Roma si fa metafora della condizione dell’esiliato, personificazione delle paure e preoccupazioni del poeta Rafael Alberti

[…] L’incontro tra Bodini e Alberti risale al gennaio del 1962, quando Alberti è a Milano insieme alla moglie e alla figlia Aitana. Dell’incontro Bodini parla in un articolo pubblicato su “Il mondo” in data 21 gennaio 1962, e successivamente raccolto in I fiori e le spade. Nell’articolo, in cui apprendiamo l’intenzione di Alberti di lasciare l’Argentina per trasferirsi in Italia, Bodini traccia il percorso poetico dell’autore, ricordandone gli inizi con il successo di Marinero en tierra (1924), che fece di Alberti, pittore già affermato e più giovane di Lorca di quattro anni, «l’unico che potesse contrastare il dominio assoluto di Federico nel cuore degli spagnoli». Di Alberti, nato nel 1902 a Puerto de Santa María (Cadice), dove morirà nel 1999, Bodini sottolinea gli elementi “mediterranei” che si manifestano già in Marinero en tierra attraverso una grande padronanza della forma, fortemente influenzata dalla pittura e in netto contrasto con «il piano sperimentale ancora pieno di scorie» del Libro de poemas (1924) di Lorca.
Alberti viene presentato come poeta della solarità, facendo tuttavia, come viene dichiarato in un altro articolo, un’eccezione importante per Sobre los ángeles (1929), libro che secondo Bodini «ha dato vita a un mondo subalterno di atmosfere e stati d’animo o segrete proprietà delle cose, con un’allucinazione esattissima, riducendoli all’essenzialità con operazioni che hanno la sicurezza di una favolosa intuizione matematica». Fu soprattutto questo libro che fece di Alberti un poeta “surrealista” nello studio che Bodini dedicherà ai poeti della generazione del ‘27, I poeti surrealisti spagnoli (1963), in cui proprio ad Alberti, insieme a Lorca, viene dedicata la maggior parte dell’attenzione critica e della traduzione, a cura dello stesso Bodini, dei testi proposti.
Alberti si trasferisce a Roma nella primavera del 1963, spinto dalla grave situazione politica in Argentina in seguito al golpe militare. Come rileva Maira Negroni in Rafael Alberti: l’esilio italiano (2002), il processo di conoscenza e compenetrazione della nuova realtà geografica e culturale fu mediato e propiziato dall’amicizia con numerosi artisti e intellettuali come Giuseppe Ungaretti, Pier Paolo Pasolini, Alfonso Gatto, Carlo Levi, Vittorio Gassman e i suoi critici e traduttori Dario Puccini, Ignazio Delogu e Vittorio Bodini.
Per quanto riguarda Bodini, l’amicizia con Alberti si consolidò, come apprendiamo dallo stesso Alberti, grazie a lunghe passeggiate: «in continue sortite diurne e notturne le poesie di questo libro crescevano via via, quando entrò in esso in pieno Vittorio Bodini, già grande amico mio e magistrale traduttore d’un’estesa antologia dei miei versi».
Circostanze confermate da Ignazio Delogu, che tradurrà la seconda raccolta dedicata da Alberti alla sua esperienza italiana, Canciones del Alto Valle del Aniene (Disprezzo e meraviglia, 1972): «ci vedevamo continuamente e quasi tutte le notti Rafael e io uscivamo a prendere un caffè o, più spesso, un quarto di vino dei Castelli, in una delle tante rivendite del Trastevere […]. Spesso ci faceva compagnia Vittorio Bodini».

  1. Esilio e viandanza
    La conoscenza e compenetrazione della città fu mediata, come dimostra Roma, peligro para caminantes, grazie anche alla poesia, che diede modo al poeta di riflettere sulla sua condizione di esule. Utili, a tal riguardo, sono le riflessioni di Maria Zambrano sull’esilio e le definizioni di flâneur proposte da Giampaolo Nuvolati.
    María Zambrano (1904-1991), originaria come Alberti dell’Andalusia, fu segnata dall’esperienza dell’esilio che l’aveva vista, tra l’altro, vivere a Roma dal 1953 al 1964. Zambrano afferma che «poche situazioni si danno, come quella dell’esilio, nelle quali si presentino, come in un rito d’iniziazione, i segni della condizione umana». In questa condizione «l’esiliato finisce per avere solo un orizzonte senza realtà, l’illimitato deserto, un oceano senza nessuna isola in vista, senza reale orientamento, punto d’arrivo o meta da raggiungere».
    L’esilio genera inoltre una lacerazione interiore che porta a una continua ricerca di identità e vede l’esiliato procedere «errabondo come un cieco senza orientamento, un cieco che è rimasto senza vista per non avere dove andare».
    La viandanza in Roma, peligro para caminantes può essere spiegata come tentativo di superare quel senso di vuoto, in quanto terapia, antidoto alla condizione dell’esiliato. Il procedere errabondo come un cieco è immagine ricorrente nella raccolta:
    ¿Andar amantes ciegos, olvidados
    de la hora mortal que los circunda,
    soñar que el sueño puede ser el sueño
    sin sobresaltos de una vida nueva?
    Vagare ciechi amanti, ormai dimentichi | di quell’ora mortale
    che li accerchia, | sognar che il sogno può essere sogno | di un’altra
    vita senza soprassalti?.
