Spazzolare la storia contropelo

Walter Benjamin

Nelle Tesi sul concetto di storia, Benjamin <1 evoca una minaccia, che grava tanto sulla tradizione e sulla sua possibilità di esistenza, quanto sui suoi destinatari. Il pericolo, per l’una e per gli altri, è quello di «prestarsi a essere strumento della classe dominante» <2.
Il concetto di storia cui le Tesi sono dedicate è il nocciolo teorico della possibilità di salvarsi da questo pericolo, e da un corso della storia che procede incessantemente sotto la forma di una catena di avvenimenti che lascia dietro di sé cumuli di macerie <3.
Benjamin scrive le Tesi tra la fine del 1939 e il maggio del 1940, quando la Seconda guerra mondiale è scoppiata e alla Germania nazista si sono arresi, nel giro di qualche mese, la Polonia, la Danimarca, la Norvegia, i Paesi Bassi e il Belgio. Il 22 giugno 1940, la Francia firma un armistizio in virtù del quale la Germania occupa la parte settentrionale del paese e l’intera linea costiera Atlantica. Nella Francia meridionale viene istituito lo Stato collaborazionista di Vichy; da lì, più esattamente da Marsiglia, nell’agosto del 1940, Walter Benjamin, già internato per qualche mese in un campo di lavori forzati a Nevers <4, ottiene grazie a Max Horkheimer il visto d’urgenza per gli Stati Uniti. Prima dell’occupazione tedesca di Parigi aveva affidato un buon numero di scritti a Georges Bataille, che li nascose alla Bibliothèque Nationale, e a Hannah Arendt. Tra questi le Tesi sul concetto di storia. Oltre al visto per gli Stati Uniti, a Benjamin vengono concessi i visti di transito per Spagna e Portogallo, ma non quello di uscita dalla Francia. Decide allora di attraversare clandestinamente la frontiera franco-spagnola attraverso i Pirenei. Dopo aver oltrepassato il confine con un gruppo di esuli, Benjamin, spossato, raggiunge Port-Bou, in territorio iberico, ma le guardie di frontiera gli comunicano che avrebbero rimpatriato lui e i suoi compagni di viaggio in Francia. Benjamin nella notte si toglie la vita con una dose letale di morfina. Il giorno dopo sarà concesso a chi viaggiava con lui di proseguire.
Nonostante scrivesse con un occhio costantemente puntato sulle disgrazie del suo tempo, braccato egli stesso, in prima persona, dall’avanzata nazista, Benjamin non ha elaborato una concezione della storia rinunciataria rispetto all’agire, o legata a un ambito puramente speculativo. Anzi, per Benjamin, è «nell’attimo del pericolo» che si può «articolare storicamente il passato» e «riattizzare la scintilla della speranza» <5. Ogni attimo è «la piccola porta attraverso la quale può entrare il messia» <6, «non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria» <7, ma, e qui entra in gioco il Begriff der Geschichte, essa «richiede di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito (Aufgabe) <8 del tutto nuovo» <9. Per fare ciò «occorre giungere a un concetto di storia che corrisponda» <10 a questa novità.
Alla costruzione storica il cui luogo è il tempo omogeneo vuoto (e l’idea di progresso è inseparabile da una tale idea di storia <11), il materialista storico «accosta la miccia» <12 esplosiva della Jetztzeit. Così facendo, strappa la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla, e che la trasformerebbe in «patrimonio culturale», il «bottino» trasportato nel «corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono a terra» <13. Occorre, quindi, una critica che guardi a tale patrimonio culturale con distacco, e, anzi, con «orrore», in quanto non c’è documento di tale cultura – quella portata come trofeo dai vincitori di oggi e di ieri – che sia esente da barbarie, così come non è esente da barbarie «il processo della trasmissione» <14 che ha fatto sì che essa si tramandasse.
È questo il significato dello «spazzolare la storia contropelo», l’operazione propria dello storico materialista, che Benjamin definisce suo «compito» <15 (Aufgabe) – termine che, lo si dimostrerà nel presente lavoro, ha una precisa valenza messianica, in quanto esce dallo schema di ciò che, nella prima pagina di Per la critica della violenza, è definito «das elementarste Grundverhältnis» <16 di ogni ordine giuridico, ovvero il rapporto mezzi-fini, il rapporto originario, il dispositivo fondamentale su cui si basa il diritto.
