La figura poliedrica di Angelo Maria Ripellino (Palermo 1923 – Roma 1978), saggista, poeta, grande studioso di letterature slave e critico teatrale, ha subito un destino beffardo nella nostra letteratura. Sebbene egli concepisse la slavistica come «evasione […] dalle indagini specializzate per pochi savi, – come inusitata riserva di tesori poetici e pretesto di comparazioni» <1 – ragione per cui inaugurò, secondo Calvino, una «saggistica nuova, in cui lo studio documentato diventa prosa creativa» <2 -, tuttavia il suo indiscusso valore accademico finì per offuscare, danneggiandola, proprio la sua statura letteraria. Neppure le sue due opere maggiori, “Il trucco e l’anima” (1965) e “Praga magica” (1973), rêveries innamorate di un poeta doctus e autentici capolavori di quel genere ibrido che è il saggio-romanzo, sono bastate a sfatare la sua «sofferta canonizzazione entro la rosa dei nostri maggiori prosatori di secondo Novecento». <3
Ripellino si considerava però, e fu innanzitutto, un poeta. Non per altro tra i notevoli contributi da lui forniti alla slavistica in lingua italiana emergono le sue traduzioni dei lirici russi e boemi (Pasternak, Majakovskij, Chlébnikov, Blok, Holan), su cui vi è l’impronta tangibile di una ben delineata ed esperta voce poetica. Ancor più della sua prosa, la poesia di Ripellino ha dovuto fare i conti con una difficilissima collocazione nel panorama contemporaneo, come già messo in luce negli anni Sessanta da Calvino. <4 Di ciò era ben conscio l’autore siciliano, che così scrisse nel “Congedo” del suo secondo libro di versi, “La Fortezza d’Alvernia” del 1967: “D’altronde, nel lungo imperversare del Dopoguerra, quando sparavano a vista sui giocolieri e sui trasgressori dell’imperante realismo e dell’Alto Vernacolo dei Robivecchi e poi su coloro che non accettassero la squallidezza di un’arte chiamata «industriale », non c’era posto per le mie metafore, tassate di barocchismo. E la mia confidenza con la poesia di altri popoli, e in specie con quella dei russi, dei boemi, dell’espressionismo tedesco e dei surrealisti francesi, era un peccato di cui avrei dovuto pentirmi”. <5
Afferma Antonio Pane: «Straniero ai ‘dibattiti’ che in Italia tengono il campo (rimbalzello di pertinaci ermetismi, arte per il popolo, letteratura da industria, rabberciate avanguardie), pagherà cara la pretesa di rinnovare l’aria, di aprire frontiere». <6
Presto a questo suo isolamento artistico Ripellino vedrà aggiungersi lo scotto di un pregiudizio ancora peggiore, di cui si fa testimone, autoaccusandosi, un poeta della sua generazione, Giovanni Raboni: «Ma può anche darsi […] che io giudicassi a quei tempi (parlo della fine degli anni Sessanta, dell’inizio dei Settanta) la poesia (la poesia in proprio) di Ripellino come l’ammirevole, scintillante violon d’Ingres […] di uno studioso esuberante e inquieto, la valvola attraverso la quale, legittimamente e impropriamente, si sfogava il troppo pieno della sua genialità critica». <7 Gli veniva così cucita addosso quella «croce al merito slavistico» <8 che Ripellino portò per tutta la vita con grande disagio. <9
Dopo la morte precoce che lo ha colto per la concomitanza di vari malattie, a soli 55 anni, nel 1978, poche sono state le pagine critiche spese su di lui e un’impietosa trascuranza, che egli aveva amaramente profetizzato, <10 si è abbattuta sulla sua opera. Basterà osservare la totale assenza di Ripellino nei numerosi studi di uno dei maggiori critici italiani, Pier Vincenzo Mengaldo; più ancora dell’esclusione dall’antologia poetica novecentesca da lui curata per Mondadori, <11 sorprende il suo silenzio su Ripellino anche nel saggio “Profili di critici del Novecento”: una delle motivazioni addotte da Mengaldo in merito alla mancanza dell’autore «di un libro di culto come ‘Praga magica’» è «lo straripamento alluvionale, in lui, della scrittura sulla cosa». <12 Risponderemmo ironicamente con Pane: «Troppo poeta come studioso e troppo erudito come poeta». <13