    La condizione dell’esiliato si rispecchia, amplificandosi, in quella del flâneur, nel concetto di “viandanza” che si vuole qui proporre, che assume, nella definizione che ne dà Nuvolati, un carattere di catarsi e purificazione: “il flâneur è un intellettuale che opera prevalentemente entrando in contatto, anche fisico, con luoghi di cui si propone una ricontestualizzazione e una risignificazione. Questo traguardo viene raggiunto prevalentemente attraverso un dislocamento, ovvero un percorso di smarrimento, perlustrazione e ritrovamento. Il perdersi in un ambiente sconosciuto o nella moltitudine come purificazione, come scioglimento dai vincoli abituali, come esperienza catartica non può durare all’infinito, ma deve trovare compimento nella creazione artistica, in un gesto finale che segna la salvezza del flâneur e corrisponde al suo desiderio di dominare la realtà piuttosto che rimanerne succube”.
    Il vagare senza meta si fa strumento di conoscenza alternativa del proprio contesto socioculturale. Un procedimento che, secondo Nuvolati, si basa su una rivalutazione della sensibilità come forma di indagine della realtà: «camminare in città è un atto di solitudine e di libertà che rifiuta la velocità e i percorsi imposti dal ritmo urbano massificato, è la scelta di tempi e pause personali che, al contempo, tende ad un’apertura verso gli altri».
    In Roma, peligro para caminantes, avventurandosi per le vie e i vicoli più misteriosi, Alberti rifiuta consapevolmente «i vincoli territoriali e culturali predeterminati», esprimendo allo stesso tempo, seppure con ironia, paura e terrore per i ritmi frenetici della città. La “viandanza”, sembra dirci Alberti, permette di procedere al passo dei pensieri e ritrovare il tempo che corre dentro di noi.
  2. Roma, pericolo per i viandanti
    Alberti dedica a Bodini, morto due anni prima della pubblicazione, la versione italiana di Roma, peligro para caminantes:
    No, non sei morto, odo,
    odo ancora il tuo riso,
    il passo ti si rompe nella strada
    notturna,
    ecco il tuo braccio,
    il tuo affetto che arde,
    poeta che con me, nella mia lingua,
    ripetevi le cose
    dell’animo, mio tragico
    fratello, così presto
    finito e non dovevi,
    adesso che toccavi,
    che si udiva
    al suo colmo la tua voce tracciare
    trafiggendo l’oscuro
    il durevole segno luminoso…
    Questi versi, tradotti da Francesco Tentori Montalto, fanno parte della prefazione del libro curata dallo stesso Alberti e tradotta da Oreste Macrì, conterraneo e amico di Bodini, che ha anche riveduto la versione finale del libro.
    Roma, pericolo per i viandati ha come centro d’irradiazione poetica Via Garibaldi, la via dove, al numero 88, si trasferì Alberti nel 1965. Via che Delogu così descrive: «ampia e un po’ in salita, popolare, allegra e al tempo stesso non priva di quella drammaticità che è propria dei luoghi che hanno vita e storia propria, nonostante siano inseriti in un più ampio e illustre spazio vitale». L’importanza di Via Garibaldi viene sottolineata dallo stesso Alberti che, riportando un appunto di Bodini, probabilmente riservato alla prefazione, scrive: “così questo libro […] non è come quelli di tanti poeti e scrittori stranieri che espressero la loro ammirazione per la bellezza classica di Roma, il suo superbo profilo di grande matrona dell’universo, i suoi musei, i suoi grandi pini parasole contro il cielo dei colli, [è invece] la via Garibaldi, nel cuore di Trastevere, veri punti strategici, da cui va sorprendendo, in sortite diurne e notturne, le prove demistificatorie di un’umanità, formicolante e nervosa, vie sporche, muri corrosi, sordidi indizi e campionari di esistenza in lotta per la pura sopravvivenza. La Roma insomma antiufficiale e antimonumentale, più antigoethiana che si possa immaginare”.
    Queste «sortite», di incontri reali e immaginari, fungono da filo rosso nelle cinque parti del libro: 1) il poema Monserrato, 20; 2) i dieci sonetti dedicati a Giuseppe Gioachino Belli; 3) una sezione di Poesie sparse, scene e canzoni; 4) altri cinque sonetti; 5) due poesie dedicate ad amici artisti conosciuti da Alberti a Roma.
    Nel poema Monserrato, che prende il titolo dall’indirizzo della prima casa degli Alberti, il poeta si scopre immerso in uno scenario di bassorilievi di numi del mare, atleti incoronati, danzatrici, Leda che abbraccia il cigno.
    Catturato dai tanti aspetti dello scenario mitologico, il poeta si chiede se stia vivendo in un sogno. Roma, città agognata, viene personificata in donna amata che conquista il poeta. Secondo Maira Negroni, l’espressione che Alberti utilizza: «jubiloso de sentirme a salvo | renacido a la vida a cada instante», che Bodini traduce: «giubilante di vedermi in salvo, | rinascendo alla vita ad ogni istante», assume un senso più profondo, «di rinnovamento vitale» che il soggiorno romano indusse nel poeta.
