Ringrazio Ennio Contini per avermi messo la penna in mano e obbligato a scrivere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[…] (Ri)scrivere oggi per Alfredo de Palchi, poeta-amico, amico-poeta, espatriato a New York, sodale di tanto lavoro speso nel corso di decenni a promuovere insieme la poesia italiana in America, lui con la rivista Chelsea e l’editrice Chelsea Editions, io con la rivista Gradiva e l’editrice Gradiva Publications, affabulatore e interlocutore piacevolissimo di infinite discussioni sulla poesia, complice di tante “avventure” talora perfino tragicomiche sulle sorti poco magnifiche e poco progressive della medesima (ne racconterò qualcuna nel corso di questo scritto a partire dal lontano 1977, anno in cui lo conobbi), dicevo, riscrivere oggi su di lui dopo avergli già dedicato non poche pagine critiche (rimando, su tutte, a quelle contenute nel mio volume La parola transfuga. Scrittori italiani espatriati in America, Firenze, Cadmo, 2003), mi procura una certa difficoltà, consistente, appunto, nel dover separare il poeta dall’amico, l’uomo dall’artista, lo spregiudicato compagno di “storie giocose” dal professionista serio e intransigente, provocatore e anticonformista, qual è stato e qual è tuttora Alfredo de Palchi.
Già tanto tempo fa, nel pubblicare un suo libro che riuniva testi scritti negli anni Quaranta, miracolosamente salvati dalla madre Ines (The Scorpion’s Dark Dance / La buia danza di scorpione, Riverside, California, Xenos Books, 1993), libro uscito dopo più di vent’anni di silenzio dal precedente Sessions with My Analyst (Introduzione e Traduzione di I.L. Salomon, New York, October House, 1970), Sonia Raiziss annotava felicemente nella sua Introduzione: “ With Alfredo de Palchi the poet is the man. What he has known, what he has lived, is what he writes. He’s one of the most instinctive, shall I say “natural”, poets I know. His feelings become his words, his words originate from what life has dealt him; they swirl, leap and sing from the fire within-born of sharp stings and shooting spontaneously through his flesh.”
Parole, queste, che restano scolpite come uno stemma indelebile – purché si sottolinei che quella “naturalezza” della poeticità depalchiana cui fa riferimento la Raiziss, presupponga anche un intenso lavoro di lima e di revisione – , parole che definivano, in modo inequivocabile, fin da allora, la Stimmung profonda di questo poeta, sia all’altezza degli anni Quaranta, quando quelle furenti poesie furono scritte (in carcere), sia negli anni successivi ad esse.
Ho scritto poco fa dei vent’anni di silenzio che intercorrono fra i due libri su indicati. ma un “silenzio” solo apparente, scandito da un gruppo di testi dal titolo Gentile animale braccato, che uscì con l’Introduzione di Luciano Erba nell’Almanacco dello Specchio n. 11 (Milano, Mondadori, 1983), e poi da un altro nucleo, dal titolo Mutazioni, pubblicato nella plaquette-Premio Città di San Vito al Tagliamento (Udine, Campanotto, 1988, Nota di Andrea Zanzotto).
Va inoltre aggiunto l’enorme lavoro, insieme con Sonia Raiziss, sia di traduzione sia di pubblicazione, svolto soprattutto con la rivista Chelsea, indubbiamente uno dei periodici letterari, in àmbito internazionale, più longevo e stimolante che ha avuto l’America (primo numero 1958, ultimo numero 2007) e culminato, dopo varie collaborazioni antologiche con case editrici come la Bantam Books (The World’s Love Poetry, 1960), la Modern Library (Anthology of Medieval Lyrics, 1962) e la New Directions (Selected Poems di Eugenio Montale, 1965), con l’opera a più mani Modern European Poetry (New York, Bantam Books, 1966).
Quest’ultimo volume, piuttosto imponente, a cura di Willis Barnstone, poeta, traduttore, critico e futuro biografo di Borges, presentava nel suo interno varie sezioni; quella riservata ai poeti italiani fu appunto curata da De Palchi insieme con Sonia Raiziss, co-direttrice di Chelsea , insieme con Ursule Molinaro, dal 1960 al 1994, anno della morte di Sonia. De Palchi ne sarebbe divenuto, a partire dal 2002, direttore unico, subentrando a Richard Foster che nel frattempo lo era stato dal 1994 al 2002. Nel 2007 questa gloriosa rivista, dopo cinquant’anni di vita, ha essato del tutto la sua attività come periodico. Nel frattempo era nata l’editrice Chelsea Editions, fondata nel 2002 e diretta da De Palchi, tuttora attiva, aperta alla poesia italiana ed europea (fra i volumi pubblicati figurano poeti come Sbarbaro, Betocchi, Gatto, la Spaziani, De Angelis, Jaccottet, Jourdan, ecc.) .