Proviamo a guardare più da vicino il patrimonio culturale e il modo in cui esso si tramanda di generazione in generazione, schiacciando i vinti e gli oppressi a tutto vantaggio dei dominatori di turno.
Benjamin, nel saggio che nel 1937 dedicò a Eduard Fuchs, di esso dice che «accresce il peso dei tesori che gravano sulle spalle dell’umanità.
Ma non dà a quest’ultima la forza di scuoterseli di dosso e quindi di farli suoi» <17.
Ritroviamo il medesimo gesto, quello dello scuotersi qualcosa di dosso e così di liberarsi, nel saggio su Kafka. Benjamin lo attribuisce a due figure simili, quella di Sancio Panza, paziente e fedele accompagnatore di Don Chisciotte, e quella di Bucefalo, il cavallo di Alessandro Magno.
Nota Benjamin che «fra i gesti dei racconti kafkiani nessuno è più frequente di quello dell’uomo che piega profondamente la testa sul petto» <18 e che, in essi, è sempre «la schiena a essere gravata dal peso» <19, come nel racconto Nella colonia penale <20, in cui la schiena dei condannati si fa portatrice della colpa e del supplizio.
«Bucefalo, ‘il nuovo avvocato’, […] senza il grande Alessandro – e cioè libero dal conquistatore lanciato in avanti -, prende la via del ritorno» <21. Va sottolineata l’importanza del gesto di scuotersi di dosso il peso che grava sulle spalle: che si tratti di Bucefalo, «libero, i fianchi non oppressi dalle reni del cavaliere» <22, o di Sancio Panza, che è riuscito a «stornare da sé» Don Chisciotte, «uomo o cavallo» conclude Benjamin, «non è più così importante, purché il peso sia stato tolto di dosso» <23.
Abbiamo cercato di far nostro il gesto di liberazione, di emancipazione, di sgravio da un peso, gesto che abbiamo provato a rintracciare in diversi passaggi dell’opera benjaminiana. A partire da Per la critica della violenza, abbiamo individuato tale peso nel diritto e la possibilità di una «nuova epoca storica» nell’«interruzione di questo ciclo che si svolge nell’ambito delle forze mitiche del diritto», nel suo «spodestamento insieme alle forze a cui esso si appoggia (come esse ad esso), e cioè in definitiva dello Stato» <24.
Benjamin, nella sua produzione teorica, individua nel diritto una sopravvivenza del mito, che condanna l’uomo all’infelicità e alla colpa e «per entro il quale non è concepibile via alcuna di liberazione» <25.
Si tenta, in questa sede, di ricostruire una sorta di storia del diritto dai suoi «albori» <26 sino alla modernità, così come scandita nella produzione benjaminiana, soprattutto nei saggi Destino e carattere, Per la critica della violenza e Franz Kafka.
Privilegiando le peculiarità dei concetti politici e giuridici moderni, il presente lavoro adotta come punto di partenza il saggio di Benjamin Per la critica della violenza e, complice una disamina della fitta rete di intrecci e rimandi che legano l’opera benjaminiana a quella di Carl Schmitt, va alla ricerca, in esso, dei riferimenti precisi alla legislazione moderna e alle forme politiche della modernità, quali, ad esempio, il monopolio della violenza, il parlamentarismo, la regolamentazione giuridica di tutte le sfere dell’esistenza.
Si vuole, in questa sede, mettere in relazione i rapporti che intercorrono tra violenza, diritto e giustizia – l’esposizione dei quali è l’obiettivo dichiarato da Benjamin nelle prime righe del saggio Per la critica della violenza – con i concetti politici e giuridici caratteristici della modernità, come ad esempio la rappresentanza politica, elaborata a partire dalle teorie contrattualistiche, e l’onnipervasività giuridica, rintracciata da Benjamin nei moderni Stati civilizzati.