    Procedendo nelle sue passeggiate, il poeta precisa che è in cerca della Roma popolare, non venendo meno alla sua vocazione di poeta della gente.
    La Roma popolare di Alberti si presenta «piccola non grandiosa, […] con i ragazzini per le strade, le bottegucce degli artigiani, le scritte sui muri […]. Gente che grida fino al delirio, esplode in risse, con una libertà piena che si manifesta anche nel modo di vestire».
    Ma della Roma degli anni del miracolo economico, la realtà di ogni giorno, per quanto descritta dettagliatamente in sonetti “elenco”, liste dense di aggettivi, tradotti con altrettanti giochi linguistici da Bodini, è filtrata attraverso tutta una tradizione letteraria che trova i suoi referenti principali nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli e nel romanzo del 1528 di Francisco Delicado El retrato de la Loçana Andaluza (Il ritratto della donna andalusa).
    «Dilatandosi» e «assottigliandosi» «per vie e piazze», tra gatti, immondizie e panni stesi, Alberti immagina di incontrare l’amico Belli a cui affidare i propri sonetti. Al Belli viene dedicata la seconda parte del libro, composta da dieci sonetti, ognuno dei quali preceduto da uno o due versi del poeta romano, di cui vengono riportati dei versi anche all’interno di alcune poesie, inclusa Monserrato.
    I versi che fanno da epigrafe preannunciano il contenuto stesso di ogni sonetto, a partire dal primo che può essere considerato come epigrafe a tutta la raccolta: «Ah! chi nun vede sta parte de monno | nun za nnemmanco pe cche ccosa è nnato».
    Nella sua vita errabonda, Delicado aveva vissuto per alcuni anni a Roma, proprio in via Monserrato, dove Alberti immagina di incontrare la protagonista del libro, e del quale libro Alberti aveva scritto un adattamento teatrale nel 1964. El retrato de la Loçana Andaluza, considerato uno dei primi romanzi picareschi, offre un ritratto della Roma del XVI secolo, con la quale Alberti stabilisce delle analogie in tutta la raccolta e in particolar modo nel poema scenico La puttana andalusa (il titolo originale è in italiano), in cui la loçana, con tutta la sua sensualità, prende le sembianze delle donne che il poeta incontra al mercato o nelle sue passeggiate.
    La raccolta è dettata fondamentalmente dalla vicenda esistenziale del poeta. I dialoghi hanno luogo con personaggi del passato, che non parlano, come nel caso della loçana, o citano versi, come nell’incontro con il Belli. La gente, il popolo, descritto nella sua esuberante umanità, rimane sullo sfondo, parte, sia pure importante, del contesto.
    Ciò che emerge è lo smarrimento del poeta in una città piena di insidie, che mette a repentaglio la vita dei viandanti.
    Roma si fa metafora della condizione dell’esiliato, personificazione delle paure e preoccupazioni del poeta.
    Riprendendo il riferimento di Bodini a Goethe, si può affermare che la Roma di Alberti non è lontana dalla Roma di Goethe: la città vista attraverso gli occhi del mito. Per quanto Goethe fosse interessato alla Roma monumentale, non mancano nel suo Viaggio in Italia riferimenti alla Roma moderna. Anche egli, viandante instancabile – «non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografia della Roma antica e della moderna» -, della città aveva colto le tante contraddizioni, la grandezza quanto lo squallore: «si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione».
    Maira Negroni afferma che, nel periodo precedente l’esilio in Italia, la poesia di Alberti si è caratterizzata in termini di recupero della memoria e nostalgia per l’Andalusia, mentre, con l’arrivo in Italia, passa a contestualizzarsi nel presente, nella scoperta della terra degli avi (entrambi i nonni di Alberti erano di origine italiana). Negroni aggiunge, inoltre, che nelle ultime raccolte scritte in Argentina si possono scorgere nuove direzioni. Si attenua la nota nostalgica, mentre diventano dominanti i temi della vecchiaia e della morte, temi che troviamo in Roma, pericolo per i viandanti in un «rapporto autoironico, improntato a un grande vitalismo». Ricompaiono poemi burleschi, come nell’anteguerra, uno spirito irriverente, unito a una nota di serenità rinata «grazie alla vicinanza di amici fedeli e alla fiducia in se stesso».
    Il tema dell’esilio, tuttavia, ritorna frequentemente nella raccolta fino a farsi doppio, in quanto, alla nostalgia per la Spagna, si aggiunge la tristezza di Alberti per aver lasciato l’Argentina: “Sei in Roma sì. Ma pensi quasi ogni giorno di non esserci. Ed ora, per esempio che qui è l’autunno, mentre che lì è arrivata primavera, tu credi d’esser lì”.
    La drammaticità di questi versi risiede nella consapevolezza di aver abbandonato non solo un luogo, ma anche l’identità legata a quel luogo, di doversi trovare nuovamente a ridefinire se stessi in un altro luogo.
    Troviamo riferimenti all’Andalusia a partire dal primo dei Dieci sonetti dedicati al Belli, Lo que dejé por ti (‘Ciò che ho lasciato per te’):
    Lo que dejé por ti
    Dejé por ti mis bosques, mi perdida
    arboleda, mis perros desvelados,
    mis capitales años desterrados
    hasta casi el invierno de la vida.
