente del Realphilologie ed era quindi storicista, non formale, e del resto la filologia italiana risorta dopo l’unità nazionale, e non sol­tanto la classica, fu essenzialmente storicista, sulle orme di quella tedesca orientata nello stes­so senso. Il Comparetti fu un grande storico, por­tato « a comprendere in uno sguardo solo tutta la vita di un popolo nei suoi aspetti più vari e ripo­sti » ma non ebbe « amore per esegesi e critica del testo in quanto tali » e, come ha osservato il Timpanaro, « il suo punto debole rimase sempre la poca conoscenza di lingua e stile ». Il ritorno alla critica testuale fu dovuto soprattutto al Vi­telli negli anni stessi in cui la filologia formale tedesca risorgeva grazie al Wilamowitz. Conosci­tore eccezionale di lingua e stile greco, acutissi­mo congetturatore e intenditore raffinato di poe­sia, non ebbe il senso storico e la « capacità di sintesi » del Comparetti e accettò per suo conto. « con ironica umiltà, « la parte di modesto racco­glitore di materiali ». Non ebbe simpatia, « nel suo intimo », per i filologi-storici e del resto fra lui e il Comparetti non mancarono le battute po­lemiche. Come ha ben visto il Timpanaro, Vitelli non affrontò « il compito di storicizzare la critica letteraria, di portare la filologia al suo interno, e di sconfiggere così sul loro stesso terreno i critici impressionisti e dilettanti »: un compito che in tempi più maturi avrebbe assunto Pasquali. « So­stanzialmente estraneo all’idealismo italiano, ma seguace dello storicismo del Wilamowitz (di cui, peraltro, respingeva le scorie neo-umanistiche), Giorgio Pasquali riuscì, in Filologia e storia e in tutta la sua posteriore opera di studioso, a rivalutare la filologia e, insieme, a liberarla da ogni gretto tecnicismo »: così, esattamente, il Timpanaro.
ESPRIMERE CON SCHERZO LE VERITÀ PIÙ ALTE
Negli ultimi anni gli interessi linguistici finirono quasi per prevalere in Pasquali su quelli filolo­gici con un certo disappunto di alcuni suoi scola­ri. Anche per i corsi furono scelti autori che, co­me Teocrito, potevano prestarsi di più alle eser­citazioni glottologiche. Il maestro cominciò a di­re, da un certo momento, che era malato: « Sto benissimo ma muoio ». Ostentava una grande serenità perché era convinto che si deve conoscere nella loro entità i propri mali e sopportarli con lo stoicismo degli antichi saggi. Morì nel ’52, all’età di 67 anni, in seguito a un incidente banale, cadendo malamente mentre attraversava una strada di Belluno, urtato o forse soltanto spaventato da un motociclista. Grassi e Bormann che partirono immediatamente da Firenze lo trovarono già morto.
Era stato un grande studioso che professava « solennemente una verità sola », « che è di catti­vo gusto esprimere senza scherzo, solennemente, le verità più alte ». Fu molto amato dai suoi sco­lari per la sua bontà e ricordato da tutti, oltre che per gli studi, per la « confidenzialità matura e cordiale » e per i motti di spirito. « Ciò non pro­va che egli, pur socievole, fosse una natura lieta: gli uomini che riboccano di frizzi, sono per lo più melanconici, ché il frizzo è evasione; malinconico fu, come oggi si vede sempre più chiaro, il socie­volissimo e argutissimo Teodoro Mommsen».
Giulio Cattaneo, La fiera letteraria, numero 37, giovedì, 12 settembre 1968

Giorgio Pasquali è soprattutto maestro.
Senza scrivere libri, memorie, articoli, egli potrebbe vivere; senza insegnare, vivere non potrebbe.
Infatti, egli insegna sempre, dappertutto ed a tutti: ai suoi scolari, a tutti gli studenti di lettere di Firenze e di Pisa, ai suoi colleghi di altre discipline, ai ragazzi di liceo e di ginnasio che conosce, alle persone che non conosce e che incontra per la prima volta.
E insegna a scuola, a casa, in biblioteca, a teatro, al caffè, per la strada.