Fortunatamente l’opera ripelliniana ha conosciuto di recente significativi approfondimenti critici. In particolare nel primo decennio del Duemila sono stati ripubblicati vari suoi scritti dispersi ed è stata resa disponibile un’edizione integrale dei suoi testi poetici, suddivisa in due volumi separati: “Poesie prime e ultime” (Nino Aragno Editore, Torino 2006), contenente le prime due raccolte e l’ultima in ordine cronologico, “Non un giorno ma adesso” (1960), “La Fortezza d’Alvernia e altre poesie” (1967) e “Autunnale barocco” (1977), insieme a tutte le poesie disperse – per lo più giovanili – e inedite finora recuperate, e “Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde” (Einaudi, Torino 2007), che racchiude le tre raccolte centrali di Ripellino uscite per la ‘collana bianca’ rispettivamente nel 1969, nel 1972 e nel 1976. Nel 2005, inoltre, Enrico Testa ha inserito l’autore all’interno dell’antologia “Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000” (Einaudi, Torino 2005). <14
A fronte di un inquadramento critico generale della sua opera in versi, realizzato principalmente attraverso i contributi di Alessandro Fo, Federico Lenzi, Antonio Pane e Claudio Vela che accompagnano le riedizioni delle opere ripelliniane (da segnalare sono anche alcuni recenti saggi di Andrea Cortellessa <15), manca a oggi il commento scientifico alle singole sillogi, che Fo nella sua introduzione a “Poesie prime e ultime” indica come «impresa, ardua quanto attesa». <16
Un’operazione necessaria per districare la vasta eterogeneità di influssi culturali di cui è densa la lirica di Ripellino e approdare a una visione più definita di questa voce poetica non ordinaria che merita di trovare posto nel canone del nostro secondo Novecento.
[NOTE]
1 LIM, p. 5.
2 Calvino 1983, p. 27.
3 Cortellessa 2009, p. 134.
4 Cfr. Calvino 2000, p. 493: «mi pare un poeta del tutto fuori del tempo (e delle spazio; il suo mondo poetico comincia al di là di Tarvisio), un crepuscolare e “futurista” (alla russa) in ritardo, con un gran talento fantastico ma un circuito culturale e ideologico un po’ stretto».
5 FA, Congedo, p. 204 s.
6 Pane 2007, p. XIV.
7 Raboni 1981, p. 134.
8 Ivi, p. 133.
9 Cfr. FA, Congedo, p. 204: «Il mio mestiere di slavista, la mia etichetta depositata mi relegarono sempre in una precisa dimensione, in un ranch, da cui m’era rigorosamente vietato di evadere». Si veda inoltre l’ironica poesia n. 2 di Notizie dal diluvio: «Slavista! mi gridano donne con frappe sul capo / e con fettucce e colombe e fleurettes e cràuti e baubau. / Slavista! mi assalgono omini violacei / […] Chiedo perdono. È deciso. La prossima volta / farò un altro mestiere».
10 Cfr. AB 17, vv. 1-5: «Non si accorgeranno nemmeno / di quello che hai scritto. / Getteranno i tuoi versi tra gli stracci vecchi. / Resterai sguattero, guitto / in questa fiera di gattigrú delle lettere».
11 Mengaldo 1978.
12 Mengaldo, 1998, p. 10.
13 Pane 2007, p. XIV.
14 Prima di allora l’ultima antologia che ospitava il poeta era quella garzantiana del 1988, a cura di Gelli-Lagorio.
15 Cortellessa 2006 e 2009.
16 Fo 2006, p. 18. L’unico passo mosso in questa direzione è costituito da una tesi di laurea sulla Fortezza d’Alvernia: cfr. Panichi 2007-2008.
Umberto Brunetti, Lo splendido violino verde di A. M. Ripellino. Saggio di commento, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2018