Su questa base il Campana ha lavorato a scoprire il suo canto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Povero Dino, come lo rivedo sempre qual era, in quei giorni del nostro primo incontro, immagine della felicità ebbra, e la follia ch’era in lui non si manifestò che un mese o due dipoi, e per un anno la tragedia avviluppò ambedue, in diverso aspetto e grado”. <123
E ancora:
“perché non ho mai scritto quest’altra, più tragica storia? Ritroverei, se la scrivessi finalmente, le lagrime di quel tempo? Con le lagrime ci si libera. Forse per questo, per non recidere da me la vitalità del ricordo, non ho mai raccontato quei miei mesi favolosi col poeta folle”. <124
[NOTE]
123 ALERAMO, 1978, p. 361.
124 Ivi., p. 264.
Sabrina Bollettin, Raccontare il mondo partendo da sé. Scritture diaristiche a confronto: Sibilla Aleramo, Etty Hillesum, Elena Carandini Albertini, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2014-2015

  1. DE ROBERTIS Giuseppe [nel testo g.d.r.], Un po’ di poesia. Dino Campana: «Canti Orfici», in «La Voce», a. VII, n° 2, 30 dicembre 1914, pp. 138-139. Ripubblicato: E. FALQUI, Scritti vociani [vd. 543.]; P.L. LADRÓN de GUEVARA MELLADO, Campana dal vivo [vd. 1530.]; M. ANTONELLINI, La stagione di Dino Campana poeta (1914-1916) [vd. 1671.].
    [L’articolo non concede nulla, nella sua stringatezza, agli aspetti leggendari della vita del poeta, mentre pone significativamente l’accento, con forza e lucidità, sul fatto che Campana è semplicemente «poeta vero». Definizione lapidaria per sgombrare il campo da equivoci e fraintendimenti. A fronte di un’edizione tipograficamente precaria, definita senza mezzi termini «cattiva», e per di più aggravata dalla dedica politicamente ambigua e pericolosa a
    «Guglielmo II Imperatore», De Robertis sottolinea invece la tanta poesia che si sprigiona dai ‘Canti Orfici’; poesia che compensa ampiamente sia la «fatica del leggere», sia la «pena desolante di tutta una quindicina letteraria spesa male». Si legge: «A traverso difficoltà e andirivieni accademici e antiquati, che, quasi a dispetto, un’edizione cattiva, e con dedica a Guglielmo Imperatore, aggrava, è lecito scoprire in questi Canti Orfici tanta poesia da compensare la fatica del leggere, e la pena desolante di tutta una quindicina letteraria spesa male. Non dirò che si tratti di una rivelazione improvvisa di un mondo poetico nuovo, ma esiste in questo volume un principio solido, e così francamente posseduto e realizzato, da testimoniare un temperamento d’artista di forza e d’istinto davvero notevole. Siamo qui a un’ispirazione diversa e più sana, e più pacata: a Carducci. Meno spirito decadente, e meno sensibilità atroce, ma un gusto di cose vive e rozze, in un genere di prosa piena. Su questa base il Campana ha lavorato a scoprire il suo canto, che si è fatto di certe armonie semplici, di ripetizioni e riprese di parole, di assonanze, di rime, anche se manca il verso, e di un periodare che si direbbe eloquente, – ma la determinazione suggerisce un’idea abusata e usuale. Certo che bisogna prima accettare queste particolarità non peregrine, per sentirvi poi dentro un’ansia commossa, con battiti di sillabe fatte canore. Col tempo viene a stabilirsi intorno come un’atmosfera di colori e di odori, e ogni parola o linea si giustifica. Lasciamo stare certa sensibilità esasperata che la moda ha portato, e i tratti pittorici risaltanti, e le luci carnose; qui quel che c’è d’autentico è la ricchezza d’intonazioni musicali che a un punto si dilatano e si smorzano – una continua efflorescenza di note larghe cui manca per ora una forza di coesione, e una certa ascesa sopra nodi melodici successivi. Tutto il resto, pur bello, si può trovare altrove: immagini, rapporti strani, associazioni, richiami imprevisti, colori vivi. Quanto ai versi, un po’ sono senza regola, un po’ costringono troppo rigorosamente l’ispirazione che a un tratto si slarga e non soffre confine. Succede che il ritmo, per non essere sacrificato, si esteriorizza e si fa cantabile. A ogni modo Campana è poeta vero». Giudizio, quello di De Robertis, decisamente positivo e tutto orientato sulla testualità dei ‘Canti Orfici’ e sulle fonti letterarie che ne costituiscono la particolare tramatura, a partire, per esempio, da quella lezione carducciana che un peso rilevante ebbe nell’impaginazione prosodica di quella scrittura poetica. Si noti anche la felice sottolineatura di quella naturale predisposizione campaniana al canto, alla musicalità, attraverso il gioco di armonie semplici, di ripetizioni, di assonanze, di rime che, di volta in volta, si agglutinano in maniera stilisticamente sempre nuova, diversa. Interessante l’articolo anche per l’individuazione di quei «nodi melodici», veri e propri funzionali nuclei, centri di agglutinamento di una scrittura, come annoterà significativamente Montale, tendenzialmente in movimento, «in fuga».]