A vederlo sempre circondato dai suoi ragazzi, ci si domanda stupiti come quest’uomo dinamico trovi il tempo di leggere, di scrivere, di meditare. Egli ride, scherza, discute con essi, e comunica ad essi il suo entusiasmo per la filologia. A vederli insieme, lui così cordiale, loro così alacri e festevoli, non si saprebbe dire se egli li ha resi simili a se stesso, o se è divenuto egli stesso simile a loro.
Quando Pasquali conosce uno scolaro nuovo gli cala addosso come un falco. Alle prime parole che sente, indovina subito di dov’è. Poi gli spiega le caratteristiche del suo dialetto, qualunque esso sia, da Susa a Siracusa; gli domanda egli stesso qualche particolare; gli fa pronunziare qualche suono. Così insegna e impara insieme. Ma lo scolare esterrefatto ha l’impressione che Pasquali sappia parlare il suo linguaggio natio molto meglio di lui. Poi comincia la gragnuola delle domande: famiglia, parenti, amici, professori avuti nelle scuole medie, simpatie, antipatie, libri letti, gusti, capricci, tutto è passato in accurata e tempestosa rassegna.
All’uomo, come allo studioso, anche le cose più piccole eccitano una curiosità insaziabile. Quando ha spremuto dal ragazzo tutto quello che può, finalmente Pasquali lo lascia in pace. In pace per modo di dire: dopo qualche giorno, ricominciano gl’interrogatori, le discussioni, i colloqui. Pasquali è maestro nato. Del maestro egli ha la qualità fondamentale e più rara: la benevolenza.
Io lo conobbi in un’auletta squallida dell’Istituto di Studi Superiori di Firenze, in uno squallido mattino di novembre del 1916. Ero un ragazzo di sedici anni, venuto da un paese di provincia a concorrere per una borsa di studio. Il mio timore reverenziale era grande. I professori universitari, allora, mi parevano numi: bella cosa, se tali mi paressero ancora! Ma io e gli altri compagni di concorso non fummo atterriti né dal sorriso ironico e luminoso del Padre Ermenegildo Pistelli, né dalla barba dignitosa di Felice Ramorino. Ci atterrì proprio lui, Pasquali. Giovanissimo, aveva fama di terribile; e non giovava a darci coraggio nemmeno il suo aspetto di studente anziano in vacanza.
Negli scritti d’italiano e di latino eravamo andati bene, chi più, chi meno, un po’ tutti; la commissione aveva deciso di dare un tema di greco difficile, per eliminare i meno meritevoli. Pasquali non intese a sordo. Scelse un passo brevissimo delle Operette morali di Plutarco: era un periodo solo, ma che valeva per cento. E poi, dettato il tema, ci spiegò subito, con bella franchezza, perché la commissione aveva deciso a quel modo. Naturalmente rimanemmo istupiditi: ci aveva annientati tutti, buoni e cattivi, con un colpo solo. Ma Pasquali è come la lancia di Peleo, che ferisce e risana. Mi vide più spaurito degli altri, mi si avvicinò, e mi disse; “In italiano e in latino, hai fatto meglio di tutti; me l’ha detto l’uccellino”. “Sarà stato un uccellino con la tonaca”, io risposi con folle audacia. Così nacque la nostra amicizia.
Purtroppo, quella sua bontà non bastò a portarmi fortuna per il lavoro di greco. Con i periodi farraginosi e artificiosi di Plutarco noi, ragazzi appena usciti dal liceo, non avevamo proprio nessuna confidenza. Facemmo tutti maluccio; e fecero forse peggio i meno stupidi, perché, invece di tradurre parola per parola, senza preoccuparsi del senso per evitare guai maggiori, vollero trovare un senso ad ogni costo, che andava, sì, ma che le parole greche non potevano avere. Dopo quel terribile esame chi pensava più di poter vincere la borsa?
Ma quando, alla prova orale, tradussi bene all’improvviso due passi dell’Odissea, Pasquali era più felice di me. E quando, un anno dopo aver vinto il concorso, ebbi trenta e lode all’esame di greco, fu per me una consolazione, ma per lui un trionfo.