Il dibattito sul tema del contratto sociale ha impegnato i più grandi pensatori politici, soprattutto tra Seicento e Settecento, ed è tuttora gravido di conseguenze, sia nel campo della teoria del diritto, sia in quello del pensiero politico. Esso si collega, nella prospettiva delineata dai numerosi volumi dedicati all’argomento da Giuseppe Duso, alla nascita dello Stato moderno e alla conseguente cancellazione di ogni potere extra statale (ad esempio degli Stände, o dei ceti) e all’espropriazione di ogni residuo di violenza dalle mani del singolo.
[…] Prendendo le mosse dalla riflessione di Tomba a partire da Per la critica della violenza, si vorrebbe privilegiare, all’interno della costellazione di concetti “diritto-violenza-giustizia” che costituisce l’oggetto del saggio, il problema della violenza e della delega di essa all’interno dello Stato moderno. Gli spunti principali forniti da Benjamin per inquadrare tale problema sono l’incipit del testo, nel quale egli attribuisce alla violenza la capacità di incidere nella sfera morale, in quanto retta dai principi del diritto e della giustizia, e la tendenza all’onnipervasività riscontrata nei rapporti giuridici moderni, che trova la sua ragione, nel breve saggio giovanile sulla violenza, nella minaccia che l’uso della violenza da parte di un individuo costituisce per l’ordinamento giuridico moderno.
A partire dal monopolio statale sulla Gewalt è poi possibile porre la questione relativa ad un altro genere di violenza, quella «Gewalt anderer Art» <28 cui Benjamin allude nel saggio giovanile sulla violenza. Questa Gewalt di altro genere è intesa, nel presente, come la possibilità di interrompere lo stato di eccezione permanente con cui Benjamin nella già citata ottava tesi sul concetto di storia descriveva la sua contemporaneità <29. Lo stesso che, in termini marxiani, si delinea come la perenne «guerra civile» <30 tra la Kapitalistenklasse e la Arbeiterklasse.
Una concezione della guerra civile come permanente, che il quarto capitolo del presente lavoro cerca di elaborare a partire dalla critica alla sovrapposizione hobbesiana del concetto di guerra di tutti contro tutti con la guerra civile, permette di acquisire un punto di vista che coglie nello stato di diritto la continuità della violenza giuridica e persegue come scopo la sua interruzione. Tale sforzo teorico volto all’interruzione del continuum della violenza giuridica ha necessariamente Schmitt tra gli obiettivi polemici.
È stata quindi presa in esame la celebre definizione schmittiana di sovrano come colui che «decide sullo stato di eccezione» <31 e la variante presente nel suo libro dedicato a Hobbes, per cui lo Stato «è soltanto la guerra civile continuamente impedita con un grande potere» <32, mettendo in luce come il monopolio statale sulla Gewalt non si traduca in un effettivo esercizio di essa. Così lo Stato moderno si presenta come quell’apparato in grado di sospendere la guerra civile, non di porgli termine, e che vede in ogni conflitto più o meno violento l’occasione di governarne gli effetti e di guadagnare legittimità.
Assunto che, nell’identificazione agambeniana di «guerra civile mondiale» e terrorismo <33, acquista oggi una rilevanza che non si può eludere a poco prezzo. […]
[NOTE]
1 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte. These VI, in Gesammelte Schriften, vol. I (2), Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1978, p. 695; trad. it. Id, G. Bonola e M. Ranchetti (a cura di), Sul concetto di storia: tesi VI, Einaudi, Torino, 1997, p. 27.
2 Ibid.
3 «Là dove a noi appare una catena di avvenimenti, egli [l’angelo della storia] vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi», ivi: tesi IX, p. 37.
4 Per ulteriori dettagli sulla vicenda, B. Witte, Benjamin und das Exil, Königshausen & Neumann, Berlin, 2005, p. 31; G. Schiavoni, Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura, Sellerio, Palermo, 1980, p. 320.
5 W. Benjamin, Sul concetto di storia: tesi VI, p. 27.
6 Ivi: tesi B, p. 57.
7 Ivi: tesi XVII a,, p. 55.
8 Id., Paralipomena zu den Thesen über den Begriff der Geschichte. These XVII a, in Gesammelte Schriften, vol. I (3), p. 1231.