A tutto questo andrebbe infine – last but not least – aggiunta un’attività solo in apparenza marginale, sulla quale la critica depalchiana ha sempre taciuto, fatta eccezione per un accenno che ne fece a suo tempo Vittorio Sereni in una memorabile Nota critica uscita in Questo e altro (n.1, 1962): uno scritto che insieme a quello di Glauco Cambon (in La Fiera Letteraria, 5 febbraio 1961) può ritenersi il “battesimo” critico della poesia di Alfredo, costituendo, al contempo, la prima base esegetica della sua poesia.
Mi riferisco, in particolare, al suo interessante lavoro svolto come “ambasciatore” culturale radiofonico, nonché a quello come corrispondente di alcune riviste: La Fiera Letteraria, Antipiugiù, Il Sestante Letterario e qualche altra testata di minore importanza di cui lo stesso autore, da me interpellato su questo punto, ha perso memoria.
Per il suo lavoro di “cronista” radiofonico da New York – in campo teatrale, musicale, artistico e poetico – faccio riferimento ai suoi reportages (proprio Reportage, fra l’altro, è intitolata una delle sezioni più vibranti della raccolta mondadoriana del 1967 Sessioni con l’analista) effettuati per Radio Monteceneri, aventi come interlocutore, in Svizzera, il poeta Giorgio Orelli. Interessante – sia detto per inciso – la storia di questa emittente, costituita nel 1925 come stazione nazionale del Monte Ceneri, dal luogo in cui venne posta l’antenna, e le cui trasmissioni iniziarono ufficialmente nel 1933. L’emittente aveva il compito di indirizzarsi al pubblico del Canton Ticino e delle Vallate dei Cantoni dei Grigioni nel terzo idioma nazionale (l’italiano appunto), svolgendo fin dalle origini una funzione identitaria fondamentale per la minoranza di lingua italiana della Confederazione elvetica. Radioceneri ha continuato la sua attività fino al 2008, anno in cui sono cessate del tutto le sue trasmissioni.
È un vero peccato che oggi non sia rimasta alcuna documentazione di quest’attività: sarebbe stata preziosa per capire scelte culturali e gusti personali del Nostro in una fase importante della sua iniziale esperienza di espatriato in America. Ricordo qui en passant che Alfredo si trasferì negli Stati Uniti con Sonia Raiziss, diventata sua moglie, nel 1956, dopo una giovinezza trascorsa in Italia tragicamente fra un carcere e un altro, vittima di umilianti calunnie, soprusi e palesi ingiustizie, e un successivo altalenante (ma assai stimolante sul piano della crescita culturale) periodo di circa cinque anni (1951-1956) trascorso a Parigi, dove avrebbe incontrato Sonia Raiziss. Un’odissea, insomma, almeno fino alla soglia dei trent’anni, ricca di colpi di scena e di mirabolanti avventure che ho già descritto altrove.
Quanto poi al suo lavoro di collaboratore e/o corrispondente per alcune riviste italiane, vale la pena almeno ricordare – lo farò più avanti – come nacque la sua collaborazione a La Fiera Letteraria, indubbiamente uno dei periodici letterari più importanti del Nostro Novecento. Siamo all’altezza del 1950. Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vittima di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella , fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfredo, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattitivi della Repubblica Sociale Italiana. Un gesto d’ingenuità politica che Alfredo avrebbe pagato assai duramente, insieme ad altri maldestri filorepubblichini di quel tempo. Penso a un altro scrittore italiano espatriato in America, praticamente coetaneo di Alfredo, Giose Rimanelli, autore, in tal senso, di un romanzo emblematico come Tiro al piccione (Mondadori, 1953).
Sta di fatto che allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida (1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima produzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbero colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni spianando la strada verso la successiva pubblicazione di Sessioni con l’analista), ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus (2010) su cui mi soffermerò più avanti.
Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affrontare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si concluse esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul quale, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collaborazionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena.