Aveva ragione: il merito di quel progresso era assai più suo che mio. Con lui bisognava lavorar molto; e nemmeno era tanto facile seguirlo. Le lezioni erano dotte, dense, difficili. Pasquali, negli anni di Germania, s’era chiuso tra i libri come un baco nel suo bozzolo… Più tardi ha imparato… a incanalare in rivoli ameni il gran fiume della sua erudizione. E allora parlava con una rapidità vertiginosa, a scatti e a strappi, che sembravano raffiche di mitragliatrice; e ogni tanto punteggiava il discorso con Ach!, Gott!, Gott im Himmel! La cosa non era tanto singolare come poteva parere: egli era da poco tornato da Berlino, dove insegnava in tedesco. Ma quelle esclamazioni non erano, perciò, per noi meno strane; e sembravano rimproverarci della nostra ignoranza. Potergli tener dietro, a quell’uomo, che sembrava un terremoto!
Eppure, passati appena pochi giorni d’inquietudine e d’incertezza, tutto cominciò ad apparirci facile e piano. Pasquali chiosava egli stesso, ogni volta che lo incontravamo, dovunque lo incontravamo, le sue lezioni: ci spiegava chi era Suida (allora i dotti ritenevano ancora che fosse un uomo, non il titolo d’un libro), chi era Ateneo, chi era l’eruditissima Panfila, che cosa erano gli scolii.
A poco a poco ci accorgemmo d’un fatto sorprendente: nelle lezioni, quando c’era da spiegare una cosa veramente difficile, da dipanare una matassa intricata, proprio allora Pasquali diventava straordinariamente chiaro, sapeva render tutto facile con i più semplici espedienti pedagogici. Questa virtù di saper chiarire le cose più complesse e più ardue è rimasta sempre una delle qualità maggiori dello studioso. Tutti quelli che hanno letto il difficile libro di Eduardo Fraenkel sull’ictus e l’accento latino, sanno che, per capire bene il libro, è meglio leggere prima l’esposizione che ne fa in una sua recensione Pasquali: egli espone le teorie di Fraenkel con più chiarezza di Fraenkel stesso.
Dopo un mese, Pasquali era l’amico di tutti: a tutti prestava libri, ai più poveri anche danaro. E tutti andavano da lui per aiuto e consiglio, anche per cose che con la scuola non avevano proprio nulla a che fare. Egli accoglieva tutti: i più bravi, come i più scavezzacolli e sbuccioni. Per parecchi anni visse tra gli studenti e per gli studenti, in piena comunanza di vita con loro; ed era più lieto, più monello di loro […]
Gennaro Perotta, L’Indice, anno IV n. 10, dicembre 1987

«Definire il ruolo avuto dal Pasquali nella costituzione disciplinare della storia degli studi antichistici»: nella prima pagina della ricerca Fausto Giordano (d’ora in poi FG) presenta al lettore l’intento del libro, l’obbiettivo di un’indagine che da molti anni perlustra l’opera di Pasquali. Solitamente all’operato di studiosi del passato sono dedicati articoli o capitoli di libro, che necessariamente devono sintetizzare decenni di produzione scientifica e di riflessioni sul metodo; il volume di FG si allontana da questo tipo di contributi particolari, poiché è interamente dedicato al pensiero storico-critico di Pasquali, di cui offre una disamina analitica e molto ben documentata.
L’autore è rigoroso sin dall’Introduzione (pp. 9-16) nel non lasciare alcun dubbio sulle finalità e sull’ambizione della sistematica rilettura delle Pagine stravaganti o di Filologia e storia (della riedizione di quest’ultimo titolo FG fu curatore, Firenze 1988), giacché da tale operazione – in buona sostanza – prende forma il libro. Soltanto al termine, tuttavia, il lettore si accorge che il progetto si è di pagina in pagina notevolmente ampliato, fino a costituire una riflessione sulla scienza filologica e sulle sue vie di ricerca nel corso di tutto il XX secolo. Fortunatamente, FG si astiene dal trattare le Pagine stravaganti e gli altri titoli pasqualiani come una sorta di enciclopedia di storia della filologia classica, da cui trarre aneddoti ed episodi individuali; il maggior rischio – la velleità di tratteggiare giudizi stilistici su Pasquali prosatore – è scrupolosamente evitato, anche quando nell’Appendice la scrittura del filologo si fa oggetto di una serrata ricerca argomentativa, che vale piuttosto come modello di indagine (ma significativamente applicato alle pagine di apertura di Filologia e Storia, anziché a uno dei tanti ritratti personali, così tipici delle altre raccolte).
