Sbucciando la cipolla

Günter Grass – Fonte: Wikipedia

Günter Grass in vita ha ruvidamente scosso l’opinione pubblica – tedesca prima di tutto ma poi mondiale – con due atti assai rumorosi: pubblicando nel 1959 il romanzo intitolato Die Blechtrommel (Il tamburo di latta) e, nel 2006, di nuovo pubblicando un libro, – gli scrittori possono solo pubblicare libri, non altro, – un volume autobiografico intitolato Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando la cipolla).
In questo secondo atto la metafora della cipolla rimandava a Ibsen, alla differenza fra ‘essere sé stesso’ e ‘chiudersi in sé stesso’, che costituisce l’alternativa drammatica dell’intero Peer Gynt, il testo di Ibsen dove il protagonista, che ha scelto lungo la propria esistenza di seguire il precetto «energico ed incisivo» degli spiriti cattivi, i troll, di pensare solo a sé – e dunque è divenuto un uomo vuoto, un io desiderio, bisogno, passione, che vive una vita solo sua, la cui legge è stare alla larga dai problemi, dai pensieri, da tutto ciò che non sia: io basto a me stesso, – Peer Gynt, che ora si trova ad essere un sé composto soltanto di pensieri respinti, di parole non dette, di canzoni non cantate, di lacrime non versate, di azioni non compiute, che si vede uomo senza fede, dal cuore inerte come una stanza disabitata, e sa che sulla propria tomba andrà scritto «qui non giace nessuno», Peer Gynt nella solitudine di un bosco assai folto va monologando attorno a una cipolla e la sbuccia, e toglie da quel bulbo, una pellicola, poi un’altra, poi un’altra fino alla fine, quando scopre che non si arriva a niente, la cipolla è quelle pellicole sempre più inconsistenti. Ma allora dove sarà mai stato il sé stesso di quest’uomo ‘nella sua verita’? Stava fuori di lui, nelle tre virtù divine della madre: la fede, la speranza, l’amore possedute da ogni donna che partorisce un figlio riversando sopra di lui le sue aspettative. In questo secondo caso il rumore, senz’altro, era voluto. Infatti l’uscita del libro veniva scortata, nel campo dell’informazione, da una intervista alla FAZ (l’autorevolissima Frankfurter Allgemeine Zeitung, portavoce e artefice in Germania dell’opinione pubblica mainstream) in cui Grass esclamava, a proposito di sé e della faccenda che sapeva avrebbe portato tempesta: «Doveva venir fuori, finalmente!». Si trattava del fatto che nel 1944, diciassettenne, era entrato volontario nelle SS. Il punto dolente tuttavia non era il fatto in sé, ma aver taciuto, aver nascosto la circostanza fino ad allora […]
In ogni caso con Günter Grass abbiamo davanti una personalità intellettuale in sé assai rilevata: oltre che scrivere dipinge, disegna, incide, scolpisce, avendo tra l’altro a suo tempo, dopo la guerra, negli anni 1948-1952, regolarmente frequentato a Düsseldorf i corsi della locale Accademia di Belle Arti (Kunstakademie Düsseldorf). Frequentazione preceduta – a dire la determinazione del giovanotto – da un apprendistato d’un anno come tagliapietre (titolo necessario, non possedendo il diploma liceale, per essere ammesso all’accademia per apprendere la scultura) e poi accompagnata, a fini di auto sostentamento, anche da lavori svariati, incluso (forse scanzonato marchio generazionale sessantottino ante litteram) il mestiere di buttafuori, in coppia con un amico, il pittore Herbert Zangs, presso un locale della città vecchia.
L’apprendimento artistico verrà da lui proseguito poi, dal 1953 al 1956, sempre nella classe di scultura, presso l’Istituto superiore di Arti Figurative (Hochschule für Bildende Künste) di Berlino. Città dove in aggiunta in quel periodo, oltre a venir ammesso nel Gruppo 47, si sposa.
Quest’ultimo cenno biografico non è affatto gratuito, se si considera quanto la viva presenza di una famiglia, e volutamente numerosa, abbia giocato come mito personale nella sua sentimentalità. In argomento scriverà fra l’altro un romanzo autobiografico Die Box (La fotocamera – di quelle vecchie, a cassetta) con protagonisti tutti i suoi figli, otto, includendovi quelli extramatrimoniali e i due da lui felicemente acquisiti tramite il secondo matrimonio. Ma ciò risulta chiaro anche ai lettori del Tamburo di latta, dove la narrazione prende le mosse per l’appunto da una reinvenzione dell’esperienza familiare e ambientale dell’autore nei suoi primi anni di vita.