Ma torniamo al nostro poeta e al suo primo contatto con La Fiera Letteraria, rivista della quale egli prende conoscenza durante gli anni di prigionia grazie all’amicizia di un altro poeta, Ennio Contini, anch’egli rinchiuso nel penitenziario di Procida per ragioni politiche. Contini sarà il suo “maestro amico”, la sua primissima guida, e saprà intuire le potenzialità poetiche di Alfredo avviandolo seriamente, ma anche quasi per scommessa, alla letteratura. Da me espressamente interpellato su questo punto, cioè sull’effettivo inizio del suo apprendistato poietico, Alfredo mi confiderà che in effetti a spingerlo a scrivere poesia fu – a parte l’esplicito incoraggiamento di Contini – anche una sorta di scommessa con se stesso: sfidare con la scrittura creativa lo stato di terribile isolamento in cui si trovava, emulare il suo maestro e, magari, come sempre succede in questi casi, riuscire a superarlo! Tuttavia il nostro poeta non dimenticherà, a distanza di anni, di riconoscere ufficialmente la funzione didattica di Contini: nella Nota che accompagnerà il suo libro mondadoriano del ‘67 dichiarerà: “ Ringrazio Ennio Contini per avermi messo la penna in mano e obbligato a scrivere”.
[…] Chiedo scusa della lunga ma doverosa parentesi continiana.
Torno ora a De Palchi e a La Fiera Letteraria, rivista che egli sfoglia la prima volta nel carcere di Procida, grazie, appunto, a Contini che gliel’ha passata. Ha circa 22 anni e il suo compagno di prigione ha ormai letto le sue prime poesie diventandone un convinto estimatore. Alfredo va intanto leggendo non pochi libri: da Dante, (s’innamora delle sue “rime petrose”), Jacopone e Cavalcanti ai poeti della modernità ottocentesca e novecentesca: Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Campana, Govoni, Sbarbaro, Ungaretti, Montale, gli amatissimi Cardarelli e Quasimodo, i poeti simbolisti e postsimbolisti (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Nerval), e poi i futuristi e i surrealisti, ecc., senza mai dimenticare il padre eslege di tutta la poesia francese: quel François Villon, più volte sbattuto in carcere, che egli sentirà per tutta la vita come suo ideale “consanguineo”, e con i cui versi egli condividerà sarcasmo, malinconia, sfrontatezza, risentimento, irrisione.
De Palchi dunque lettore assiduo della Fiera tramite la quale si aggiorna sulla situazione letteraria italiana tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta. È in questo frangente temporale che si colloca l’episodio-chiave che porterà più tardi Alfredo a conoscere di persona Vincenzo Cardarelli, direttore di quella rivista (condirettore responsabile Diego Fabbri). Di Cardarelli aveva letto e riletto durante gli ultimi anni Quaranta, con crescente ammirazione, il volume Poesie curato da Giansiro Ferrata (Mondadori, 1942). Fra l’altro va ricordato che è proprio con questo libro che venne inaugurata la collana “Lo Specchio”. È questa “venerazione”, mista a disperazione, a spingere, infine, il giovane Alfredo a scrivere audacemente, nell’agosto del 1950, una lettera personale a Cardarelli, indirizzata genericamente presso la Direzione della Fiera Letteraria.
In quella lettera, ingenua ma toccante (Alfredo aveva 23 anni), il futuro autore di Sessioni con l’analista raccontava il proprio disagio esistenziale e al contempo esprimeva una sua personale condivisione psicologica verso il poeta-Cardarelli nel contesto della coeva produzione lirica di quegli anni, con particolare riferimento a Ungaretti e Quasimodo. La lettera, incorporata in un editoriale di Diego Fabbri che ne commentava contenuti e implicazioni, ebbe l’onore della prima pagina della Fiera (n. 34, Domenica, 3 settembre 1950). Una gran bella soddisfazione per un poeta in erba, per di più detenuto in un penitenziario, isolato da qualsiasi contatto letterario esterno, se non quello con un compagno-poeta di prigione.
Si tratta, in effetti, di un documento di primaria importanza perché in qualche modo ufficializza l’ingresso di De Palchi nella scena letteraria italiana.
Sono riuscito a recuperare – grazie alla tenace cooperazione di Annalisa Macchia, che qui ringrazio pubblicamente – questo fascicolo della Fiera Letteraria, conservato presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze. Ugualmente grato sono alla dottoressa Monica Maria Angeli che ne è la direttrice.
