Sono ebrea solo per parte di padre

Per lungo tempo Natalia Ginzburg <1 evitò di parlare apertamente delle proprie origini ebraiche. Il suo silenzio, o reticenza, si spezzò per la prima volta con l’articolo “Gli ebrei” apparso come elzeviro il 14 settembre 1972 sul quotidiano «La Stampa». La collaborazione al giornale torinese era cominciata nel dicembre del 19681; toccassero fatti privati o eventi pubblici, i suoi articoli di terza pagina apparivano scritti für ewig, per ricorrere a un’espressione di Gramsci. Il tono della voce era risoluto e ultimativo quanto più la lettera del testo pareva manifestare dubbio o esitazione. Il suo amico Italo Calvino avrebbe definito così questo approccio: «Natalia non ha dubbi su quel che pensa […]. I suoi giudizi sono drastici: buono, cattivo, bello, brutto. Quando dice “credo” la Ginzburg afferma. Usa l’espressione nel significato che ha l’inglese “I believe”» <2.
Appunto al principio del 1972 il suo critico migliore, Cesare Garboli, constatava: «Oggi la Ginzburg è diventata una fuoriclasse del giornalismo». E spiegava: la scrittrice ci viene abituando a una novità finalmente spregiudicata di giornalismo non confezionato, da gridare al miracolo, sulle colonne di un quotidiano torinese a grande tiratura. Volano le generazioni, ma la Ginzburg continua a parlarci di sé, delle sue abitudini, della sua famiglia: come se il mondo fosse l’estensione infinitamente ramificata di un ceppo, di una parentela, di una tribù originaria che si riproduce ripetendo uno stesso sangue, così che ciascun membro della sterminata comunità potrebbe risalire alle comuni viscere da cui provengono tutti gli altri <3.
Tra un momento si vedrà quanto fosse calzante, anzi prefiguratore, il giudizio di Garboli, del quale occorre riportare un altro aforisma sul giornalismo d’intervento della Ginzburg. Lo si legge nel risvolto di sovraccoperta di “Vita immaginaria”, raccolta del 1974 che includerà anche “Gli ebrei”: «il primo scandalo della Ginzburg (somma provocazione) è l’innocenza separata dall’ingenuità. Conservarsi innocenti, limpidi e puri di mente senza rischiare, a ogni passo, di fare la figura degli scemi, si converrà che è virtù oggi quasi introvabile» <4.
L’articolo “Gli ebrei” prendeva spunto da un fatto avvenuto pochi giorni prima. Nel 1972 le Olimpiadi si svolgevano a Monaco, capitale della Baviera, nell’allora Germania Occidentale. Nelle prime ore del mattino del 5 settembre un commando di otto terroristi palestinesi appartenenti a un gruppo denominato «Settembre Nero» fece irruzione nella palazzina del Villaggio Olimpico dove alloggiavano gli atleti della squadra di Israele. Due di essi, che avevano tentato
di opporre resistenza, furono uccisi subito, mentre altri nove furono presi in ostaggio. Per risparmiarli il commando chiedeva che lo Stato di Israele rilasciasse 234 prigionieri arabi detenuti nelle sue carceri; chiedeva inoltre la liberazione di Andreas Baader e Ulrike Meinhof, capi del gruppo sovversivo di estrema sinistra «Rote Armee Fraktion», detenuti in Germania. I governi israeliano e tedesco federale rifiutarono ogni trattativa su queste basi. Nella tarda serata dello stesso giorno, in una sparatoria avvenuta all’aeroporto di Monaco, tutti e nove gli atleti israeliani furono uccisi, e con loro cinque terroristi palestinesi e un poliziotto tedesco. Le gare olimpiche non vennero sospese. L’azione di «Settembre Nero» fu il primo attacco terroristico che il pubblico di tutto il mondo poté seguire in diretta alla televisione e alla radio.
Nove giorni più tardi, il 14 settembre, l’articolo di Natalia Ginzburg dal brusco titolo “Gli ebrei” uscì dunque come elzeviro sulla terza pagina della «Stampa».
Il massacro avvenuto alle Olimpiadi veniva collocato entro un contesto più ampio.
La parte iniziale dello scritto riguardava infatti la politica: “Quando avviene una disgrazia nel mondo, ci accade di pensare come avremmo agito noi stessi se ne fossimo stati i protagonisti o se avessimo avuto il potere di agire. Essendo il potere lontanissimo dalle nostre mani, questi pensieri sono solo vacue fantasie. Però anche se si tratta di vacue fantasie, dirò lo stesso come avrei agito nei fatti di Monaco se avessi avuto il potere di agire. / Se fossi stata Golda Meyr, avrei liberato i duecento prigionieri, come i guerriglieri chiedevano. Dicono che non si deve mai sottostare ai ricatti. A me sembra che anche i ricatti si devono accettare, nel caso di una grande disgrazia comune […]. / Se fossi stata il capo delle Olimpiadi, avrei sospeso le Olimpiadi perché evidentemente dopo non avevano nessun senso. / Se infine fossi un capo di Stato, chiederei all’America di ritirare le truppe dal Vietnam. Naturalmente glielo avrei già chiesto, ma glielo chiederei ancora di più in questo momento” <5.