A Danzica, la città dove nasce, si parla prevalentemente tedesco, ma in realtà a Günter Grass capita di viverci in un tempo di forte tensione interna fra culture e popolazioni diverse. Diversità che fra l’altro inevitabilmente assumono, dato il periodo di fermento postbellico, presto anche colore politico.
Nella Città Libera di Danzica, dopo la prima guerra mondiale giuridicamente indipendente sia dalla Polonia che dalla Germania, si parlano ufficialmente il tedesco, il polacco e il casciubo (anch’esso parlata slava, dialetto o lingua che sia) e, quanto a culture, intrecciandosi con le varie tradizioni popolari ci si distingue tra protestanti, cattolici ed ebrei, e forse altro ancora. In tale contesto fumoso, imprevedibile, Günter è figlio di un piccolo negoziante, un droghiere, tedesco protestante e di una casciuba cattolica. Famigliola più o meno piccoloborghese (abitano, genitori e due figli, in un appartamento di due stanze e servizi, dove però non è incluso il bagno, che è esterno, come usa), il bambino dapprima segue la madre e diviene persino chierichetto, poi più grandicello segue il padre e si orienta verso il diffuso nazionalismo nazista della maggioranza tedesca. Dirà poi che a quindici anni, nel 1942, aveva voluto arruolarsi soldato per uscire dall’angusta atmosfera familiare.
Di fatto si arruola e, dopo una trafila di situazioni militari varie, dagli ultimi mesi del 1944 partecipa, come sappiamo, direttamente alla guerra in quanto assegnato infine a una divisione corazzata di SS. Viene ferito e ricoverato in ospedale. Al termine della convalescenza, si trova poi prigioniero degli americani, nel maggio 1945. Rimane quindi in un campo di prigionia fino all’aprile 1946, quando viene liberato in Baviera. Dal 1947 si stabilisce dove trova lavoro per entrare in una scuola d’arte, a Düsseldorf, rispetto a Danzica dall’altra parte del mondo.
E dall’altra parte del mondo, tanto più, sarà quando, dopo gli anni di Berlino, nel 1956 si trasferisce con la moglie a Parigi, dove rimane per alcuni anni sopravvivendo da giovane artista: è grafico, incisore, e poeta. Ma anche narratore: a Parigi lavora anche al suo primo romanzo. Negli anni precedenti, a Berlino ha maturato il proprio talento di artista figurativo aggiungendo alla grafica e alla scultura la scenografia teatrale. E ha scritto anche libretti per coreografie (la ragazza che sposa è appunto una danzatrice classica) e testi che definisce di teatro dell’assurdo oppure di teatro poetico, ma prima ancora ha scritto versi e prose.
E sono proprio le sue uscite poetiche ad attrarre su di lui l’attenzione di Hans Werner Richter, che nel 1955 lo invita a una delle letture organizzate dal Gruppo 47, di cui è a capo. Di qui l’esordio letterario di Günter Grass anche a stampa (presso un grosso editore) l’anno successivo con un volume di testi poetici e disegni intitolato Die Vorzüge der Windhühner (I pregi dei gallinacei segnavento), con probabile allusione allegorica al galletto meteorologico Wetterhahn (lett. gallo del tempo, ma in italiano detto galletto segnavento) usato frequentemente nelle campagne prima che si diffondessero le previsioni del tempo ufficiali. Pare che il venduto annuale sia stato allora ‘soltanto’ di 700 copie. Ad ogni modo è alle porte lo strepitoso successo, nel 1959, del Tamburo di latta, la cui pubblicazione ha avuto le medesime premesse critiche: infatti, dopo una apposita lettura, nel 1958 il romanzo si è visto assegnare addirittura il Premio Gruppo 47.
[…]
Tale favolosa allegoria narrativa, immersa in un gioco linguistico fortemente figurato, dai toni liberamente surreali e grotteschi, con cui l’autore intende raccontare, per così dire, l’osservazione veritiera del vissuto tedesco nel secolo attuale, fa immediatamente di Grass uno scrittore di peso non soltanto per il mercato. Tanto che egli sarà indotto, da quel riconoscimento esplicitamente letterario, a proseguire il lavoro sul tema con altri due libri, il racconto lungo Gatto e topo (Katz und Maus, 1961) e il romanzo Anni di cani (Hundejahre, 1963), componendo la cosiddetta Trilogia di Danzica.