Vale la pena chiosare lo scritto di Fabbri, intitolato significativamente – proprio sulla lunghezza d’onda della lettera del nostro – Consolazioni della poesia, riportando, contestualmente, la lettera depalchiana.
L’editoriale prende spunto da un dibattito (Si può dare una definizione precisa della Poesia? Qual è la sua funzione?) variamente (e vanamente) acceso che in quello scorcio di tempo occupava le pagine della Fiera. Fabbri considera quel dibattito ozioso e per certi versi addirittura nocivo alla vera poesia:
(…) Il nostro ambiente letterario di solito così trasandato e pigro a impegnarsi nelle dispute critiche, si sveglia d’improvviso e diventa fervidamente suscettibile e acremente polemico (…). Eppure, da anni, i più sensibili a quella che è sempre stata e che dovrebbe tornare ad essere la profonda funzione della poesia, sono d’accordo nel rilevarne la sostanziale vacuità , la mancanza di consistenza umana al di là della leggiadria formale, sono d’accordo nel denunciarne la crescente impopolarità e, in definitiva, la progressiva inutilità (…) ; si comincia con sempre maggiore frequenza ad ammettere che la poesia non assolve più, da vari lustri, a quel suo disinteressato compito consolatorio per il quale molti si raccolsero, fin dalle origini, attorno all’aedo per ritrarsene trasfigurati , quasi lievitati dentro di religiosa, di poetica consolazione. Poiché, può davvero chiamarsi ancor poesia quella in cui ogni ombra di umanità è così minuziosamente espulsa da disperdere ogni eco umano degli uomini?
Partendo da questa premessa, Fabbri si appella al sentimento antico ma sempre attuale di ciò che la poesia può provocare; ciò che essa può risvegliare nel cuore degli uomini. Certo, discetta Fabbri, “questo criterio, non propriamente critico, servirebbe almeno a porre il problema su una base del tutto diversa da quella dell’estetica corrente: la base solida e disinteressata dell’effetto che la poesia produce sul lettore.”
Fabbri giunge a questa considerazione indotto dalla lettura della lettera di De Palchi pervenuta alla Fiera, che egli cita, subito dopo questa riflessione, nella sua interezza. Riporto questo documento sia per arricchire – essendosi ormai perso nella notte dei tempi l’originale – il retroterra dossografico del nostro poeta sia perché in effetti si tratta del primo scritto ufficialmente pubblico di Alfredo, sia pure svolto in forma di epistola scritta con il classico “voi”, ancora molto in uso in Italia tra gli anni Quaranta e Cinquanta, e tuttora vigente in certe aree della Campania e del nostro Meridione.
“Gentile Poeta Vincenzo Cardarelli,
permettetemi questa audacia, permettete a me che altro non sono che un ragazzo condannato dalla Corte d’Assise Straordinaria a trent’anni di reclusione per collaborazionismo con il tedesco invasore (e avevo diciotto anni il giorno della condanna!), permettete, dico, che vi esprima tutta la mia stima incondizionata, e che vi sia amico (un amico lontano e solitario amico del dolore) per aver notato, dopo tutte le accademie della poesia italiana che va per la maggiore e le tante farsesche rettoriche della sofferenza, in voi, una sincerità così acuta e una sofferenza così profonda e pur dimessa, e pure detta con un mezzo sorriso, da autorizzarmi – per quanto io non sia che un profano – a considerarvi il più puro e onesto poeta del nostro tempo. Ciò vi farà sorridere, forse amaramente. Ma io non voglio che voi pensiate a me come ad un giovane flatteur. Non mortificatemi. Vi scrivo non so perché; o forse i miei occhi di adolescente si son velati leggendo “Pure qualcuno ti disfiorerà, / bocca di sorgiva…” , oppure “I ricordi, queste ombre troppo lunghe / del nostro breve corpo, / questo strascico di morte / che noi lasciamo vivendo”, può essere. Ma, soprattutto, la vostra solitudine (e di un’altra, ancora, mi rammento, di Dino Campana) ove si specchia la mia giovane immagine d’orfano e di recluso. Non so né posso dirvi altro e come vi scrivo questa lettera per dirvi che siete un grande poeta e dirvi coraggio! Così sia che la vostra mano batta amichevolmente sulla mia spalla a dirmi fatti coraggio! Vostro affezionatissimo Alfredo De Palchi”.