    Dejé un temblor, dejé una sacudida,
    un resplandor de fuegos no apagados,
    dejé mi sombra en los desesperados
    ojos sengrantes de la despedido.
    Dejé palomas tristes junto a un río,
    caballos sobre el sol de las arenas,
    dejé de oler la mar, dejé de verte.
    Dejé por ti todo lo que era mío.
    Dame tú, Roma, a cambio de mis penas,
    tanto como dejé para tenerte.
    Ciò che ho lasciato per te
    Lasciai per te i miei boschi, la tradita | fila d’alberi, i cani vigilanti,
    | e gli anni dell’esilio più importanti | fino a quasi l’inverno della
    vita. || Lasciai un sussulto, lasciai un tremolio, | un fulgore di fuochi
    non smorzati, | e l’ombra mia lasciai nei disperati | occhi che
    sanguinavano all’addio. || Lasciai colombe tristi accanto al rio, |
    cavalli sotto il sole delle arene, | senza odore del mar, senza veder-
    ti. || Lasciai per te tutto ciò che era mio. | Dammi tu, Roma, in
    cambio delle pene | tutto ciò che ho lasciato per averti.
    Poesia che secondo Negroni guarda all’esperienza in Argentina, anche se il richiamo all’Andalusia è evidente a partire dalla prima strofa, quel «mi perdida arboleda», «la fila d’alberi» cara alla memoria del poeta e che diventerà il titolo della biografia di Alberti, La Arboleda Perdida: “en la ciudad gaditana del Puerto de Santa María, a la derecha de un camino, bordeado de chumberas, que caminaba hasta salir al mar, llevando a cuestas el nombre de un viejo matador de toros – Mazzantini -, había un melancólico lugar de retamas blancas y amarillas llamado la Arboleda Perdida”.
    In Lo que dejé por ti, immagini della vita in Spagna e in Argentina si fondono in un unico dolore e nel bisogno, che mai si acquieta, di trovare un senso, un luogo di appartenenza.
    Il poeta auspica possa essere Roma la sua nuova casa e cerca la Spagna nell’antico quartiere spagnolo, in Via Monserrato, dove aveva vissuto Francisco Delicado, e nella casa che era stata abitata da Ignazio di Loyola.
    Mentre la casa di Via Garibaldi diventò punto d’incontro, come rileva Delogu, per spagnoli e latinoamericani, ricordando momenti dell’esperienza romana di Alberti in cui la lontananza dalla Spagna si era fatta insostenibile.
    Lo que dejé por ti contiene alcuni degli elementi stilistici che più caratterizzano la raccolta: 1) il ricorso all’anafora – il «dejé» («lasciai»), che a ogni inizio di strofa si carica di pathos fino alla climax dei versi finali, in cui la pena dell’esilio si fa supplica; 2) sequenze di immagini “pittoriche”, fortemente evocative e spesso disgiunte; 3) la personificazione di Roma come donna amata, ma anche, seguendo il richiamo delle origini italiane, madre che sappia accogliere e amare il poeta. Elementi, questi, che ritroviamo nell’opera poetica di Bodini e che testimoniano quanto l’opera di traduttore di Alberti, come anche di altri poeti della generazione del ’27, sia stata ricca di ispirazione per la sua poesia. Sulle orme di Lorca e Alberti, Bodini ha fatto del Salento la sua Andalusia. La traduzione di versi come: «Lasciai un sussulto, lasciai un tremolio, | un fulgore di fuochi non smorzati, | e l’ombra mia lasciai nei disperati | occhi che sanguinavano all’addio», ricorda versi di Bodini altrettanto “pittorici” ed evocativi: «Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud | un tramonto da bestia macellata. | L’aria è piena di sangue, | e gli ulivi, e le foglie del tabacco, | e ancora non s’accende un lume». Come in Alberti, anche in Bodini riscontriamo una predilezione per l’anafora; come ad esempio in questa poesia, dedicata ad Alberti, che rivela profonde affinità tra i due poeti:
    Le mani del Sud – a Rafael Alberti
    Hai fatto bene a non parlarmi del Sud del
    Sud e delle brulle capre saltellanti
    di scoglio in scoglio.
    O le pallide mani delle capre del Sud
    Hai fatto bene a non parlarmi del Sud del
    Sud e delle sue capre per metà divorate
    dallo Stato
    O le candide unghie delle capre del Sud
    Hai fatto bene dice a non parlarmi del
    Sud del Sud e dei suoi orizzonti un tempo aperti
    da ogni lato
    O le pallide unghie con cui ciascuno si dilania nel Sud
    Hai fatto bene dice a non parlarmi del Sud del
    Sud e dei suoi braccianti uccisi dalla
    Polizia
    O le pallide mani un po’ grassocce dei Tribunali
    del Sud gli olivi del cuore umano l’accusare
    e accusarsi senza pietà Il grande Sud delle
    questioni di principio
    Hai fatto bene a non parlarmi del Sud.
    Anche Bodini, sia pure in un’accezione differente, non perché costretto a lasciare la sua Terra, è stato poeta dell’esilio.
    Si è sempre sentito, come ricorda Alberti, orfano del Salento, «terra amara», «lontano sud della sua poesia».
    Ciò permette a Bodini di leggere lo sguardo del poeta amico, rivolto al passato ma anche, come vedremo, e con crescente preoccupazione, al futuro.