Iniziava così oggettivamente la costruzione di un arco trionfale per Günter Grass artista, ma anche un suo rapporto complicato con la cultura tedesca a lui contemporanea. Il senso della sua narrativa, che parlava di una cosa di cui si evitava di parlare, il tempo del nazismo, rimandava palesemente all’atteggiamento cosiddetto dell’impegno, e tuttavia soltanto in subordine era un comportamento che si esplicitava come politico. Il punto d’origine dell’impulso intellettuale, che di questo artista visivo faceva un’inevitabile scrittore, era uno scatto vitale (le sue poesie, chiarirà una volta ricordando, nascevano in gioventù da un impulso spontaneo di dire, mai avrebbe pensato di pubblicarle). Era un agire che partiva dalla percezione di un vuoto di vita, il quale infatti poteva essere riempito soltanto tramite una necessaria Geschichtsaufarbeitung (rielaborazione della storia), tramite un ripensamento ricostruttivo di un rapporto con la realtà storica trascorsa, la quale avrebbe in verità dovuto fungere da base della vita presente, mentre invece, così com’era, nebulosa e ambigua, mancava ogni possibilità di un contatto autentico con essa. Si viveva una vita senza base.
Di questo in Germania e forse in Europa in vario modo erano in molti a sentire il bisogno. Solo che Grass prende il problema di petto, anzi vi applica intera la propria risolutezza creativa. Questo lo fa diventare, nel suo paese, oltre che una figura letteraria di primo piano, anche e presto una bandiera per l’opinione pubblica democratica impegnata nella ricerca di una, ricostruttiva, rottura con il passato. La situazione dunque lo schiera oggettivamente con una parte politica, cui egli, a un certo punto impegnatosi anche in qualità di cittadino, si affida in tempi e modi diversi: dal 1982 al 1992 sarà iscritto al Partito socialdemocratico, dopo aver negli anni Sessanta e Settanta sostenuto direttamente la persona di Willy Brandt (Cancelliere tedesco dal 1969 al 1974), offrendosi anche, talora, a funzionare da suo ghost writer. A prescindere inoltre dalla circostanza, non irrilevante, che gli anni Sessanta e Settanta sono ovviamente intrisi anche per lui di problemi, fatti e spirito sintetizzabili come tempo del Sessantotto.
Tutto questo avrà la sua eco nelle pagine pubblicate da Günter Grass sia come narratore o poeta che come saggista. Di più, ogni scritto gli si colora facilmente di tensione personale. Non è soltanto la Trilogia di Danzica a giocare sull’autobiografico. Se si guarda al complesso della sua scrittura, la cosa salta agli occhi. D’altronde, – forse per un fenomeno tutto novecentesco, probabilmente dovuto al costituirsi in Europa della società di massa, – anche una realtà squisitamente collettiva come la politica si presenta spesso nelle vesti della quotidianità individuale.
Günter Grass è del tutto consapevole della situazione, anche prima che nel 2006 un suo processo intimo lo induca a parlare in pubblico del proprio segreto (covato per decenni «con vergogna crescente»). Nel 1998 infatti pubblica una raccolta di piccole storie e riflessioni autobiografiche cui dà questo titolo generale: Der Autor als fragwürdiger Zeuge (L’autore come testimone discutibile). Lo scrittore è certo un testimone dei suoi scritti e dunque della realtà che lì è verbalizzata, ma testimone dubbio, discutibile.
Inoltre tale tropo definitorio era stato già usato da Grass nel 1973 per intestare quel Versuch in eigener Sache (traduciamo: un ‘saggio’, una esplorazione a tentoni, quindi vera, nelle proprie faccende), per titolare cioè un autoesame retrospettivo appunto intorno al Tamburo di latta (e tale ‘saggio’ del 1973 risulta ben presente e centrale nella successiva raccolta del 1998 che accoglie la formula dell’autore testimone problematico come titolo esplicito, che lo fa interlocutore ‘discutibile’, per così dire, al di là d’ogni ragionevole dubbio).