E Diego Fabbri commenterà:
“Che la poesia debba battere sulla spalla del lettore per dirgli fatti coraggio, potrà sembrare, e magari essere, un criterio antiestetico e retorico per molti esteti e retori della nostra poesia; per me è la prima esigenza a cui ogni poesia deve ubbidire, è anzi il germoglio e il compito stesso della poesia, è la sua ragione d’essere. (…) Vorremmo, allora, scoprire da uomini (e soltanto dopo anche da critici) in che misura la poesia sia un dono di consolazione a quanti cercano consolazione. Poiché siamo arrivati a tal punto di smarrimento e di inutilità che è da saggi, oramai, voler rischiare la propria letteratura: volerla salvare così com’è vuol dire, certamente, perderla irrimediabilmente; volerla invece perdere, potrebbe voler dire cominciare a ritrovarla e a salvarla”.
L’editoriale di Fabbri, unitamente con la vibrante lettera di De Palchi, dovette destare una certa curiosità negli ambienti letterari italiani, come dimostrano altri interventi di intellettuali e semplici lettori che uscirono nei fascicoli della Fiera successivi a quello del 3 settembre 1950.
L’anno seguente (siamo agli inizi della primavera del 1951), dimesso definitivamente dalle carceri italiane (dopo la lunga permanenza a Procida ci fu un breve passaggio nel reclusorio di Civitavecchia), De Palchi avrà la ventura di conoscere personalmente (!) il suo benamato Cardarelli. L’incontro avverrà durante una breve sosta a Roma durante il suo viaggio verso Vercelli, città dove espleterà le pratiche di passaporto per raggiungere la madre a Parigi. È nella capitale francese, di fatto, che Ines è andata a vivere fin dal 1946; l’anno seguente sposerà Carlo Giop, che adotterà il giovane Alfredo.
Durante la breve sosta a Roma incontra l’amica di una donna con la quale egli era in corrispondenza, tale Nicla Palmisano, personaggio colto e solitario, dedito a una sorta di utopica, solipsistica purezza. La Palmisano aveva molto apprezzato la lettera di De Palchi alla Fiera Letteraria e con lui aveva avuto (e avrà anche in seguito) un’ intensa corrispondenza umana e letteraria, purtroppo andata perduta. Una volta che Alfredo è uscito dalla prigione, i due decidono di conoscersi di persona, ma, all’ultimo momento, all’appuntamento fissato fra lui e Nicla a Roma, si presenta quest’amica, in quanto la Palmisano, come ho già accennato, viveva una sua vita estremamente appartata, monacale, autoreclusa nella propria casa, gelosissima della sua privacy. Alfredo (o “Elfrid” – come Nicla, appassionata del teatro strindberghiano, usava chiamarlo nelle lettere) ricorda ancora oggi con affettuosità quell’intenso e stravagante scambio epistolare avuto con questa donna rimasta ignota, che predicava e pretendeva dal suo Elfrid la purezza assoluta e, al contempo, con vivo dispiacere per averlo interrotto nel corso degli anni Sessanta.
L’amica di Nicla Palmisano, di cui Alfredo non ricorda più il nome, inviterà il nostro poeta in erba a un ricevimento presso un’elegante casa romana. Qui De Palchi, oltre a vari intellettuali e artisti (tra i quali i musicisti Nino Rota e Luigi Nono) farà la conoscenza di Cardarelli. Alfredo ricorda ancora oggi vividamente l’arrivo del suo amato poeta in quella sfarzosa abitazione romana, tutto avvoltolato in un cappotto (il mitico cappotto cardarelliano!), e così, sempre incappottato, se ne starà per tutto il tempo di quella festa. A un certo punto il nostro giovane poeta, vincendo ogni residua timidezza, si presenta all’autore da lui tanto letto e ammirato, menzionandogli, fra le altre cose, che era stato proprio lui l’autore di quella “famosa” lettera speditagli sette mesi prima all’indirizzo della Fiera.
Da quel momento in poi inizia una discreta amicizia che verrà consolidata nel prosieguo degli anni fino alla morte di Cardarelli (1959) con lettere e cartoline che De Palchi gli invierà da Parigi, poi da Barcellona, infine da New York. Sarebbe interessante verificare se nell’archivio-Cardarelli esistano ancora tracce di questa corrispondenza depalchiana (i volumi finora pubblicati della corrispondenza caradarelliana, a cura di Bruno Blasi, contengono soltanto le lettere inviate dal poeta, ma non quelle dei suoi corrispondenti).