9 Id., Sul concetto di storia: tesi XVII a, p. 55.
10 Ivi: tesi VIII, p. 33.
11 «L’idea di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto. La critica all’idea di tale procedere deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso». Ivi: tesi XIII, p. 45.
12 Ivi: ms 443, p. 74.
13 Ivi: tesi VII, p. 31.
14 Ibid.
15 Ibid.
16 Id., Zur Kritik der Gewalt, in Gesammelte Schriften, vol. II (1), p. 179.
17 Id., Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker, in Gesammelte Schriften, vol. II (2), pp. 465-505; trad. it. E. Filippini (a cura di), Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino, 1966, p. 92.
18 Id., Franz Kafka. Zur zehnten Wiederkehr seines Todestag, in Gesammelte Schriften, vol. II (2), pp. 409-38; trad. it. R. Solmi (a cura di), Franz Kafka, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, p. 298.
19 Id., Franz Kafka, in Gesammelte Schriften, vol. II (2), p. 432.
20 F. Kafka, In der Strafkolonie, Wolff, Leipzig, 1919; trad. it. Nella colonia penale, Marsilio, Venezia, 1993.
21 W. Benjamin, Franz Kafka, in Angelus Novus, pp. 303-4.
22 F. Kafka, Der neue Advokat, in Ein Landarzt. Kleine Erzählungen, Wolff, München e Leipzig, 1920;
trad. it. Il nuovo avvocato, in La metamorfosi e altri racconti, Garzanti, Milano, 1974, p. 98.
23 W. Benjamin, Franz Kafka, in Angelus Novus, p. 305.
24 Id., Per la critica della violenza, ivi, p. 29.
25 Id., Destino e carattere, ivi, p. 34.
26 Id., Per la critica della violenza, ivi, p. 12.
28 W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, in Gesammelte Schriften, vol II (1), p. 196.
29 Id., Über den Begriff der Geschichte. These VIII, ivi, vol. I (2), p. 697.
30 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, in Marx-Engels-Werke, Dietz Verlag, Berlin, 1962; trad. it. Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, cap. 8, par. 7, Einaudi, Torino, 1978, p. 363.
31 C. Schmitt, Politische Theologie, Duncker & Humblot, Berlin, 1922, p. 9.
32 Id., Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politischen Symbols, Hohenheim Verlag, Köln , p. 34.
33 G. Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, p. 32.
Lisa Rose, Per la critica della concettualità politica moderna. Walter Benjamin e il monopolio della Gewalt, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno accademico 2015-2016

Dario Gentili, Il tempo della storia. Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin, Guida, Napoli, 2002
Michael Löwy, Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, Bollati Boringhieri, Torino, 2004

Negli ultimi anni, superando la demolizione pregiudiziale e la mimesi immedesimante che per decenni hanno segnato, con poche eccezioni, il mainstream della critica, ha ripreso vita una maniera più sobria di studiare Benjamin. Abbiamo di fronte due libri che, usciti in Francia e in Italia pressoché in contemporanea, oltre a contenere la stessa materia presentano anche la stessa caratteristica, innanzitutto formale, del commento, del seguire passo passo l’argomentazione di Benjamin. Ne tratteremo più a lungo solo uno, il migliore – ci sembra – per avvicinare davvero le Tesi “Sul concetto di storia”.
Come noto si tratta di un testo scritto sull’onda dell’emozione e della disperazione causata dalla firma del famigerato patto Molotov-Ribbentrop. Benjamin, in un generoso sforzo di concentrazione teorica, vi deposita in poche, complicate pagine una summa penetrante delle sue convinzioni nel campo filosofico-storico (diremmo con espressione generica e fuorviante, essendo proprio la ‘distruzione’ della filosofia della storia in senso tardo-ottocentesco l’obiettivo del testo). Più precisamente, le Tesi sono un’estrema sintesi di pensieri che incrociano la teologia come la teoria della storicità, l’attualità politica come la storiografia. La loro forma ellittica e paradossale, il tono profetico e insieme lucido hanno fatto la fortuna del Benjamin ‘romantico e mistico’ – opinione in via di estinzione sulla scorta delle edizioni critiche sempre più acribiche succedutesi negli anni, volte a restituire le Tesi al loro contesto, vale a dire alle riflessioni filosofiche sottese all’interminabile progetto di ricostruzione della Parigi del Secondo Impero, meglio noto come ‘Passagenwerk’. Testi preparatori, versioni alternative e confronti consentono di studiare le Tesi per quello che sono: un testo programmatico, non un testamento, una riflessione sulla storia, meglio, sul concetto di storia, dove lo stesso termine ‘concetto’ va assunto per il suo valore nella semantica benjaminiana.