Tale discorso circa se stesso autore di testi, e dunque intellettuale che parla a un pubblico, dunque ad altri, si concludeva con tre domande e tre risposte: «Ho detto tutto? – Più di quanto volessi. Ho taciuto qualcosa d’importante? – Certamente. Ci sarà un poscritto? – No». Lo scrittore ha verità e mire più complesse di un autore. Quindi lo scrittore vuole che l’autore, nella sua relativa autonomia, non dica tutto, lasciandolo nelle péste del commercio culturale, dove deve risponderne.
Grass infatti ci dice che questi, l’autore, merita ogni volta di essere ulteriormente interrogato, perché la sua testimonianza è sempre reticente. Tuttavia la ‘discutibilità’ del testimone per la sua reticenza ha in sé una intrinseca duplicità semantica, anche se spesso, nel breve del pensiero quotidiano, viene sentita come mera doppiezza morale. E però l’autore davvero mente? Oppure soltanto semplifica? Oppure, genuino, intende essere persuasivo, se non addirittura performativo, e perciò evita le articolazioni, le sottigliezze della verità? E allora la domanda è: va messo in discussione, va ancora interrogato, perché inaffidabile (come del resto tutti gli intellettuali figura retorica)? oppure perché ha da dire ancora altro che non ha potuto ancora dire, qualcosa di importante ancora non bene elaborato (come tutti gli intellettuali nel loro campo di competenza, cioè qui lo scrittore nel suo)?
Per Grass lo scrittore è un autore che ha sempre da dire ancora altro per ora non elaborato, giacché narrare è analizzare interminabilmente il reale, che si presenta materia infinita non solo in quanto fenomeno quantitativo, ma prima ancora e soprattutto come cosa qualitativa, da conoscere nella sua essenza di oggetto del soggetto uomo. Questo scrittore, che sembra dover lavorare seguendo un comandamento (magari il verso di Ibsen: «scrivere vuol dire farsi giudice implacabile di se stessi», ma non sappiamo), nella pratica traduce tale suo compito-impulso in un’analisi interminabile di sé in quanto parte dell’umanità, della storia, ma anche in quanto individuo. Cosicché, come già accennato, in Grass narratore tende perciò a prevalere il momento autobiografico, dall’iniziale romanzo di formazione, pur sui generis, fino a tutto il successivo suo narrare che vuol essere uno «scrivere contro le amnesie», intenzionali e no. In fondo ciò di cui parla viene da lui definito, secondo il titolo di un suo romanzo, il mio secolo in ambedue i versi del rapporto di appartenenza.
Così, quanto al problema che l’autore Günter Grass ha creato tacendo la storia dell’appartenenza adolescenziale alle SS, un episodio in sé abbastanza irrilevante, che diventa invece caso politico-culturale proprio, ma soltanto, perché quell’appartenenza viene occultata, anche se «con vergogna», l’autore non sa nemmeno utilizzare nella polemica giornalistica la circostanza attenuante offertagli dal prestigioso intellettuale Klaus Wagenbach (il quale rende pubblica la pagina di un suo diario del 1963 in cui è registrata la confidenza dell’amico Grass circa tale episodio giovanile). L’autore non sa agire, perché lo scrittore ha avuto bisogno di trovare prima le parole per dirlo. La mancanza delle parole rende muti, come si è scoperto anche in altri contesti.
Ed è un tema, questo, che presente anche nell’approccio al mondo delle battaglie politiche che caratterizza lo scrittore quando indossa la divisa dell’intellettuale impegnato. Le sue parole hanno spesso qualcosa di impolitico.
Un esempio esplicito sarà la sua partecipazione al sindacato degli scrittori. Nel 1969 partecipa insieme a Heinrich Böll, Martin Walser e altri alla fondazione del VS (Verband deutcher Schriftsteller, Federazione degli scrittori tedeschi, che non può far sua la sigla completa VDS per non confondersi con il già esistente VDS del movimento studentesco). In esso si unificano le precedenti associazioni dei traduttori, dei critici e appunto degli scrittori tramite un congresso in cui Böll sostiene che occorre essere uniti al massimo grado, per trattare, aldilà di ogni idealismo, da posizioni di forza con le controparti, i gestori di tutte le imprese culturali: gli editori e i direttori di riviste, giornali, teatri, mentre Martin Walser poco dopo propone di fondare un unico Sindacato Cultura. Da allora a oggi, l’idea che unità faccia forza ha condotto infine al ver.di (Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft), al Sindacato unificato dei Servizi (sottinteso della comunicazione), con la motivazione che occorra reagire organizzati alla impetuosa avanzata della società della comunicazione e dell’informazione.
