
“Ora devo rappresentare le terre attraversate da Agilulfo e dal suo scudiero nel loro
viaggio: tutto qui su questa pagina bisogna farci stare, la strada maestra polverosa, il
fiume, il ponte […]. Traccio sulla carta una linea diritta, ogni tanto spezzata da angoli,
ed è il percorso di Agilulfo. Quest’altra linea tutta ghirigori e andirivieni è il cammino
di Gurdulù. <102
Per raccontare come vorrei, bisognerebbe che questa pagina bianca diventasse irta di
rupi rossicce, si sfaldasse in una sabbietta spessa, ciottolosa, e vi crescesse un’ispida
vegetazione di ginepri. […] Ma oltre che contrada rupestre questa pagina
dovrebb’essere nello stesso tempo cupola del cielo appiattita qua sopra, tanto bassa
che in mezzo ci sia posto soltanto per un volo gracchiante di corvi. Con la penna
dovrei riuscire a incidere il foglio, ma con leggerezza, perché il prato dovrebbe
figurare percorso dallo strisciare d’una biscia […]. <103
Ma come posso andare avanti nella storia, se mi metto a maciullare così le pagine
bianche, a scavarci dentro valli e anfratti, a farvi scorrere grinze e scalfitture, leggendo
in esse le cavalcate dei paladini? Meglio sarebbe, per aiutarmi a narrare, se mi
disegnassi una carta dei luoghi […]. Poi, con frecce e con crocette e con numeri potrei
segnare il cammino di questo o quell’eroe. Ecco che già con una linea rapida
nonostante alcune giravolte, far approdare in Inghilterra Agilulfo e farlo dirigere verso
il monastero […]. <104
Tutto questo che ora contrassegno con righine ondulate è il mare, anzi l’Oceano. Ora
disegno la nave su cui Agilulfo compie il suo viaggio, e più in qua disegno un’enorme
balena, con il cartiglio e la scritta «Mare Oceano». Questa freccia indica il percorso
della nave. Posso fare pure un’altra freccia che indichi il percorso della balena; to’:
s’incontrano. In questo punto dell’Oceano dunque avverrà lo scontro della balena con
la nave, e siccome la balena l’ho disegnata più grossa, la nave avrà la peggio. Disegno
ora tante frecce incrociate in tutte le direzioni per significare che in questo punto tra
la balena e la nave si svolge un’accanita battaglia.” <105
In queste righe, tratte dalle pagine de “Il cavaliere inesistente”, Italo Calvino sceglie di confessare al lettore un dilemma dal quale non riesce a uscire se non esprimendolo, appunto, al suo interlocutore nel linguaggio che gli è più congeniale, quello della letteratura.
L’intricata questione in cui appare impelagato l’autore ha a che fare con una serie di aporie che si condensano tutte nell’obbligo – assunto – di adeguarsi alle regole della narrazione e, per contro, nell’esigenza di una fuoriuscita dal campo dell’espressione verbale.
Nei quattro brani riportati si possono distinguere, rispettivamente, almeno altrettante occasioni critiche: anzitutto, il paradosso della traduzione nella forma testuale ed entro l’impianto grafico della pagina a stampa di un’azione che ha luogo in un ipotetico spazio fisico, com’è lo spostamento di uno o più personaggi (nel secondo caso la questione si complica, dovendo moltiplicare lo sguardo di tante volte quanti sono i personaggi coinvolti); in secondo luogo, la necessità di codificare l’immagine, nel nostro caso quella che rispecchia il paesaggio del racconto, in una serie di vocaboli; si passa poi alla presa di coscienza dell’irriducibile divergenza tra la durata delle vicende e quella della loro narrazione; infine, traspare la complessità di una rapida e contestuale restituzione di scenari differenti e delle reciproche relazioni che tra essi si innestano.
Si tratta evidentemente solo di alcune delle istanze cui la letteratura ha tradizionalmente fatto fronte fin dall’antichità. Eppure, l’esempio ci sembra particolarmente eloquente, tanto per l’escamotage narrativo adottato da Calvino, quanto per l’esito immaginifico a cui approda.
Se da un lato ci troviamo dinanzi alla millenaria dialettica tra parola e immagine, dall’altro, in questa diatriba, storicamente portata avanti a colpi di dettagliate descrizioni, passaggi evocativi e figure retoriche, entra prepotentemente in gioco l’elemento grafico – sebbene citato e mai riprodotto – in quanto segno convenzionale cui l’autore ricorre come attingendo a una legenda del tutto trasversale alla natura dei linguaggi specifici.
Non è certo questa la sede, né l’ambito disciplinare, per indagare l’alfabeto degli espedienti narrativi di Calvino né il suo interesse per le mappe e per la rappresentazione degli spazi – che ricorre nella sua produzione in diverse forme e modalità -, e tuttavia riteniamo di trovarci in un terreno ancora sospeso tra il vocabolario letterario e quello figurativo, entro il quale è lecito fare alcune congetture che possano inserirsi coerentemente nella riflessione che ci accingiamo a esporre circa l’uso e la diffusione dello strumento cartografico nel campo umanistico.