Il libro è articolato in tre parti: Metodologie moderne per lo studio dell’antichità, Il classico come “intertesto”, La Storia dello spirito tedesco e l’ermeneutica delle metodologie filologiche. Una breve Appendice. Appunti su Pasquali scrittore chiude il volumetto, unitamente all’Indice dei nomi moderni. La sezione più estesa si articola in paragrafi dedicati ad altrettanti studiosi o autori (nelle parti prima e seconda). Mai, però, FG cede all’impulso (che sarebbe forte in chiunque, soprattutto in chi conosca bene e ami la tradizione letteraria e filologica italiana) di schizzare un ritratto dell’interessato, ricalcando per esempio quel particolarissimo stile della scrittura di Pasquali. Detto altrimenti, FG resta fedele a un modello di indagine scientifica, con il suo proprio stile, e non si lascia ammaliare dalla mobilità vivacissima dell’autore di riferimento. Tale assunto formale è più importante di quanto appaia, poiché non si riduce affatto a una scelta soggettiva, ma deriva da un dissidio su cui Pasquali stesso aveva riflettuto a partire dai testi teorici di Friedrich August Wolf «su metodi e fini dello studio dell’antichità classica» e sulla «netta distinzione tra il “filologo-artista” e il “filologo-scienziato”, differenza che de-termina i compiti dello studioso dei testi antichi e i risultati della sua attività» (p. 27). Più che da un valore letterario, la scrittura del filologo deve essere caratterizzata da uno scopo preva-lente: «il tentativo di interpretare il suo impegno formale come lo sforzo di concorrere alla “creazione” di una lingua intellettuale nuova rispetto alla scrittura degli studiosi di ispirazione positivistica» (p. 119). Grazie a passaggi di questo tipo FG permette di apprezzare e compren-dere l’attenzione costantemente riservata da Pasquali a questioni stilistiche, lessicali e gram-maticali tanto delle lingue antiche quanto delle moderne. L’uso, la funzionalità, l’intento espressivo della parola si configurano dunque per il filologo come oggetto di indagine e al tempo stesso pratica metodologica e professionale; il volume pasqualiano di riferimento, a questo proposito, è certamente il postumo Lingua nuova e antica, assemblato da Gianfranco Folena nel 1964 a partire da note e brevi articoli apparsi su svariate riviste italiane (prima fra tutte «Lingua nostra»). La frequentazione degli studi linguistico-storici di Alfredo Schiaffini e Bruno Migliorini corroborò una delle più importanti intenzioni di Pasquali, ossia aggiornare il lessico filologico e scientifico italiano rispetto allo standard del modello tedesco, ma nel pieno rispetto dell’autonomia – e anche della dignità – linguistica dell’idioma nazionale. Chi desidera un giudizio sintetico sugli esiti stilistici della scrittura di Pasquali può ricorrere alla relativa voce biografica stesa con grande equilibrio (sebbene non del tutto aggiornata nelle referenze bibliografiche) da Antonio La Penna per il Dizionario Biografico degli Italiani (vol. 81, apparso nel 2014, l’anno successivo alla pubblicazione del saggio di FG): «Prosatore sempre chiaro e scorrevole, Pasquali dà nelle Pagine stravaganti le sue prove migliori di scrittore: alieno da enfasi, da retorica, è sempre vivido e sapido, con aperture al sermo cotidianus che è, per lo più, quello della sua Firenze; anche quando la sua umanità è commossa, lo stile è frenato, di un’ammire-vole misura, simile a quella della Toscana rinascimentale. Ancor più delle qualità dello scrittore emerge un aspetto fondamentale del suo metodo. Se un pilastro di esso è la collaborazione di varie discipline per risolvere un problema e, quindi, l’attenuazione dei confini fra le diverse discipline, l’altro principio è che da un singolo philologhema, che a prima vista appare isolato, una questione di critica del testo e di esegesi puntuale, si può o si deve arrivare a grandi problemi storici» (la voce è disponibile online sulla piattaforma www.treccani.it).