    Maria Zambrano, che riconobbe grandi meriti alla poesia di Alberti, ma ne limitò l’impeto agli anni precedenti l’esilio, afferma che una volta in Argentina la poesia di Alberti «si calma e acquieta, si fa memoria». Non riscontra, in definitiva, quelle tensioni che invece riteniamo di poter trovare in Roma, peligro para caminantes, in cui il girovagare senza meta rappresenta il tentativo di colmare quel vuoto, quel senso di smarrimento, che la stessa Zambrano, del resto, vede come conseguenza dell’esilio. Il «contestualizzarsi nel presente», a cui si riferisce Negroni, va visto soprattutto come bisogno di perdersi nella realtà quotidiana.
    […]
    Il “viaggio”, cominciato nella luce piena del giorno in Monserrato, assume via via toni più scuri. Il poeta, nell’alternanza del giorno e della notte, pone domande a cui trova puntualmente delle risposte. La più certa è che Roma non ascolterà le sue “suppliche”. Fin dall’inizio, in cui Alberti parla del suo terrore per il traffico, Roma si presenta come città “pericolosa”:
    “cerca di non guardare i suoi monumenti,
    viandante, se verso Roma t’incammini,
    apri cento occhi, le pupille affina,
    schiavo soltanto dei suoi pavimenti”.
    Il “pericolo”, tuttavia, assume durante il percorso significati sempre più ampi. Roma, «alma garage immenso», prende i contorni di una rappresentazione infernale, di gironi dove pullula una vita sovrastata da rumori assordanti, dal lezzo di immondizie ed escrementi. Una città che si fa sempre più lugubre, fino ad assumere le sembianze della morte.
    Nel passaggio dal giorno alla notte, come vediamo negli otto componimenti che hanno per titolo Notturno, i motivi della solitudine e dell’ineluttabilità della vita assumono una dimensione metafisica. A parte tre, contenuti nella sezione dei cinque sonetti, gli altri cinque notturni sono più liberi nella forma e cadenzati dal punto di vista metrico, con richiami, anche qui, a giochi e nenie infantili.
    […]
  3. Il traduttore “visibile”
    La collaborazione tra Bodini e Alberti per Roma, peligro para caminantes rappresenta un caso raro nel campo della traduzione letteraria. Ci troviamo di fronte a un traduttore|poeta che dell’autore tradotto ne è stato anche studioso e, nel caso specifico, si è trovato a seguire le diverse fasi della scrittura ed essere testimone egli stesso, in quanto compagno di viandanza, del contesto e dello spirito in cui il libro è maturato. Il merito maggiore di Bodini è stato di aver letto in Alberti lo “sguardo” di chi si sente “di passaggio” e ha come coordinate principali il ricordo della propria Terra. Tutto questo grazie a quelle qualità che Lawrence Venuti attribuisce al traduttore “visibile”. In risposta a una tradizione che privilegia la scorrevolezza nella lingua di arrivo, con il conseguente appiattimento dei riferimenti culturali del testo fonte – tradizione definita come ‘addomesticante’ (domestication) -, Venuti invoca un approccio
    ‘straniante’ (foreignization), che richiede al lettore un rapporto più attivo con il testo tradotto.
    Al traduttore spetta, in sostanza, il compito di preservare i contenuti e lo stile del testo fonte, invitando il lettore ad andare verso l’autore attraverso una serie di strategie, come ad esempio calchi e prestiti, che segnalino il più possibile il carattere del testo di partenza.
    La voce di Alberti è viva e tangibile grazie alla capacità di Bodini di rendere l’io poetante in quanto “spagnolo” e, seguendo le intenzioni del testo, di osservare Roma come “dall’esterno”, con lo sguardo di chi arriva subendone il fascino. Diventa così credibile la nostalgia di Alberti, la meraviglia di fronte a una città che si rivela con tutta la sua bellezza e il suo abbandono, i misteri e gli intralci quotidiani, in un linguaggio misto di referenti colti e popolari.
    Un espediente cui Bodini ricorre è l’utilizzo nella traduzione di termini spagnoli.
    A volte per esigenze proprie del testo fonte, come ad esempio la contrapposizione «Campo de’ Fiori| Campo de las Flores» resa come «Campo de las Flores| Campo de’ Fiori», altre volte lasciando termini dell’originale, come in Arte sacra romana, in cui non si cerca una equivalenza per «banderillero», «banderilleras» e «muleta», nonostante l’utilizzo di «banderilleras» non gli permetta di ricorrere alla rima (nell’originale abbiamo «maravillas», che viene tradotto semplicemente con «meraviglie»).
    Come avviene nell’esperienza dell’esiliato, anche per il traduttore è necessario sviluppare una molteplicità di visioni, una pluralità di percezioni. In Roma, peligro para caminantes, le ansie e le preoccupazioni dell’io poetante, i personaggi reali o immaginari, per quanto parte di un percorso poetico lineare, sono tuttavia disseminati nel libro e perennemente assorbiti in un flusso di umanità. L’apporto dato dalla traduzione è nella capacità di rivelare l’“altro”.