Dopo aver parlato dell’America e del Vietnam la Ginzburg lascia uno spazio bianco. Nei suoi articoli autobiografici, così come in quelli di riflessione o politici (“Gli ebrei”, come vedremo, è tutt’e tre le cose), queste intermittenze di vuoto apparente hanno un senso preciso. L’interruzione del pensiero e il salto tipografico segnalano la difficoltà di esprimere e formulare ragionamenti concatenati, ma nello stesso tempo la discontinuità indica – per mezzo di un’antifrasi non verbale – la risolutezza con cui, dato fondo a un argomento su cui è stato espresso un pensiero reciso, se ne affronta uno nuovo senza preamboli, puntando all’essenza.
Gran parte della novità che i lettori percepivano negli articoli della Ginzburg stava proprio in questo modo di spaccare il discorso ricominciandolo da un punto non consecutivo. Dopo il primo spazio bianco di “Gli ebrei” la Ginzburg prosegue dicendo di provare verso i «guerriglieri» (qualificati con questo nome) “una sorta di orrore disumano. Un simile orrore disumano, può ispirarlo soltanto la presenza di una disumana disperazione. […] I guerriglieri sono forse il limite estremo della nostra stessa disperazione, non ancora disumana e stillante di pietà e di sdegno, non ancora disumana e con la quale da tempo ci siamo abituati a convivere. Le chiavi per capire i guerriglieri forse risiedono nella nostra stessa disperazione. Essi ci sembrano venuti da un mondo che non è il nostro” <6.
La seconda parte dell’articolo è dedicata a quei «guerriglieri» palestinesi che sono scesi in combattimento contro lo Stato d’Israele prendendo di mira un gruppo di atleti israeliani inermi. Segue un nuovo spazio bianco, che si può associare al silenzio quasi completo che la Ginzburg aveva mantenuto, fino a questo momento, sulla propria «tribù originaria», così come Garboli l’ha definita.
Comincia la parte dell’articolo che ha rilevanza personale, generale e morale, e che con questo intreccio di elementi proseguirà fino al termine: “Io sono ebrea. Tutto quello che riguarda gli ebrei, mi sembra sempre che mi coinvolga direttamente. Sono ebrea solo per parte di padre, ma ho pensato sempre che la mia parte ebraica doveva essere in me più pesante e ingombrante dell’altra parte. Se mi succede di incontrare in qualche luogo una persona che scopro essere ebrea, istintivamente ho la sensazione di avere con essa qualche affinità. Dopo un minuto magari la trovo odiosa, ma permane in me un senso di segreta complicità. Questo è un aspetto della mia natura che trovo strano e che non mi piace affatto, perché è in aperto contrasto con tutto quello che ho sempre pensato nel corso della mia vita, perché non ritengo che esistano tra gli ebrei delle affinità se non estremamente superficiali, perché penso che gli uomini debbano oltrepassare i confini delle loro origini. Questo è ciò che penso, ma quando incontro un ebreo non riesco a reprimere una strana e buia sensazione di connivenza. Quando ho saputo della strage di Monaco, ho pensato che avevano ammazzato ancora una volta quelli del mio sangue. L’ho pensato in mezzo a un mare di altri pensieri, ma l’ho pensato. Nel pensarlo, ho provato disprezzo per me stessa perché era un pensiero da disprezzare. Non credo affatto che gli ebrei abbiano un sangue diverso da quello degli altri. Non credo che esistano divisioni di sangue” <7.
Il silenzio e la «segreta complicità» sono i due elementi notevoli, insieme con il balenare di un pensiero sul «sangue» e l’immediata ripulsa per questo pensiero.
Molti anni più tardi, in un’intervista del 1986, la Ginzburg avrebbe detto alcune frasi chiarificatrici su questo punto: “Per molti anni, mi è sembrato che il fatto di essere ebrea non significasse per me gran cosa. Invece penso ora che essere ebrei è come avere una virgola nel sangue, di cui magari non ci si accorge, ma esiste. Però non credo che sia giusto attribuire, a una simile virgola nel sangue, un’importanza vitale e essenziale. Penso che vada custodita come una lontana memoria” <8.
È significativo che nel proprio «sangue» Natalia Ginzburg rintracci, di ebraico, «una virgola»: un quid infralinguistico, un principio di significazione connesso al ritmo, alla scansione del discorso e del respiro, un elemento attivo ma silenzioso, e turbatore se non disturbante proprio per la sua natura silenziosa.
