Soutine per la sua arte e le sue vicende biografiche di ebreo russo perseguitato dal nazismo rappresenta per La Cava l’uomo-simbolo dei tragici eventi storici decorsi

Il carteggio intercorso tra Mario La Cava e Sciascia racconta, fra l’altro, la gestazione di alcuni fascicoli della nuova stagione della rivista «Galleria» che, fondata a Caltanissetta nel 1949, aveva sospeso le pubblicazioni per motivi finanziari. Sotto la direzione di Sciascia (1952-1959), e grazie alle collaborazioni di scrittori e critici illustri, il periodico divenne in breve tempo una delle più importanti espressioni culturali del meridione.
La Cava accetta con entusiasmo l’invito a prender parte a questo progetto editoriale, segnalando collaboratori e suggerendo a Sciascia di arricchire i contenuti della rivista con contributi di critica teatrale e cinematografica e sezioni dedicate a ricerche storico-artistiche sul meridione.
Numerosi sono anche gli interventi critici lacaviani sulla rivista, mentre al 1954 risale la pubblicazione, nella collana dei Quaderni di «Galleria», dei “Colloqui con Antonuzza”.
Il primo fascicolo di «Galleria» nato sotto la direzione di Sciascia rispecchia nei suoi contenuti gli interessi culturali che segneranno la produzione letteraria dello scrittore siciliano negli anni a venire: l’indagine storiografica, l’interesse per la lirica contemporanea, il recupero della lezione dei classici antichi. Il numero si apre, infatti, con uno saggio lacaviano sulla tragedia greca <261, seguito, fra l’altro, da una nota critica di Pasolini sulla poesia di Giannina Angioletti, da alcuni inediti di Francesco Lanza e da un racconto, “Lo zio di Firenze”, dello scrittore e giornalista esordiente Domenico Zappone, del quale Sciascia recensisce, sullo stesso numero, un altro racconto intitolato “Le cinque fiale” <262.
Sul primo numero della rivista compare anche il ‘puzzle’ sciasciano dedicato a Carlo Edoardo Stuart, che nel 1983 confluirà in “Cruciverba” <263.
L’anno successivo appare sulla rivista un esperimento che è il frutto dell’interesse per le arti figurative che La Cava e Sciascia condividevano <264. Si tratta delle “Lettere da Venezia” <265, redatte da La Cava in occasione della visita alla XXVI Biennale Internazionale d’Arte di Venezia (1952-1953), un evento culturale che il periodico nisseno, aperto a interessi extraletterari, intese non trascurare; le edizioni della Biennale dei primi anni del secondo dopoguerra si svolsero, infatti, in un clima di grande attesa, in quanto, dopo un ventennio di censura pressoché totale, l’Italia entrava finalmente in contatto con le più recenti sperimentazioni dell’arte moderna internazionale.
I saggi, scritti nella forma di lettere al direttore, costituiscono una sorta di resoconto consuntivo, non privo di tono narrativo, sulle opere esposte alla Biennale. Il punto di vista programmaticamente adottato è quello del cultore d’arte appassionato ma privo di competenze tecniche e guidato esclusivamente dalla soggettività delle «suggestioni di bellezza» <266.