    La ricerca continua di un “centro”, andando per vie e vicoli in una città che si fa sempre più labirintica, è il dramma lacerante di Alberti, che Bodini ha saputo cogliere “riscrivendo” un dettato che sa essere immediato e delicato, parlare della propria condizione rivolgendosi sommessamente all’umanità.
    Abele Longo, Roma, viandanza dell’esilio. Rafael Alberti tradotto da Vittorio Bodini (2014). In: «GIÀ TROPPE VOLTE ESULI» LETTERATURA DI FRONTIERA E DI ESILIO. Di Nunzio, Novella and Ragni, Francesco, eds. Morlacchi – Università degli Studi di Perugia, Perugia, Italy, pp. 105-120. ISBN 9788890642166 – Middlesex University Research Repository http://eprints.mdx.ac.uk

[…] In seguito a uno degli episodi più sanguinosi della storia spagnola, la guerra civile (1936-1939) e all’avvento della prima e seconda Repubblica che il poeta gaditano sostenne attivamente, la poesia per Alberti divenne un modo di cambiare il mondo, un’arma necessaria per il combattimento. Alla fine della guerra, come tanti spagnoli legati a una destinazione incerta, Rafael Alberti e sua moglie, la poetessa María Teresa León, lasciarono la loro terra natale partendo per un esilio che li vide protagonisti dapprima a Parigi, poi al di là dell’Oceano Atlantico, prima in Cile, accompagnati dal loro amico Pablo Neruda, e di seguito in Argentina, a Buenos Aires, dove rimasero fino al 1962, anno in cui la situazione politica in Argentina precipitò a causa di un colpo di Stato che oltre a portare instabilità politica nel Paese non favorì la permanenza di persone coinvolte con il comunismo come il poeta e sua moglie.
Nel 1963 i coniugi Alberti si trasferirono a Roma, avvicinandosi, in questo modo, alla Spagna, tracciando un percorso immaginario verso il ritorno “a casa”. Alberti decise di trasferirsi in Italia, non solo per la vicinanza alla sua terra natia e al mare tanto sospirato e amato, ma anche per la simpatia dei suoi abitanti e per l’origine dei suoi due cognomi “Alberti Merello” (i suoi nonni erano italiani, probabilmente toscani).
Lo stesso Alberti, riferendosi a quella circostanza, in un discorso di apertura di un congresso presso la storica Universidad de Alcalá de Henares, disse: “Il 28 maggio 1963, dopo quasi 24 anni di esilio nella Repubblica Argentina, stavo entrando attraverso l’immensa Porta del Paradiso, nella città di Roma. All’epoca avevo 61 anni. E alcune ansie e desideri angoscianti di immergermi, di perdermi, di restringermi fino a scomparire in quel complicato e pericoloso labirinto di piazzette e vicoli del quartiere che scelsi come alloggio, il romanesco Trastevere, allegra capitale, dentro Roma, dei gatti, dei ratti, dei rumori rapidi, delle urla nei bar nei pomeriggi di calcio e, tra le altre cose attraenti e insospettate, delle catene montuose di non profumate pile di immondizia, ammucchiate agli angoli delle strade. Entrai a Roma attraverso la porta del cielo, come fece, circa quattro secoli prima di me, nel 1559 all’età di 22 anni, Miguel de Cervantes attraverso la Porta del Popolo, baciando una e mille volte le soglie e i margini dell’ingresso, salutando la città con le lacrime agli occhi” <1.
[…]
La silloge poetica “Roma, peligro para caminantes” (“Roma, pericolo per i viandanti”, così tradotta da Vittorio Bodini, uno dei traduttori italiani ufficiali di Alberti) venne pubblicata per la prima volta nel 1968 in Messico; nel 1976 venne pubblicata in versione ampliata, e nel 1977 venne effettuata la sua ultima ristampa. Il titolo, molto curioso, lo si deve al fatto che il poeta diceva di “correre un serio pericolo” ogniqualvolta si trovava ad attraversare i vicoli di Roma. Il “pericolo”, come possiamo supporre, altro non era che una metafora della quotidianità in cui il poeta era immerso, una vita completamente diversa da quella di tanti artisti che avevano deciso, in varie epoche, di installarsi nella capitale italiana. La sua non era la Roma di Goethe o di Stendhal, bensí era una Roma bohémien e proletaria, di mercatini e di graffiti sui muri. La Roma di Alberti era quella in cui il suono delle fontane si mescolava alle grida esilaranti degli abitanti, quella Roma sparita degli acquarelli di Ettore Roesler Franz, le cui pennellate vigorose e pungenti del poeta riuscivano a graffiare con forza la genuinità del paesaggio descritto dai suoi versi vivaci e incisivi, regalando al lettore quelle emozioni contrastanti necessarie a comprendere la complessità della sua anima indomita e anticonformista, amplificata dalla città eterna.