Il rapporto di fiducia che si instaura tra autore e lettore (il primo confessa i limiti della scrittura al secondo, che ne accoglie gli stratagemmi) consente dunque di esplicitare il metodo stesso con cui sta procedendo: ormai stabilito con certezza («Traccio sulla carta una linea diritta»; «Tutto questo che ora contrassegno con righine ondulate è il mare»; «Questa freccia indica il percorso della nave»), ma non privo di ambizioni o di ipotesi («dovrei riuscire a incidere il foglio»; «potrei segnare il cammino di questo o quell’eroe») e di sorprese («to’: s’incontrano»).
Quella che emerge dal racconto è una figura stratificata e mutevole, in cui permane il formato della pagina, mentre su di essa si accumulano non tanto immagini – che definirebbero un insieme ancora astratto e bidimensionale – ma piuttosto le qualità delle immagini stesse, trasferite ad un foglio proteiforme nelle sembianze di linee rette e linee curve, di orografie, confini, mari e terre emerse.
L’enfasi ecfrastica di Calvino conduce, fuori da ogni ambiguità, a una soluzione in cui confluiscono il dominio del visivo e quello del verbale, condensandosi in definitiva in una mappa di cui riconosciamo forme e simbologie. L’elemento cartografico, insomma, si configura come possibile via d’uscita dall’inevitabile tensione tra parola e figurazione, letteratura e pittura, immagine mentale e immagine reale.
È interessante notare che questa soluzione viene prospettata non attraverso una commistione di lettere e simboli, ma per il solo tramite della scrittura. E in ogni caso, ciò non ci impedirebbe di essere certi della natura cartografica di quel che viene descritto dall’autore, seppure questi non facesse esplicito riferimento al desiderio di avere a propria disposizione una «carta dei luoghi». D’altro canto, nei passaggi riportati, l’utilità della mappa emerge con chiarezza sotto profili diversi: il disegno degli itinerari risolverebbe la discrepanza tra le diverse temporalità e spazialità della narrazione, mentre la riduzione di alcuni passaggi del racconto a simboli risulterebbe
particolarmente efficace nell’agevolare l’associazione tra un brano – figurativo o narrativo – e l’oggetto della sua rappresentazione, l’individuazione di cause ed effetti, la sintesi di fortune alterne di cui interessa la menzione e l’esito finale più che il minuzioso reportage, nell’urgenza di giungere velocemente al cuore della narrazione <106.
Si è scelto di introdurre il tema degli atlanti e della diffusione delle azioni di mappatura in campi diversi del sapere attraverso questo lungo preambolo letterario, che ci ha in più punti sospinti ben oltre i margini della disciplina storico-artistica, perché in certo senso ad essa speculare e, in quanto tale, particolarmente adeguato a mettere in luce la natura composita e multidirezionale della mappa, oggetto in grado di configurarsi nella sua componente iconica attraverso la parola e, al contempo, di dar luogo a una o più narrazioni a partire da un’unica immagine.
Il riferimento calviniano, inoltre, può ragionevolmente proporsi come metafora della narrazione in genere, mutandone i contenuti dal piano immaginario a quello scientifico. Nella fattispecie, una ricognizione storico-artistica incorre non di rado in criticità per certi versi assimilabili a quelle citate in merito ai brani proposti: la trattazione in forma testuale di oggetti – le opere d’arte – in cui prevale la componente visiva, la necessità di inserire una singola traiettoria artistica entro un contesto diramato e stratificato e confrontarla con ulteriori traiettorie, la valutazione di esperienze che hanno implicazioni nel tempo e nello spazio, e così via. L’introduzione di una prassi critica che
faccia ricorso, anche con modalità assai differenti, all’elemento visuale, si può dunque contestualizzare alla luce di queste riflessioni.
[NOTE]
102 Italo Calvino, Il cavaliere inesistente (1959), Milano, Arnoldo Mondadori, 2002, pp. 78-79.
103 Ivi, p. 95.
104 Ivi, p. 96.
105 Ivi, pp. 97-98.
106 A trenta pagine dalla fine del racconto, si legge: «Io che scrivo questo libro […], mi rendo conto solo adesso che ho riempito pagine e pagine e sono ancora al principio della mia storia; ora comincia il vero svolgimento della vicenda», ivi, p. 94. Da qui, si fanno più fitti i riferimenti alla mappa dei percorsi e delle avventure dei protagonisti.
Brunella Velardi, L’archivio e la mappa. Un’ipotesi di documentazione georeferenziata dell’arte del Novecento a Napoli, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia – Viterbo, Anno Accademico 2019-2020