Il percorso di Grass all’interno di tale processo politico è del tutto personale. Lungo gli anni Settanta è preso dalla politica in quanto politica e si dedica piuttosto a collaborare dall’esterno, posizionato genericamente alla sinistra del centro, con la socialdemocrazia. Negli anni Ottanta invece, accanto alla iscrizione ufficiale al Partito socialdemocratico, si dedica di più anche al sindacato per, nel 1984, tramite il cosiddetto “gruppo berlinese” (Günter Grass, Heinrich Böll, il giovane Friedrich Christian Delius e altri), contestarne la politica del presidente, Bernt Engelmann, secondo il gruppo troppo condiscendente verso la Germania orientale nella prospettiva fallace di arrivare a una politica di pace pantedesca. Nei documenti della Repubblica democratica tedesca il gruppo veniva indicato come “le forze di destra”. D’altronde va ricordato che nel 1989, al momento del crollo della Repubblica democratica tedesca, Grass si pronuncerà per una persistenza separata di quello Stato, ritenendo pericoloso in Europa ogni fenomeno che si presentasse come pantedesco.
Nel 1987 accetta la presidenza del VS, ma l’anno successivo si dimette per produrre una scissione di protesta contro il rifiuto da parte della DGB, la Confederazione generale dei sindacati tedeschi, di discutere la formazione, nel proprio ambito, di uno specifico Sindacato degli Autori, perché ha deciso al contrario di sussumere questo tipo di lavoratori al sindacato dei Media (IG Medien). Più tardi si avrà, come detto, un ulteriore processo unificatorio nei Servizi […]
Nel 2012 egli, a distanza di pochi giorni una dall’altra, pubblica su un quotidiano due poesie di argomento esplicitamente politico. Ogni aura è andata a farsi benedire. Due, diremmo qui in Italia citando Pasolini, scritti corsari: il primo, intitolato Quello che deve essere detto (Was gesagt werden muss), è un fervido ragionare contro la pretesa di Israele di affidare la propria esistenza al possesso dell’arma atomica e non invece cercare sicurezza nel, diciamo, concorso paritario fra le culture e politiche presenti in quella zona del mondo, in una visione di ordine mondiale. L’altro, intitolato Lo sconcio di Europa (Europas Schande) è una invettiva contro l’Europa accusata di guardare alla Grecia come a un disastro economico e non come alla madre della cultura europea, colei che ha concepito l’anima di questo continente, una madre da curare nel bisogno.
È, scritto in versi non sempre armoniosi, tradotto in immagini talora stente, un messaggio ultimo che sintetizza quanto lo scrittore Günter Grass ha saputo dire con l’intero suo percorso letterario alla nostra terra europea.
Neppure la migliore Realpolitik e tantomeno il mero gioco economico chiuso in sé sono oggi sufficienti a governare la società umana nelle dimensioni e prospettive che essa ha raggiunto. La cultura in generale e il lavoro letterario in particolare hanno qui e ora il dovere di dire le cose che la politica e l’economia da sole non sanno dire.
Alla terribilità delle esperienze storiche che la coscienza degli uomini non voleva sapere, perché non aveva le parole per dire il male, ora si sostituisce il non-detto quotidiano nella distrazione degli occhi che amano il gradevole, nella moralità della psiche che ama l’ignoto, nell’energia della chiacchiera che ama l’evento scoppiettante, l’anima europea non vuole sapere, perché non ha tempo, con la vita che urge.
In verità, dice Grass, l’uomo europeo non sa più di avere un’anima, ha dimenticato che la madre Grecia gliel’ha inventata, l’ha dimenticato e così può contentarsi di gesti. Va, senza anima, in Grecia a portare guerra e crede che mettere un libro di poesie nello zaino lo trasformi in portatore di cultura. Il compito dello scrittore è però proprio questo, scrivere quanto è necessario per tenere in vita il mondo, fornire le parole per dire quello che deve essere detto: quella non è poesia, è guerra, è male. La poesia, la letteratura ha il compito di trovare le parole per dire che l’uomo, oggi più che mai, ha da governare il possibile, non semplicemente il reale.
Günter Grass ha trovato le parole per dirlo in Germania nel secondo Novecento: l’intellettuale artista, lo scrittore non deve fare politica e tantomeno economia, deve parlare loro. Questo sapere è il grande lascito di un grande scrittore per noi.
Alberto Scarponi in Reti Dedalus

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.