Di quest’opera dedicata a Trastevere, Alberti disse: “Posso confessare che nel mio amato quartiere dovetti diventare un torero, allenandomi ad assottigliarmi, a dimagrire contro i muri, a uscire in piedi, a correre veloce come se fossi davanti a un toro, mentre vedevo arrivare quelle esalazioni interplanetarie, cieche e senza preavviso, attraverso strade così strette e vicoli così tortuosi. Per questo, a poco più di un anno di coraggiosa vita romana, è nato un libro, intitolato con precisione astronomica: “Roma, pericolo per i viandanti” (titolo preso dal libro tradotto da Vittorio Bodini <2). Ora spero che un giorno, in qualche festa o anniversario, il comune della Città Eterna incida, in un vicolo non lontano dalla mia via Garibaldi, una targa che dice: «Vicolo di Rafael Alberti (prima del Cinque, del Cedro, ecc.)», visto che mi sono stabilito qui, sono diventato un vicino di casa di questo quartiere per cantarlo umilmente e simpaticamente, allontanandomi dalla Roma monumentale, amando solo quella non ufficiale, la più “antigoethiana” che si possa immaginare: la Roma trasteverina degli artigiani, delle pareti rotte, dipinte di iscrizioni politiche o d’amore, la Roma segreta, statica, notturna e, repentinamente, muta e solitaria <3”.
L’esilio produsse una lesione interiore talmente forte da portare il poeta verso una constante ricerca della sua identità, portandolo a vagare come un cieco senza meta (immagine ricorrente nel libro di Alberti), intensificando quel senso di vuoto a cui vuole sopperire camminando per le strade di Roma e osservando quel che lo circonda per entrare in contatto, quasi fisico, con quei luoghi che lo avrebbero aiutato a ritrovarsi attraverso la creazione artistica.
Vagare per la città senza meta, ma con il solo scopo di conoscere il contesto socio-culturale in cui era immerso, era fondamentale per Alberti, perché oltre a essere un atto di solitudine volto alla riflessione intima su una realtà tutta da interiorizzare, era soprattutto un atto di libertà che lo allontanava dalla frenesia di un luogo che gli incuteva paura, rispetto, ma anche ironia e tanta voglia di vivere <4.
Le poesie che compongono questa silloge <5, come avviene nelle liriche incluse in altri libri della vasta produzione di Rafael Alberti, hanno una spiccata connotazione neo-barocca <6. La silloge “Roma, peligros para caminantes” è divisa in quattro sezioni: “X sonetti”, “Versi sciolti, scene e canzoni”, “X sonetti” e “Poemas con nombres”.
L’introduzione è affidata a una poesia intitolata “Monserrato 20”, l’indirizzo della prima casa del poeta nello straordinario quartiere Trastevere. Analizzando questa poesia possiamo vedere che il poeta scende dalle scale che separano la sua casa dalla città di Roma per entrare non solo nelle strade della città eterna e curiosare, ma con la volontà di instaurare un vero e proprio dialogo con lei. Si può dire che il poeta, nel suo immaginario, sentiva Roma come un essere vivo (poteva essere un gatto, considerando che le strade della città eterna, da sempre, sono abitate da tanti piccoli felini randagi e la stessa copertina dell’edizione del libro alla quale si fa riferimento in questo scritto, copertina di Alberto Corazón, raffigura un gatto) al quale parlare, con il quale ridere e arrabbiarsi, con il quale diventare amico e confidente, raccogliendo le sue indiscrezioni, interiorizzandole ed esternandole in versi, spesso beffardi e irriverenti. Essendo Roma rappresentata come una persona (o un gatto), Alberti le da la stessa capacità di ascolto che hanno le persone e per questo le parla o, addirittura, interagisce con lei. Dalla lettura delle poesie contenute in questa silloge si può notare come Alberti e Roma siano esseri dotati di una forte alchimia, le cui azioni costituiscono il detonante per intraprendere quel percorso che sfocerà nelle composizioni in versi <7.
Attraverso le caratteristiche elencazioni di oggetti eterogenei, tipiche del neo-barocco, il poeta si avvia a districare delle matasse con l’uso della parola scritta e lo fa come se dovesse riavvivare le setole secche di pennelli, intingendole nell’acqua per poi strofinarle di nuovo su quei colori da lui descritti prima di dare le sue pennellate caratteristiche, quasi a suggellare l’intima connessione della poesia con l’arte pittorica <8. “La pittura è una poesia silenziosa e la poesia è un dipinto che parla”, ci disse il poeta greco Simonide di Ceos <9: l’arte di Rafael Alberti ne incarna pienamente il significato.
In “Roma, pericolo per i viandanti”, il poeta andaluso usa le parole quasi fossero delle pennellate, fluide, arricchite da violenti contrasti, come se delle rette parallele si alternassero a rette incidenti, come se dietro alle curve sfociasse sempre una nuova Roma, insolita e originale, dal carattere conciliante e superficiale, ma nel contempo pungente e aggressivo, come se quei colori e quelle luci producessero i suoni delle parole facendo sgorgare dalle stesse quelle tonalità cromatiche indispensabili alla descrizione dell’effervescente e animata atmosfera di un quartiere popolare come Trastevere […]
[NOTE]
1 “El día 28 de mayo de 1963, después de casi 24 años de exilio en la República Argentina, hacía mi entrada a través de la inmensa Puerta del Cielo, en la ciudad de Roma. Yo tenía entonces 61 años. Y unas ansias, unos deseos angustiosos de sumergirme, de perderme, de estrecharme, hasta desaparecer en aquel complicado y peligroso laberinto de plazuelas y callejones del barrio que elegí como vivienda, el romanesco Trastevere alegre capital, dentro de Roma, de los gatos, las ratas, los veloces ruidos, el griterío de los bares en las tardes de futbol y, entre muchas otras cosas atrayentes e insospechadas, las cordilleras de los no muy perfumados montones de basuras, hacinados en las esquinas. Yo entré en Roma por la puerta del cielo, como cuatro siglos antes, en 1559, a la edad de 22 años, entró Miguel de Cervantes por la Puerta del popolo, besando primero una y muchas veces, los umbrales y márgenes de la entrada, saludando a la ciudad con lágrimas en los ojos (“Rafael Alberti [1902-1999]”).” Traduzione italiana a cura di Elisabetta Bagli. II Congreso Internacional de Literatura y Cultura Españolas Contemporáneas “Roma, peligro para caminantes. La representación de una ciudad en estratos” – Ester Hernández Palacios Mirón Universidad Veracruzana, pagina 1.