Uno dei molti pregi del libro di FG deriva dalla costante alternanza di analisi e di sintesi: impeccabile la prima – snodata attraverso il ricorso a molteplici sussidi – equilibrata, acuta e persuasiva la seconda, prudentemente collocata in coda a paragrafi densi di argomentazione. Per esempio, a proposito della difficile definizione dello storicismo del filologo, nel paragrafo dedicato a Pistelli si trova un’utile specificazione: «Non si tratta dello storicismo concepito come interpretazione degli eventi storici, sviluppato alla luce della concezione che lo storico ha del mondo contemporaneo, ma dell’attitudine a considerare i vari piani diacronici nei quali si formano gli strumenti espressivi degli autori. In questa prospettiva il Pasquali apprezza il rigore del filologo classico formatosi alla scuola del Vitelli, ma anche la sua competenza nel campo dei testi medievali» (p. 36). Oppure, a proposito della questione dell’usus scribendi e del suo riflesso in sede critico-testuale, così si legge nel paragrafo dedicato a Comparetti: «È evidente che il Pasquali nelle opere indicate del Comparetti apprezza l’applicazione del principio dell’usus scribendi, che era stato già praticato fin dai grammatici alessandrini, ma che nella teorizzazione del Pasquali non veniva limitato alla regola di misurare la validità di una congettura con la sua congruità rispetto alle abitudini linguistiche dell’autore il cui testo necessitava di correzione, ma veniva esteso all’intero sistema linguistico a cui il testo apparteneva» (p. 60). E di conseguenza, proprio in calce alla lunga memoria su Comparetti: «Il Pasquali ha ribadito qui uno dei contributi più significativi da lui offerti alla storia della filologia: il concetto che la conoscenza degli ambienti culturali con i quali un testo antico è entrato in contatto durante la sua tradizione può essere determinante per l’individuazione e per l’emendazione delle corruttele alle quali esso è stato sottoposto» (p. 69). Le preziose sintesi argomentative di FG fanno comprendere non solo il giudizio sul lavoro degli antichisti studiati da Pasquali, ma anche quello sull’opera poetica di autori a lui contemporanei, come D’Annunzio: «Si rimproverava al Nietzsche di cercare in una dimensione extratestuale i valori simbolici espressi dai vari miti […]. Il Pasquali mise invece in risalto la capacità di comprensione insita nella tendenza critica inaugurata dal Nietzsche e che, variamente rielaborata, ha ispirato numerosi studi nel corso del XX secolo e, nello stesso tempo, ebbe la felice intuizione di collegare l’idea dannunziana della grecità al modello interpretativo nietzschiano» (p. 89). Ma soprattutto FG fa emergere distintamente, in ogni paragrafo o capitolo, il pensiero dello stesso Pasquali, in particolare quello riferito al problema maggioritario del rapporto tra filologia e storia: «La posizione teorica del Pasquali per molti versi si presenta pure come una confutazione non estemporanea della teoria della crisi della cultura umanistica prospettata, nei primi decenni del secolo, da Oswald Spengler. Essa costituisce, però, anche un’accusa di inconsistenza filosofica mossa al tentativo jaegeriano, il cosiddetto terzo umanesimo, di dare vita a una valorizzazione dello studio dei classici fondata principalmente sul recupero dei valori etici da essi veicolati. […] Questo modo di teorizzare la validità dei classici, oltre a essere respinto da Pasquali nel merito, urtava anche contro il concetto di storia a cui egli si rifaceva, che era di carattere culturale e non politico. Secondo lui, la scienza è, infatti, legata allo “spirito del tempo”, è integrata con la cultura contemporanea, ma è indipendente dalle egemonie politiche e dalle strumentalizzazioni da loro imposte» (pp. 114 s., a conclusione della terza parte).