L’incipit della prima lettera rivela nel Bontempelli critico d’arte <267 il modello di riferimento di La Cava:
“Caro Sciascia,
c’è un libro di Bontempelli, intitolato «Appassionata incompetenza» […], in cui l’autore, protestando la sua incompetenza nella critica delle arti figurative, trova modo tuttavia di fare alcune delle osservazioni più calzanti che sia dato leggere su quelle arti in genere e sui singoli artisti in particolare. Perché Bontempelli è stato così felice nelle sue meditazioni, se non perché dotato di gusto nell’apprezzamento del bello e perché mai la sua mente discreta s’è lasciata prendere dalla presunzione e tutto ha saputo guardare con amore? Ora anch’io, prendendo esempio da lui, vorrei evitare errori fastidiosi nella relazione che ti farò su alcuni aspetti della XXVI Biennale di Venezia, visitata in questi giorni fugacemente”. <268
Non si tratta, se non in minima parte, di una polemica contro il linguaggio specialistico della critica d’arte, spesso eccessivamente tecnico e arido, quanto della volontà di sfruttare le potenzialità di una fruizione ingenua dell’arte, tipica del visitatore comune, «frettoloso e ignorante, e pur a volte straordinariamente illuminante per la ingenuità e la franchezza delle cose che dice» <269. Un approccio antispecialistico che Sciascia, destinatario delle lettere, apprezza in modo particolare, come si evince da una corrispondenza del periodo: «non ho trovato, tra tutte le ‘rassegne’ della Biennale, una così amorevole ed acuta» <270.
Sebbene le “Lettere al direttore” di La Cava presentino una rassegna di opere e di artisti selezionati in base alle preferenze estetiche soggettive dell’autore, questi saggi possono essere considerati un punto d’osservazione defilato sulle tendenze artistiche italiane del secondo dopoguerra. Rispetto al panorama internazionale dominato tra gli anni Quaranta e Cinquanta dall’astrattismo e dall’Informale europeo, nuove tendenze artistiche basate sul ripudio della figurazione naturalistica, l’Italia persegue su una rotta antimodernista, refrattaria nei confronti delle più aggiornate ricerche pittoriche. Sono questi, infatti, gli anni in cui il dibattito critico, nel pieno della temperie neorealista, è carico di implicazioni politiche e polarizzato anche nel campo delle arti figurative sulla dicotomia figurazione-astrazione. Numerosi artisti apriranno, attraverso soluzioni assai differenti e personalizzate, una via italiana all’astrazione, ma il dibattito critico sarà sempre contraddistinto da aspre polemiche contro l’irrazionalismo e l’antistoricismo delle arti non figurative, avvertite come un nuovo manierismo d’importazione americana, e l’insofferenza nei confronti del formalismo astratto porta gli artisti italiani a una rivisitazione della grande tradizione dell’arte figurativa italiana, anche in chiave regionalistica, quasi a voler ricercare in quest’ultima un’alternativa al carattere internazionale delle neoavanguardie.
Anche l’interesse di Mario La Cava si rivolge precipuamente alle opere ascrivibili in senso lato al realismo nelle sue diverse declinazioni e a quegli artisti che ricercano i temi delle loro rappresentazioni nel mondo degli umili, mentre le sperimentazioni artistiche più vicine alle tendenze informali non trovano spazio nella sua rassegna. La prima delle sue lettere si apre infatti con un’ampia relazione sui paesisti piemontesi dell’Ottocento (Delleani, Avondo, Fontanesi, Reycend) e dunque con una serie di dipinti ascrivibili al realismo mimetico-naturalista del XIX secolo, dei quali l’autore predilige soprattutto l’armonica fusione fra elementi antropici e elementi naturali dei paesaggi raffigurati. Anche la sua analisi sulla mostra retrospettiva del divisionismo italiano è una ‘lettura’ in chiave essenzialmente realista di quel movimento artistico: l’autore trascura ogni riferimento alla carica innovativa dei divisionisti che, attraverso la tecnica della divisione cromatica, tentavano di importare in Italia la lezione del simbolismo europeo, prediligendo l’aspetto naturalistico-descrittivo di quella stagione pittorica. La sua preferenza va, in questo caso, ai bozzetti naturali di Pellizza da Volpedo, alla vitalità delle figure in movimento in “Rissa in galleria” di Boccioni, agli scorci cittadini dei dipinti di Balla. Tra gli artisti contemporanei, l’attenzione di La Cava si sofferma sulle opere di Fausto Pirandello, Casorati, Saetti e, in maniera più dettagliata, sui dipinti di Ottone Rosai, definito, in virtù della sua arte che affonda le radici nella tradizione toscana, il «pittore della Firenze, provinciale e antica». La Cava ne apprezza il realismo paesano, le scene di vita quotidiana e le umili figure di «borghesi rattristati o popolani pensierosi come se fossero borghesi, tanto grande è il peso della loro tradizione civile» <271.