In ogni caso, è in seguito a questo incontro romano che scaturirà la sua collaborazione alla Fiera Letteraria, prima via Cardarelli, poi via Elio Filippo Accrocca e Pietro Cimatti. Accrocca scriverà una noterella di presentazione a un gruppo di giovani poeti italiani il cui lavoro d’esordio sarà pubblicato nella rivista in questione (sono testi, poi ripudiati, che Alfredo aveva inviato alla Fiera da Parigi tra il 1953-1955). Il secondo, Pietro Cimatti, come caporedattore della Fiera dal 1959 al 1964, pubblicherà piccoli contributi inviati da Alfredo da New York.
Nel complesso, un capitolo piuttosto interessante che andrebbe approfondito, verificando cosa, esattamente, il nostro Alfredo andò pubblicando in questo periodico. Tutto ciò richiederebbe uno spoglio sistematico delle annate che vanno dai primi anni Cinquanta ai primi anni Sessanta. Un compito che mi propongo di svolgere in futuro.
Sta di fatto che sulla Fiera, fra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, usciranno sue poesie (quelle poi ripudiate), recensioni (ce n’è una “scritta con tutta la passione e rabbia giovanili di allora” sul suo ex compagno di prigione Ennio Contini in occasione della pubblicazione, nel 1962, di Schegge d’anima), nonché vari articoletti di cronache culturali su eventi artistici, teatrali e letterari di New York. Si tratta di scritti sporadici, per lo più brevi e casuali, decisamente “minori”, a detta dell’autore, che, ripeto, forse però varrebbe la pena recuperare.
[…]
Luigi Fontanella, Fra saggio e racconto: la scommessa di Alfredo De Palchi, Versante ripido, 5 gennaio 2014

[…] Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.
Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore». Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di de Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità della poesia europea, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un luogo, semmai ci possono essere scorci, veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.
Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati, sfalsati, saltando la copula, passando da omissione ad omissione.
Giorgio Linguaglossa, Dieci poesie di Alfredo De Palchi…, L’Ombra delle Parole. Rivista Letteraria Internazionale, 14 agosto 2014

Le ultime raccolte poetiche di Alfredo De Palchi – in ordine cronologico La buia danza di scorpione (1993), Costellazione anonima (1997), Le viziose avversioni (1999) – danno ordine e sistemazione in parte alla produzione già esistente e, mediante l’aggiunta di nuovi componimenti e l’ausilio di un nuovo assetto, consentono maggiore compiutezza e senso di direzione alla poetica depalchiana. Collocabili in ordine cronologico fra il 1993 e il presente, queste ultime fatiche poetiche rappresentano soprattutto un rispecchiamento di quegli assunti concettuali aventi un limpido riscontro nell’esperienza umana del poeta. L’importanza del dato autobiografico si conferma già a partire da La buia danza di scorpione (1993), laddove l’esperienza seminale del carcere dà l’abbrivio all’ispirazione compositiva e si riscontra poi tematica portante dell’opera. L’anelito alla libertà, che muove De Palchi carcerato a rifugiarsi negli spazi infiniti e mobili della fantasia poetica, domina il panorama de La buia danza di scorpione, la raccolta che segna l’incipit della revisione umana e poetica sul proprio passato e il recupero dell’attività poetica depalchiana, almeno quella in raccolta – mentre vari componimenti poetici avevano continuato ad essere pubblicati singulatim in riviste italiane e statunitensi. La buia danza di scorpione inaugura la nuova stagione poetica in raccolta e segna una ripresa dopo la prolungata pausa seguita alla riuscitissima prova poetica degli ultimi anni sessanta, con Sessioni con l’analista (1967), opera uscita per Mondadori e pubblicata alcuni anni dopo in versione inglese per la traduzione di Solomon (1970). La raccolta intermedia fra queste due, Mutazioni (Campanotto, 1988, vincitrice del premio San Vito al Tagliamento), risulta alquanto sfuggente ad una più esatta collocazione critica, almeno nel panorama che qui si cerca di tracciare: pregevole dal punto di vista tematico, pare che esiti invece ad ancorarsi ad un imprescindibile evento biografico. Con Costellazione anonima (1997) la riflessione sull’esperienza personale si allarga ad una dimensione amplificata, includendo il resto dei propri simili nel tema della storia umana e dell’evoluzione universale. L’ultima raccolta in ordine cronologico, Le viziose avversioni (1999), segna poi un ulteriore passo avanti stilistico sulla strada di una progressiva astrazione metaforica. Il linguaggio poetico si fa sempre più rarefatto, così da poter esprimere elegantemente il difficile topos erotico.