Indipendente dall’ambito politico, ma totalmente immerso nella storia e nelle sue problematiche: ecco il Pasquali che FG profila con nitidezza, senza mai semplificare la complessità di tale polarizzazione. Al contrario, dalle pagine del volume riaffiora tutta la difficoltà di definire i compiti del filologo: un problema che effettivamente Pasquali percepì con urgenza, non già in termini astratti, bensì in quelli dell’analisi biografica e scientifica […]
Michele Curnis, Fausto Giordano, Lo studio dell’antichità. Giorgio Pasquali e i filologi classici, Carocci (“Biblioteca di testi e studi” 880. “Lettere classiche”), Roma 2013, pp. 133, ISBN 978-88-430-7153-1, ΠΗΓΗ/FONS EISSN 2445-2297, editada por el Instituto de Estudios Clásicos sobre la Sociedad y la Política “Lucio Anneo Séneca”, Universidad Carlos III de Madrid

Gennaro Perotta – Fonte: Wikipedia

Nello scenario della filologia classica italiana del Novecento Gennaro Perrotta non fu soltanto uno degli interpreti più brillanti ma indicò un punto di snodo forse necessario nella definizione di un volto non più parziale per gli studi sull’antico in Italia. Qui, durante l’epoca pre-unitaria, le condizioni della filologia classica erano di estrema arretratezza, in netto ritardo rispetto agli altri stati d’Europa; tra questi la Germania esercitava un’indiscussa quanto illimitata egemonia.
La filologia greca in modo particolare viveva una situazione difficile, se non altro perché la vecchia scuola umanistico-clericale, instaurata con la Controriforma, era basata sullo studio del latino. Si trattava oltretutto di un latino mnemonico, retorico, insegnato senza metodo critico e, appunto, privo del confronto con il greco 1. I limiti del provincialismo in cui la filologia in Italia si era fino ad allora reclusa si infransero con Enea Piccolomini (1844-1910) e Girolamo Vitelli (1849-1935), promotori di due autentiche scuole – la pisana e la fiorentina – la cui opera, già alla fine dell’Ottocento, permise di recuperare il tempo perduto
[…] nel 1903; nello stesso anno Benedetto Croce cominciò a far conoscere sulle colonne della neonata «Critica» principi e dimostrazioni della sua Estetica. Il livello della questione che il filosofo introduceva aveva con sé la pretesa di varcare i confini segnati dai vari ambiti di pertinenza e di porsi come sfida per la formazione dell’identità morale e culturale di ogni uomo di studio. Quelli che nella forma sembrerebbero punti di raccordo tra Croce e Fraccaroli4 rivelano, in realtà, una distanza di contenuto ancora maggiore. L’analisi estetica di Fraccaroli si arresta allo stadio della reazione e, tutta compresa nella foga della sua polemica, non distingue più tra filologi e filologia 5. Invece per il Croce proprio questa distinzione era centrale6 e fu leva per la sua controversia con Giorgio Pasquali; con quest’ultimo la filologia classica italiana toccò il punto più alto della sua parabola nei termini di una piena comprensione del proprio compito e dei mezzi di cui disponeva. Ma anche in questa circostanza, causa un momento storico difficilissimo 7 e l’impossibilità di un confronto con Benedetto Croce che non esigesse l’implicazione totale della propria vicenda umana, l’urto fu inevitabile e quella che poteva essere un’intesa feconda tra la critica storica e l’estetica rimase di fatto inevasa.
Fu Gennaro Perrotta (1900-1962) a riassumere in sé il tentativo audace di percorrere il metodo storico di stampo positivista per giungere alla critica dell’arte crociana. Molisano di origine, egli si formò presso l’istituto di studi superiori di Firenze come allievo di Vitelli e di Pasquali (di cui poi divenne cognato). Proprio alla scuola di Pasquali, di cui si rivelò uno tra gli alunni più capaci, Perrotta maturò una formidabile preparazione filologica secondo la più rigida disciplina tedesca.