E qui, con la chiarificazione del significato non neutro del titolo stesso, giungiamo ad uno dei meriti decisivi del libro di Dario Gentili, “Il tempo della storia. Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin” (Guida, Napoli 2002, 14, 46 euro, pp. 259; per l’interpretazione del titolo si vedano le pp. 31-35) che si segnala nella recente, proliferante letteratura benjaminiana per una lettura tanto originale quanto equilibrata. Ma, viene da dire, soprattutto per la matrice filosofica della lettura che ne viene data e per la statura teorica che le Tesi vengono ad assumere. Già, perché a Gentili non sfugge che dietro le Tesi lavorano ‘tutti’ gli elementi della venticinquennale riflessione benjaminiana sul tempo della storia.. Mediante una sapiente operazione di raccordo tra i più disparati testi di Benjamin, dal breve ‘Rastelli erzählt’, interpretato nel modo più convincente come preannuncio della prima tesi, al commento-critica alle ‘Affinità elettive’ di Goethe, dal Franz Kafka alla fondamentale ‘Premessa gnoseologica’ del ‘Dramma barocco tedesco’, per finire coi testi più immediatamente imparentati con le Tesi (quello su Fuchs e su Parigi), il quadro del pensiero benjaminiano in materia riceve un profilo unitario e coerente. Ma non basta: Gentili, con intento ermeneutico e insieme con meritevole chiarezza, connette ogni singola tesi a un filosofo con cui Benjamin intrattiene un rapporto privilegiato, più o meno diretto, e grazie a questo metodo, non privo di riscontri filologicamente corretti, dove possibili (questo non può valere ovviamente per lo Hegel della ‘Scienza della Logica’ utilizzato da Gentili per spiegare la seconda tesi, essendo il nostro piuttosto avaro di letture nei confronti dell’uomo di Stoccarda: nonostante i ripetuti buoni propositi, ne rimase sempre deluso), enuclea i punti nodali dell’esposizione benjaminiana. Così dalle figure più note, il Lukács di ‘Storia e coscienza di classe’, il Nietzsche della ‘Seconda Inattuale’, lo Scholem, amico e insieme interprete, il Bloch dello ‘Spirito dell’Utopia’, si giunge alle fonti della filosofia classica tedesca che fanno parte della formazione di Benjamin e non possono essere in alcun modo eluse, dal romanticismo alla triade Kant, Hegel, Marx. Ora, che la lettura di Benjamin sia insieme personalissima ed elusiva di gran parte dei problemi posti dalle sue fonti, e segrete ed essoteriche, ciò va ascritto a quel che non si è mai negato all’autore, il suo tanto celebrato ‘genio’. Ma che tali fonti siano mediate, all’interno dello stesso pensiero benjaminiano, da numerosi altri elementi, in coerenza con quell’ansia sistematica, invisibile nella forma, ma ben presente nella sostanza, riconosciuta da Scholem in “Walter Benjamin e il suo angelo”, questo lo vediamo ben evidenziato dal libro di Gentili.