Molto suggestiva è anche la riflessione sul realismo di un altro celebre artista fiorentino, Gianni Vagnetti:
“Sia che egli raffiguri tipi di donne, come l’intellettuale ed elegante «Figura al caffè» o la selvaggia «Pescivendola» oppure ci presenti su quei melanconici fogli gialli di carta da avvolgere le «Arringhe salate», ghiottoneria dei palati della povera gente, sempre il Vagnetti, attraverso il groviglio delle linee e la confusione delle forme, nella mescolanza sobria dei colori, opachi e pur soffusi di variopinta luce intellettuale, ci rivela una sua propria visione di vita nella quale il dolore dell’esistenza trova riparo soltanto nella rassegnazione della fermezza morale”. <272
Fra gli artisti provenienti dal movimento «Corrente», La Cava sceglie di soffermarsi sugli esiti più arditi e polemici del realismo sociale di Migneco e di Guttuso, quest’ultimo ‘letto’ al lume dell’influsso esercitato sull’artista siciliano dalla tensione drammatica dell’arte di Goya. Le tele di Guttuso permettono a La Cava di riflettere su una variante significativa del realismo figurativo della seconda metà del Novecento, volta alla rappresentazione degli orrori della guerra. Di Marini, fra i più acclamati artisti espositori dell’edizione della Biennale del 1952, lo scrittore individua i tre soggetti principali che nel corso della sua lunga carriera saranno rivisitati dall’artista toscano in numerosissime varianti: le Pomone «dall’enorme ventre cascante» <273, i ritratti, «profondi e suggestivi» come i bronzi di “Strawinski” e di “Ignoto”, e il monumento equestre che lo scultore libera dalle tradizionali implicazioni celebrative, trasformandolo in una riflessione sulla storia dell’umanità e sul rapporto, ora armonioso, ora tragico e violento, dell’uomo con la natura. La preferenza del visitatore va però alla scultura dell’amico Emilio Greco e all’ideale di armonia e bellezza classica di cui l’artista tenta di dare rappresentazione attraverso la figura femminile. Nelle lettere è presente inoltre un riferimento alle tele dell’artista e editore veneziano Neri Pozza, alle figure di poveri ispirate ai sobborghi popolari napoletani di Armando De Stefano, all’impegno civile dell’arte di Ernesto Treccani.
Per quanto riguarda gli artisti stranieri, La Cava, considerando l’amore di Sciascia per la cultura ispanica, dedica una sezione dell’ultima lettera ai «sensuali e drammatici» artisti di Spagna, Beniamin Palencia, Martin Llaurandò, Eduardo Serra Guell e, naturalmente, al gruppo di dipinti di Goya esposti in quell’occasione in Italia, fra i quali La Cava sceglie di soffermarsi su un ritratto di dama dell’alta società spagnola:
“C’è un capolavoro assoluto, il ritratto in grande di una grande dama, non so se regina, in giallo e bianco, con il naso a civetta, gli occhi neri, ma molto neri, la bocca sottile e cattiva, tutta ingioiellata, tutta velata, con un ciuffetto di piume in testa, una medaglia appesa con un nastro attorno alla vita, e delle scarpine puntute ai piedi che sprizzano scintille di malevolenza e superbia”. <274