Singolare e suggestiva si presenta la rubrica «vita e opera» di Alfredo De Palchi il quale, autodidatta ribelle e ingegnoso, prende spunto dalla traumatica esperienza carceraria per intraprendere la carriera poetica. La sua formazione letteraria comincia nel penitenziario partenopeo, allorché De Palchi fa le prime letture poetiche serie e incide i primi versi sulla parete della cella. Si entusiasma particolarmente all’opera di François Villon, il poeta che rimarrà per lui il grande maestro, citato in epigrafe fin nelle opere pubblicate di recente, a oltre cinquant’anni di distanza da quelle prime letture giovanili. Il carcere rappresenta inevitabilmente un momento determinante per il poeta ventenne o poco più che ventenne, passaggio di maturazione umana e rito iniziatico di trasformazione dall’idealismo adolescenziale al realismo disincantato della vita adulta. De Palchi sembra votato a sfatare ed esorcizzare tutti gli idealismi politici, sociali e letterari che caratterizzano l’immediato dopoguerra italiano. Dopo l’esperienza carceraria e alcuni anni di disordinate peregrinazioni europee, muovendosi soprattutto fra l’Italia e Parigi, e vivendo all’insegna delle speranze ribelli e anticonformiste di quella generazione di letterati, nel 1956, alla simbolica età di trent’anni, De Palchi approda a New York. Nella megalopoli statunitense risiede tuttora, facendosi sempre più attivo ed impegnato su numerosi fronti letterari: dalle pubblicazioni poetiche, alla codirezione di Chelsea, l’elegante rivista letteraria in lingua inglese, alla promozione e al sovvenzionamento di attività volte alla divulgazione della poesia italiana negli Stati Uniti.
Non voglia sembrare oziosa rassegna biografica questo conciso spiraglio sulla vita dell’autore, dato che la sua poesia, per quanto in modo criptico e mediato da meccanismi poetici di varia natura, si pasce abbondantemente del nutrimento inestinguibile e variegato della sua esperienza umana, particolarmente, ma non soltanto, nella sua fase incipiente. Una delle raccolte più importanti di questi ultimi dieci anni, La buia danza di scorpione (1994), si rifà proprio a quel momento determinante dell’incarcerazione e rilegge in esso simbolicamente tutte le principali tappe esistenziali del poeta. Il luogo ispiratore per un ripensamento e una riflessione esistenziale sul proprio vissuto è proprio la prigione, sia come luogo topografico che nella sua accezione metaforica. Anche quando l’opprimente atmosfera della reclusione non assurge ad argomento dei componimenti poetici in questione (come accade in effetti nella maggior parte dei casi), l’irrespirabile costrizione e la soffocante chiusura dell’ambiente carcerario filtrano nei versi depalchiani, informando di sé anche i componimenti sull’infanzia e sull’adolescenza veronese. Molto spesso sono semplicemente la complessità e l’estremo ermetismo dello stile a comunicare la sensazione claustrofobica dell’imprigionamento che, con i suoi spazi limitati e la sua mancanza di libertà, diventa per il poeta metafora calzante dell’intera esistenza, lente d’ingrandimento attraverso cui leggere e interpretare tutta la propria vita precedente. Il carcere si concepisce come quel momento di «conversione» che le più recenti teorizzazioni sul genere autobiografico riconoscono come essenziale, non solo alla (generalmente prosastica) scrittura autobiografica, ma alla scrittura tout cour, indipendentemente dal genere e dallo stile adottati. Il carcere diventa un momento di autodefinizione sia umana che poetica; è l’esperienza-chiave senza la quale risulterebbe inconcepibile sia l’uomo che il poeta Alfredo De Palchi; il periodo trascorso in prigionia rappresenta la torsione determinante, dalla quale si sdipana poi tutto il vissuto di questo autore, nonché la sua dedizione incondizionata all’arte in generale e alla poesia in particolare. Si tratta qui naturalmente di conversione intellettuale, una conversione alla poesia che non ha niente di religioso – almeno nel senso comunemente inteso di conversione ad una religione rivelata. Ma proprio alla stregua della dinamica spirituale innescata da una conversione religiosa, la costrizione carceraria funge in De Palchi da filtro attraverso cui viene riesumata e vagliata tutta la propria esistenza precedente, chiamata improvvisamente ad assumere un significato esistenziale e poetico più alto. Proprio come un filtro, il carcere mantiene la doppia funzione di catalizzatore di un’indagine sul proprio vissuto e quella ad esso opposta di schermo fra il sé di allora e quello presente.