Ma siamo tuttora fermi alla scorza esteriore di un testo frutto di autentica passione filosofica. Vediamo, tra i tanti elementi su cui varrebbe la pena soffermarsi (dalla bella analisi dell’acedia alla distinzione tra Vorstellung e Darstellung che rileva una decisiva incertezza nella traduzione italiana, fino alla interpretazione del nesso lavoro-natura in Benjamin attraverso i ‘Manoscritti’ marxiani), un punto che ci sembra decisivo, sotto il profilo teorico, che apre la via di una ricerca su Benjamin finora inedita e che merita un seguito. Si tratta del nesso tra il concetto di storia e quello di spazio. Potrebbe sembrar strano, per un libro che si chiama il ‘tempo della storia’. Ma proprio la realtà di questo tempo è in gioco, dato che l’aporetico rapporto tra storia e verità passa per la concettualizzazione dei modi in cui il vero ‘si rappresenta’, vale a dire passa per lo spazio che “accede alla verità non immediatamente” (p. 32), ma “per mezzo della conoscenza che definisce attraverso concetti”. E quindi (p. 34) “è la conoscenza, mediante i concetti, a realizzare la salvazione che le idee rendono possibile”. Cosa significa? Che nel momento in cui esalta la possibilità del non realizzato Benjamin non rinuncia al polo – veramente antiheideggeriano – della realtà, di una realtà che Gentili, a ragione, ribadisce come strutturata attraverso i concetti, una realtà che non è il contingente puro e semplice, ma un contingente soggetto alle operazioni gnoseologiche che gli impongono una particolare forma di ‘mediazione’ del pensiero. La politica della memoria, il tempo della storia, come storiografia e come azione, hanno bisogno di spazio. Di spazio per pensare, prima ancora che per agire. I morti sono davvero morti, per riprendere un rimprovero mosso da Horkheimer a Benjamin, se nell’intervento che lo storico fa sul passato non si dà un’integrazione, certamente ‘politica’, ma insieme ‘conoscitiva’ nell’ambito di un atteggiamento teorico che sappia pensare l’azione in un contesto di relazioni non arbitrarie, ovvero storicamente determinate (vedi a proposito la ‘Conclusione politica’ del libro). Questo significa la celebre ‘costellazione’ benjaminiana. E di cos’altro parlano le Tesi se non di un necessario e non procrastinabile interesse per la storia, di una ‘decisione’ di cui tanti allora, nella Parigi di Benjamin (pensiamo ad Aron e Weil), andavano sottolineando la necessità? (e si vedano le precise distinzioni di Gentili a p. 229-230 sulla nozione di ‘fatto storico’ di cui si deve dare ‘struttura filosofica’). È proprio la nozione di costellazione che leggiamo nel rapporto tra concetto, idea e verità ricostruito da Gentili (pp. 88-94), che mostra il nesso tra l’intenzione conoscitiva e la sua attualizzazione politico-storiografica, in breve quella specialissima forma di ‘rappresentazione’ del vero cui guarda Benjamin (si veda il complesso rapporto rilevato tra ‘Vergangenheit’ e ‘Gewesen’, pp. 42-50, dove la prima è la totalità del passato mentre il secondo è quel passato spazializzato, reso conoscibile nel presente, da cui dipendono – in ragione della sua forza attuale di determinazione – le stesse deformazioni che alludono al non ancora realizzato). Questioni problematiche, ma ben organizzate e ‘complicate’, nel senso migliore del termine, dall’esposizione.
Non si può dire lo stesso dell’altro studio cui si è sopra accennato (Michael Löwy, “Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin”, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 146, euro 18) – stesso argomento, stessa forma, stesso periodo di concepimento. Si tratta di certo di un buon libro, utile nel commento e nella ricostruzione di alcuni contesti delle tesi (quello della storia del marxismo in particolare), attento a rivelare sfumature e variazioni della traduzione francese delle Tesi per mano dello stesso Benjamin. Ma alcuni punti lasciano perplessi.