Infine, dopo una breve disamina dell’espressionismo tedesco del movimento Die Brücke, e di quello fiammingo di Constant Permeke, lo scrittore si sofferma sull’arte francese, con particolare interesse verso i colori accesi delle tele di Raoul Dufy, «l’attività di disegnatore e di illustratore di cartelli pubblicitari» di Toulouse-Lautrec, e la «macabra» immaginazione di Alfred Kubin che lo scrittore associa alle atmosfere allucinate dei racconti di Kafka. La rassegna si chiude con un’ampia digressione sul «fosco e drammatico» Soutine che per la sua arte e le sue vicende biografiche di ebreo russo perseguitato dal nazismo rappresenta per La Cava l’uomo-simbolo dei tragici eventi storici decorsi. Il realismo allucinato dei suoi paesaggi e delle figure umane trasuda un senso d’angoscia che assurge a rappresentazione atemporale e metastorica del male esistenziale:
“Egli dice una parola che, col suo fascino di bellezza, turba gravemente il nostro cuore. Pensiamo all’epoca in cui visse, egli che, ebreo russo rifugiato in Francia, dove poi la persecuzione nazista lo raggiunse, morì nel 1943, sempre in terra di Francia, prima che la guerra fosse finita. Pareva un dolce e mesto fanciullo, con quei suoi occhi sognanti, come ce li dipinse Modigliani, suo amico, e dentro il suo cuore vibrava invece la furia selvaggia. Guardate i suoi paesaggi, spesso offuscati dallo stesso bagliore dei loro esasperati colori, e vedrete come in essi si dispiega la forza terribile e indomata del mondo. Quel viale di alberi giganteschi in verde, come trattengono sotto la loro volta impenetrabile le povere creature! Colori di fiamma e un arcobaleno misterioso, con case che sembrano quelle del paese natio, compaiono dietro un folto di alberi, in un altro quadro. Nubi temporalesche, case che sembrano crollare o che s’innalzano come torri di dolore, strade affossate, vento turbinoso e perfino fiori scossi dall’uragano che tutto travolge, sono le immagini prescelte dall’artista nelle sue creazioni di aspetti della natura. […] Il culmine delle sue realizzazioni lo raggiunge nei ritratti e nelle nature morte. […] Ricordo la fidanzata in bianco, triste e invecchiata e secca come la sedia sulla quale poggia le mani dalle braccia nude, il cameriere dalle orecchie divaricate e dalla cravatta a farfalla, il garzone d’albergo dalla fronte altissima, in panciotto rosso e grembiule bianco, la ragazza con le mani in mano, la bocca dolorosa e storta, l’abito blù, dal collare ornato di ritagli verdi, il piccolo corista, dalla figura grottesca in bianco e rosso, il ragazzo rustico dalle mani rossastre sul fondo blù e il volto chiuso in un rassegnato dolore. E altrettanto drammatiche e significative le nature morte, con quei buoi squartati, coi montoni dai moncherini umani, quei tacchini paonazzi, quei polli in putrefazione. La morte qui il sangue e l’orrore sono guardati dal poeta con cuore disperato che non conosce illusioni”. <275
L’esperimento delle ‘lettere al direttore’ non si ripeterà per la successiva edizione della Biennale veneziana (1954-1956). La Cava preferisce non pronunciarsi su un evento apparsogli «un vero fallimento» <276, prendendo le distanze dall’arte d’avanguardia internazionale alla quale gran parte delle proposte visive della XXVII Biennale erano state dedicate. Un disinteresse, quello lacaviano, per altro condiviso da Sciascia <277, che rispecchia l’ostracismo generalizzato della cultura italiana del periodo nei confronti delle più aggiornate ricerche figurative contemporanee. Il credito concesso in ambito italiano alle poetiche del realismo sfociò, come si è detto, in una polemica antiastratta e, genericamente, antimodernista che solo nei decenni successivi lascerà spazio ad un approccio obbiettivo e non politicizzato all’arte contemporanea.