Trascrivo ora la parte finale di “Gli ebrei”, che si potrà leggere alla luce di queste ultime dichiarazioni: “A volte ho pensato che gli ebrei di Israele avevano diritti e superiorità sugli altri essendo sopravvissuti a uno sterminio. Questa non era un’idea mostruosa, ma era un errore. Il dolore e le stragi di innocenti che abbiamo contemplato e patito nella nostra vita, non ci danno nessun diritto sugli altri e nessuna specie di superiorità. Coloro che hanno conosciuto sulle proprie spalle il peso degli spaventi, non hanno il diritto di opprimere i propri simili con denaro o armi, semplicemente perché questo diritto non lo ha al mondo anima vivente. / Riguardo agli ebrei di Israele, mi succede questo. Se qualcuno parla contro di loro provo un senso di rivolta e di oscura offesa. Mi sembra che venga offesa la mia stessa famiglia. Se però qualcuno ne parla con ammirazione e devozione, ho la sensazione subitanea di non condividere questi sentimenti e di trovarmi sull’altra sponda. / Dopo la guerra, abbiamo amato e commiserato gli ebrei che andavano a Israele pensando che erano sopravvissuti a uno sterminio, che erano senza casa e non sapevano dove andare. Abbiamo amato in loro le memorie del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi. Questi sono i tratti che noi amiamo oggi nell’uomo. Non eravamo affatto preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa. Speravamo che sarebbero stati un piccolo paese inerme, raccolto, che ciascuno di loro conservasse la propria fisionomia gracile, amara, riflessiva e solitaria. Forse non era possibile. Ma questa trasformazione è stata una delle cose orribili che sono accadute. / Quando qualcuno parla di Israele con ammirazione, io sento che sto dall’altra parte. Ho capito a un certo punto, forse tardi, che gli arabi erano poveri contadini e pastori. So pochissime cose di me stessa, ma so con assoluta certezza che non voglio stare dalla parte di quelli che usano armi, denaro e cultura per opprimere dei contadini e dei pastori. / Il nostro istinto ci spinge a stare da una parte o dall’altra. Ma in verità è forse impossibile oggi stare da una parte o dall’altra. Gli uomini e i popoli subiscono trasformazioni, rapidissime e orribili. La sola scelta che a noi è possibile è di essere dalla parte di quelli che muoiono o patiscono ingiustamente. Si dirà che è una scelta facile, ma forse è l’unica scelta che oggi ci sia offerta” <9.
Ho riportato finora citazioni molto lunghe. Procederò fino alla fine in questo modo, sia per i testi di Natalia Ginzburg sia per gli altri testi editi e inediti che ricopierò più avanti. Due sono le ragioni: la necessità di completezza documentaria e l’impossibilità di parafrasare pensieri che richiedono il minimo possibile di commento, essendo di per sé chiari anche quando sono discutibili, e trovando una parte di spiegazione proprio in quei testi che con loro entreranno in discussione o in polemica.
La pubblicazione di “Gli ebrei” sulla «Stampa» suscitò immediate reazioni, in un arco dall’entusiasmo all’indignazione […]
[NOTE]
1 Mi permetto di segnalare, sul tema, il mio saggio Appunti su un’opera in penombra, apparso come postfazione a Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi. Nuova edizione a cura di Domenico Scarpa, Torino, Einaudi, 2014, in particolare per le pp. 220-224.
2 La battuta di Calvino è riportata da Silvia Del Pozzo, Cari amici, vi scrivo, in «Panorama», 24 dicembre 1984.
3 Cesare Garboli, Introduzione a Natalia Ginzburg, Lessico famigliare [1963], Milano, Mondadori, [febbraio] 1972, ora in C. Garboli, La gioia della partita. Scritti 1950-1977, a cura di Laura Desideri e Domenico Scarpa, Milano, Adelphi, 2016, p. 126.
4 N. Ginzburg, Vita immaginaria, Milano, Mondadori, [ottobre] 1974 (risvolto di sovraccoperta firmato Cesare Garboli; ora in C. Garboli, La gioia della partita cit., p. 138).
5 N. Ginzburg, Gli ebrei, in Vita immaginaria cit., pp. 174-175 (si lascia inalterata la grafia «Golda Meyr»).
6 Ivi, pp. 176-177.
7 Ivi, pp. 177-178.
8 Ludovica Ripa di Meana, Rivedo la mia vita in uno specchio rotto, intervista con Natalia Ginzburg, in «L’Europeo», 15 marzo 1986.
9 N. Ginzburg, Gli ebrei cit., pp. 179-181.
Domenico Scarpa, «GLI EBREI». UN ARTICOLO DI NATALIA GINZBURG E LE SUE VICENDE in (a cura di) Anna Dolfi, Gli intellettuali/scrittori ebrei e il dovere della testimonianza. In ricordo di Giorgio Bassani, Firenze University Press, 2017

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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