Già nel 1924, con l’articolo Virgilio e Arato 8, mostrava nel campo della latinità – che sonderà in momenti diversi della sua ricerca – una capacità notevole di affondo nel testo, costringendo il pregiudizio della dipendenza della poesia latina da quella greca, che si trascinava stanco da secoli, a cadere gradualmente. Da subito, perciò, egli non nascose il suo fastidio per quelle vecchie formule che, vuote, continuavano a ripetersi, come le “questioni” che, sulla scia di quella omerica, di tanto in tanto venivano aridamente riproposte 9 […]
1 Neppure con la legge Casati (1859) la situazione cambiò; anzi i problemi si acuirono poiché quella rivelò la mancanza dei presupposti pratici perché una riforma scolastica portasse con sé un miglioramento effettivo: mancavano biblioteche e testi aggiornati ma, soprattutto, mancavano docenti con una preparazione adeguata.
4 A questo proposito Giannotti sottolinea come nel testo de L’irrazionale nella Letteratura molti dei raffronti con l’Estetica crociana (comparsa quando la stesura del saggio era già terminata) siano stati aggiunti in modo sparso in un
secondo tempo (Gianotti, 1991, p. 47).
5 Un’immagine chiara ed epigrafica della frattura insinuata dal filosofo nel panorama degli studi in Italia è offerta in una lettera di Manara Valgimigli (1876-1965) a Fraccaroli del 18 marzo 1915 in cui l’autore, avvinto in un primo momento dalla novità de L’irrazionale nella Letteratura descrive l’«intimo disagio e un più acuto bisogno di libertà e di netta determinazione del pensiero» alla luce dell’«ubriacatura crociana» (1910); si veda anche il lavoro di G.M. Varanini, Appunti dal carteggio di Giuseppe Fraccaroli, in Giuseppe Fraccaroli (1849-1918). Letteratura, filologia e scuola fra Otto e Novecento, a cura di Alberto Cavarzere e Gian Maria Varanini, Trento, Ed. Università degli studi, 2000, pp. 137-183.
6 È in questo senso più che eloquente la breve riflessione di Croce che fu parte dello scontro a distanza e senza esclusione di colpi con Giorgio Pasquali Dei filologi «che hanno idee», Terze pagine sparse, vol. II, in «Scritti varii»,
Bari, Laterza, 1955, pp. 180-185.
7 Tra il polo liberale crociano e quello statalista di Gentile, Pasquali si schierò in un primo momento dalla parte di Croce firmando il Manifesto degli intellettuali antifascisti per poi piegare in verso contrario solo per ragioni accademiche e proprio qualche mese prima della caduta del Fascismo. Ne uscì psichicamente molto provato. In quell’occasione il Croce, sempre al di sopra della giostra politica e dei giochi di cattedre (anche se, allo stesso tempo, energicamente presente in forma deittica), non mancò di rinnovargli la sua stima e vicinanza.
8 Con questo scritto (in «Atene e Roma», Roma, pp. 3-19) Perrotta giungeva a dimostrare attraverso Virgilio come un grande poeta, imitando e alle volte quasi traducendo un pur non altrettanto grande poeta, giungesse al livello della vera
e robusta arte. Accadeva così che fosse proprio un grecista ad abbattere il pregiudizio della dipendenza della poesia latina da quella greca.
9 Lo stesso Pasquali in una delle sue due recensioni alla Letteratura greca del Perrotta (in Scritti filologici, vol. II, a cura di F. Bornmann, G. Pascucci, S. Timpanaro, Firenze, Olschki, 1986, pp. 974, 976) pur apprezzando e rispettando il Perrotta come studioso di alto sentire se ne discosta per la nettezza di alcune posizioni, non accettando, appunto, la negazione di una legittimità della questione erodotea e la soluzione troppo facile della questione tucididea.

Giovanni Maria Molfetta, Gennaro Perrotta: una sintesi efficace degli studi classici in Italia, Studi Nuovo Meridionalismo, Numero Aperto 2019, ISSN (2464-9279)

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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