[NOTE]
261 M. La Cava, Su due tragedie greche, in «Galleria», III, n.1, settembre 1952, pp. 1-7.
262 Per i rapporti fra Mario La Cava, Leonardo Sciascia e Domenico Zappone e la collaborazione di quest’ultimo a «Galleria», si vedano: G. Carteri Come nasce uno scrittore cit., pp. 101-131; Id., Domenico Zappone: male di vivere, in «Il nostro tempo», n. 5, 4 febbraio 2007, p. 9
263 L. Sciascia, Un «puzzle»su Carlo Edoardo, in «Galleria», III, n. 1, settembre 1952, pp. 48-52. Ora, con il titolo di: Un cruciverba per Carlo Edoardo, in: Id., Opere (1971-1983), vol. II cit., pp. 1047-1050.
264 Significativamente il primo incontro personale fra i due scrittori ebbe luogo in occasione della mostra di Antonello da Messina del 1953. L’interesse per le arti figurative si riversa naturalmente nella scrittura di La Cava e di Sciascia, ma con esiti molto diversificati. Nelle opere lacaviane, è possibile individuare, per quanto riguarda la raffigurazione dei personaggi, una capacità di ‘ritratto attraverso la scrittura’, fatto di rapide e scarne descrizioni che imprimono sui tratti somatici del carattere anche una precisa nota psicologica, e relativamente alla rappresentazione degli ambienti, è rilevabile una vicinanza con la pittura di genere, ove predomina il gusto per l’osservazione minuta di umili scene di vita quotidiana. Molto più complessa è la funzione delle arti figurative presenti nell’opera sciasciana, ove il sistema di allusioni e riferimenti espliciti a opere pittoriche e artisti prediletti, imbastisce attorno alla parola letteraria un fitto reticolo di metafore, sinestesie e significati sottesi che si estende a comprendere perfino i dettagli tipografici e le immagini di copertina scrupolosamente selezionate da Sciascia. Giovanna Jackson parla, a proposito di tale procedimento narrativo nel quale parola e immagine s’intersecano in un doppio sistema narrativo-simbolico, di «parola scenica». Cfr. G. Jackson, Nel labirinto di Sciascia, Milano, La Vita Felice, 2004, p. 183.
265 M. La Cava, Lettere da Venezia I-II, in «Galleria», III, n. 3, gennaio 1953, pp. 43-52, e Id., Lettere da Venezia III-IV, in «Galleria», III, n. 6, agosto 1953, pp. 47-57.
266 M. La Cava, Lettere da Venezia I-II cit., p. 43.
267 M. Bontempelli, Appassionata incompetenza. Note su cose d’arte, Venezia, Neri Pozza, 1950.
268 La Cava, Lettere da Venezia I-II cit., p. 43.
269 Ivi, p. 47.
270 M. La Cava, L. Sciascia, Lettere dal centro del mondo cit., p. 66.
271 M. La Cava, Lettere da Venezia I-II cit., p. 48.
272 Ivi, p. 49.
273 M. La Cava, Lettere da Venezia III-IV cit., p. 47.
274 Ivi, p. 52. La Cava omette il titolo dell’opera.
275 Ivi, pp. 55-56.
276 M. La Cava, L. Sciascia, Lettere dal centro del mondo cit., p. 164.
277 Significativamente La Cava aveva taciuto nella sue Lettere qualsiasi riferimento agli artisti italiani non figurativi del Gruppo degli Otto, riuniti attorno al critico Lionello Venturi: Antonio Corpora, Emilio Vedova, Giulio Turcato, Renato Birolli, Afro Basaldella, Giuseppe Santomaso, Mattia Moreni, Ennio Morlotti. Per la posizione di esplicita ostilità di Sciascia verso l’arte d’avanguardia: cfr. G. Traina, Leonardo Sciascia, Milano, Mondadori, 1999, pp. 53-54; Id., In un destino di verità. Ipotesi su Leonardo Sciascia, Milano, Edizioni La Vita Felice, 1999, pp. 26-33; S. Ferlita, Sperimentalismo e avanguardia, Palermo, Sellerio, 2008, pp. 83-86.
Eleonora Sposato, Oltre le cose, la sostanza che non muta. Mario La Cava. La figura e l’opera, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Calabria, 2013

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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