2 Vittorio Bodini, poeta e traduttore ufficiale, nonché amico di Rafael Alberti.
3 “Puedo confesar que en mi amado barrio tuve que volverme torero, adiestrándome en ceñirme, en adelgazarme contra los muros, en salir por pies, corriendo veloz como ante un toro, al ver llegar aquellas exhalaciones interplanetarias, ciegas y sin aviso, por tan estrechas calles y retorcidos callejones. De ahí nació, a poco más de un año de vida romanesca valerosa, un libro, titulado con astronómica exactitud: Roma, peligro para caminantes. Ahora espero que algún día, en alguna fecha de aniversario, el commune de la Ciudad Eterna estampe en algún vicolo, no lejano de mi Vía Garibaldi, una placa que diga: «Vicolo di Rafael Alberti (antes del Cinque, del Cedro, etcétera)», porque yo me instalé aquí, me convertí en vecino de este barrio para cantarlo humildemente, graciosamente, rehuyendo la Roma monumental, amando sólo la antioficial, la más antigoethiana que pueda imaginarse: la Roma trasteverina de los artesanos, los muros rotos, pintarrajeados de inscripciones políticas o amorosas, la secreta, estática, nocturna y, de improviso, muda y solitaria.” Traduzione italiana a cura di Elisabetta Bagli. El País- TRIBUNA: “LA ARBOLEDA PERDIDA” – De Buenos Aires al Trastevere 11 de noviembre de 1984, autor Rafael Alberti.
4 Pag 107
5 In questo breve saggio si fa riferimento a “Roma, peligro para caminantes”, Rafael Alberti, Ed. Seix Barral, ed. 1968, prima edizione nella Biblioteca Breve de Bolsillo: aprile 1976. 1ª ristampa: maggio 1977.
6 “Il Neobarocco – scrive il professor Omar Calabrese, famoso semiologo e critico d’arte italiano, riconosciuto internazionalmente- non è un movimento artistico o una tendenza, ma è lo spirito stesso dell’epoca che viviamo, è un fenomeno culturale, un atteggiamento, uno spirito al quale, com’è ovvio, non solo la letteratura, i mass-media, il cinema, ma anche le arti visive si adeguano, anzi ne occupano un ruolo particolarmente significativo”. Calabrese individua i principi del Neobarocco nel Ritmo e nella Ripetizione – si pensi all’estetica della ripetizione, appunto, fondata sugli elementi della variazione organizzata, dell’irregolarità regolata, del ritmo velocissimo – o nell’Eccesso – quella tensione, questa volta centrifuga, al limite: quella messa in discussione di una qualche regola che tende a destabilizzare il sistema -, nel Pressappoco e Non so che – il fascino dell’approssimazione, quanto nelle scienze tanto nelle filosofie -, nel Nodo e Labirinto, nella Distorsione e Perversione, nella cura del Dettaglio e del Frammento. Per Calabrese non vi sarà più il caos come viene spiegato nella mitologia greca antica quale origine dell’Universo, ma un totale cambiamento di gusto per cui i fenomeni caotici vengono considerati esteticamente belli.
7 Vid. II Congreso Internacional de Literatura y Cultura Españolas Contemporáneas “Roma, peligro para caminantes. La representación de una ciudad en estratos” – Ester Hernández Palacios Mirón Universidad Veracruzana, pagina 2.
8 “Rafael Alberti y la poesía tradicional” – Armando López Castro- Universidad de León pag. 107.
9 Simonide di Ceos è stato il primo a stabilire il confronto tra pittura e poesia all’incirca nell’anno 470 prima della nostra era. Questo è ciò che abbiamo appreso da Plutarco quando ci dice che il poeta ha stabilito un simile confronto perché a suo avviso: “le azioni che i pittori rappresentano mentre accadono, le parole le presentano e le descrivono quando sono già avvenute”. Quindi, mentre il pittore deve presentare il suo modello nel momento in cui realizza un dipinto, basterebbe solo che il poeta sia presente al momento per poi ricostruirlo e renderlo immortale attraverso la sua memoria e la tecnica delle sue parole. Per questo Simonide è anche riconosciuto come uno dei genitori della mnemonica.
Elisabetta Bagli, Rafael Alberti e il pericolo di camminare per Roma, in Pier Paolo Pasolini e la Cultura Spagnola: Rafael Alberti, 20 anni dopo, ©EMUI_ EuroMed University Editions · euromededitions.eu · Roma 2020

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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