La raccolta si apre in maniera simbolicamente adatta a questo ripercorrimento esistenziale con un singolare riferimento autoriale al proprio concepimento nella poesia «In principio». (La eco biblica dell’incipit evoca l’inizio del tempo cosmico, messo simbolicamente in relazione allo sbocciare della propria vita). La matrice autobiografica persiste poi più o meno immutata fino alla conclusione della raccolta, laddove si mette a parte il lettore del pensiero ossessivo del suicidio nel componimento intitolato «Io». Il suicidio appare in funzione di morte annunciata dello scrivente o, per usare una più specialistica terminologia teorica sul genere autobiografico, di «colui che dice io», appunto. I componimenti intermedi fra i due poli cruciali di nascita e morte costituiscono la riflessione più o meno chiara o più o meno dichiarata sul proprio passato, resoconto tormentato e angoscioso delle distorte elucubrazioni del prigioniero.
Ingrediente essenziale di questa, come delle successive raccolte, sembra essere la difficile e sofferta permanenza in prigione. È in questa sofferenza che si matura l’uomo e il poeta De Palchi e, se ne La buia danza di scorpione essa si tematizza in specifici riferimenti alla dimensione reale del carcere, nelle raccolte successive rimarrà solamente una traccia impercettibile (pur se indelebile) dell’itinerario poetico depalchiano. L’abbagliante luce della sofferenza carceraria illumina di sé un po’ tutto il cammino poetico di questo autore. L’opprimente costrizione della cella gli apre la mente alla riflessione e all’approfondimento della propria personalità, diventando fonte imprescindibile di maturazione umana e poetica, riconosciuta e ammessa dal poeta medesimo, quando scrive: «in questo cubicolo / mi mangio maturando e sulla pietra / raspo per una vita dissimile». La metafora del «raspare sulla pietra», al fine di catturare una diversa dimensione vitale, appare perfettamente adeguata all’anelito insaziabile di libertà da ritrovare all’esterno dell’ambiente rinchiuso del carcere. E se il raspare animalesco e gallinaceo alla ricerca di una via d’uscita suggerisce una lettura letterale del verso, il concetto espresso precedentemente in riferimento al «mangiarsi maturando» invita invece ad una lettura metaforica, simboleggiando un riflessivo ripiegarsi su se stesso innescato dalla costrizione del «cubicolo». Il lavoro di scavo interiore, espresso tramite lo stile depalchiano aspro ed essenziale, diventa una auto-antropofagia, che si pone come indispensabile processo di maturazione personale – avvenga esso dentro come fuori dal carcere. Lo scavare, che tradizionalmente si concepisce come attività del fuggiasco verso l’esterno, si trasforma qui paradossalmente in fuga dentro se stessi; il sogno inesaudito di una via d’uscita – dalla prigione, dalla vita, finanche dall’asprezza e chiusura della propria poesia – si cambia nel procedimento di positiva maturazione personale che fa tesoro della permanenza forzata nel cubicolo della prigione.
[…] Il recupero e la riappropriazione delle origini, personali e dell’umanità, rappresenta il tessuto costitutivo di molta poesia depalchiana. Se La buia danza di scorpione segnava il riandare a ritroso nella propria storia alla ricerca di segnali simbolici per una missione intellettuale scoperta nella sofferenza del carcere, Costellazione anonima si spinge oltre, con il suo scavo delle origini, mitiche e innominate/innominabili (non a caso la costellazione è «anonima») degli inizi bui del genere umano e della creazione intera. Storia e natura sono in entrambe le raccolte le protagoniste che si intrecciano e si intersecano, entrambe obbedienti all’unica inesorabile e cieca legge del destino.
Alessandro Vettori, Il carcere come metafora nell’evoluzione poetica di Alfredo De Palchi (1993-1999), Poesia 2.0, 28 gennaio 2012

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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