Un primo appunto può esser mosso verso la tesi di Löwy, secondo cui in “quel periodo sperimentale, tra il 1933 e il 1936, l’epoca del secondo piano quinquennale” i lavori di Benjamin sembrano “vicini al ‘produttivismo’ sovietico”, e rappresentano “un’adesione poco critica alle promesse del progresso tecnologico” (p. 21): la metà degli anni Trenta, quindi, come un erramento del pensiero. Che dire se, come Löwy sa e riconosce, il testo su Bachofen, e ancor più quello su Kafka, sono esattamente di quel periodo? Non convince la tesi che Benjamin sia ‘abbastanza contraddittorio’, e che si tratti di una “parentesi progressista”. Forse la storia degli intellettuali europei di quegli anni, e la stessa genealogia delle Tesi, si costruisce a partire da quelle contraddizioni e non escludendo a priori testi e pensieri che, a meno di una schizofrenia tutta da provare, hanno la stessa origine. Perché, in fondo, questa strategia argomentativa ha l’effetto di presentare le Tesi come risveglio dal sonno dogmatico progressista, individuato come male radicale della sinistra, con un Benjamin rinsavito sull’orlo del precipizio, suo e dell’Europa. È una bella immagine, ma riduttiva. Operazione di riduzione delle complessità corroborata da un altro elemento che merita un breve cenno: sulle fonti di Benjamin vige infatti una sorta di paradigma indiziario per cui capita a volte di trovar citati testi “che forse aveva letto” (pp. 34, 73, 96, 115, 119). Un criterio di ricostruzione della biblioteca ideale del nostro autore, che non si confà poi tanto alla sua ossessione bibliofila, quella che lo spinge a tutto annotare e al profluvio di citazioni. Un criterio debole, appunto, che unito ad altre caratteristiche espositive, come la spiegazione delle tesi per accostamento suggestivo con figure del tutto estranee a Benjamin – anche se, certo, non ‘idealmente’ -, ha il difetto di mostrare senza dire, mescolando un po’ le carte al momento dell’interpretazione. Questa interpretazione (un Benjamin anarchico che fonde messianismo ebraico e utopia libertaria e si fa attivista per la causa dei vinti), già sedimentata, e meglio, nel precedente ‘Redenzione e utopia’ (tr. it. 1992), sembra poter fare a meno di ciò che Gentili giustamente definisce “essenziale per legittimare ogni tentativo di interpretazione dell’opera di Benjamin” (p. 32), vale a dire l’apparato teorico della Premessa gnoseologica, che Löwy non si preoccupa di trattare. Tutto sommato questo potrebbe porre qualche problema alle sue stesse conclusioni, dato che il ruolo della dialettica materialista è filtrato in Benjamin dalla sua teoria delle idee e lo stesso rapporto col marxismo riproduce sul terreno storico e politico un’istanza già presente nella sua filosofia (di qui il problema della sua ‘svolta’ marxista e la difficoltà di una definizione).
Intesi, il testo di Löwy, pur ripetendo la strada già battuta anni prima, spazia su molti temi e prende anch’esso una posizione equilibrata tra le fonti del pensiero di Benjamin – romanticismo, marxismo e messianismo – ma soprattutto, benché ancorato ad una retorica del suggestivo, delinea nuovi percorsi della ricerca, avvicinando Benjamin a correnti come la filosofia di genere, suggerendo contaminazioni interessanti. A quest’orientamento produttivo fa da contraltare una marcata tendenza alla semplificazione, nata forse dalle esigenze della comunicazione orale – il libro nasce anche da un seminario: in conclusione di commento, al lettore vengono presentati sovente fatti della storia più o meno attuale (sappiamo dell’impegno di Löwy in America Latina, dov’è nato, di qui i vari esempi) a titolo di conferma o incarnazione delle teorie di Benjamin. Oltre a schiacciare le Tesi sul loro versante politico, il procedimento mostra una volta di più l’arbitrarietà di certi accostamenti tra empirico e ideale, da cui il critico, almeno per iscritto, dovrebbe rifuggire. Se la differenza tra ‘Wirklichkeit’ e ‘Dasein’, tra effettualità pensata ed esistenza accidentale, ha ancora un senso, bisogna ripartire da cosa significhi ‘citare’ per Benjamin, da cosa significhi ‘idea’ (compresa l’‘idea’ di ‘progresso’, che non è esattamente un monolite nel suo pensiero, si pensi alla dialettica col mito o con la moda – e si veda bene Gentili, pp. 191-195, sulla “cattiva attualità” di questa), perché di questi ‘esempi’, un filosofo come Benjamin, se appunto lo si vuol leggere come filosofo, non ha di certo bisogno. L’incrocio tra motivazioni militanti e divulgazione culturale ha talora l’effetto prodigioso di rendere tutto semplice. Il che con Benjamin – parentesi pessimista – raramente può funzionare.
Massimo Palma, Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin, filosofia.it

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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