    […] VASSALLI Sebastiano Vassalli, L’alcova elettrica, Torino, Einaudi, 1986.
    [Si tratta della ricostruzione di un processo che nella primavera del 1913 vide come imputato per offese al comune senso del pudore Italo Tavolato, redattore della rivista fiorentina «Lacerba». Fu Papini, direttore di «Lacerba», a suggerire a Tavolato di scrivere un provocatorio articolo dal titolo ‘Elogio della prostituzione’, ispirandosi al ‘Manifesto futurista della lussuria’ uscito qualche tempo prima a Parigi a firma di Valentine de Saint-Point. In questa
    ricostruzione entra anche il nome di Campana: «Appena fuori della cerchia antica e nobile Firenze cala di tono, si mette, – come dire? – in ciabatte. E non importa che sia il suburbio becero e leticoso dei caseggiati popolari, o quello più riservato e discreto cantato da Dino Campana, delle strade “strette oscure misteriose / dove dietro le vetrate / se ne stanno Gemme e Rose”, o, infine, la Firenze tra città e contado di Ottone Rosai, con i muriccioli, i cipressi, i personaggi dai volti spigolosi che ricordano le maschere funerarie degli etruschi. Questi diversi angoli visuali sono altrettanti aspetti di un’unica realtà, così come Campana e Rosai sono presenze ineludibili nella nostra storia, anche se il processo a “Lacerba” non li coinvolge in prima persona: stanno dietro le quinte ma ci sono. Il diciannovenne Rosai è tra il pubblico che grida “viva il futurismo” quando viene letta la sentenza; mentre Campana, che nei giorni del processo si trova a Marradi e che non griderebbe “viva il futurismo” nemmeno sotto tortura, è però amico di quell’Italo Tavolato che tutt’a un tratto s’è scoperto cantore delle puttane e che ha scoperto le puttane. Chissà. Forse addirittura è stato lui a introdurlo nell’ambiente di “Lilly e Zazà sorelle della notte”. Nell’ambiente dei “casini”, insomma. Dino Campana, ventottenne e quindi più vecchio di cinque anni rispetto all’Italo Tavolato, all’epoca di “Lacerba” non ha e probabilmente non conosce altri amori che quelli venali, “Pei vichi fondi tra il palpito rosso”: Di sotto il manto rosso del fanale / Io l’attesi e la vidi che sul labbro / Sul labbro del suo viso macilente / Le risplendeva un carminio spettrale. Nella poesia di Campana l’incontro tra “la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta” di cui si parla dalle prime pagine dei ‘Canti orfici’ è ricorrente e centrale, né mancano personaggi femminili sul genere della Grosse Margot di Villon: femmine a cui si dà e da cui si riceve un amore bestiale ma non privo d’una sua oscura grandezza».]
    […] PICARIELLO Amedoro, Genova in Campana e in Heine, in G. PAPARELLI – S. MARTELLI (a cura di), Letteratura fra centro e periferia. Studi in onore di Pasquale Alberto De Lisio, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987, pp. 929-943. Ripubblicato: A. PICARIELLO, Letteratura italiana del Novecento [vd. 1424.].
    [Si legge: «E Faust è già Heine. Ma già in Heine il fiore notturno e puro del romanticismo si invelenisce, assumendo atteggiamenti inquietanti, tragici e irrazionalistici, e getta i semi per i più bei fiori del male del decadentismo. / È evidente l’intento nostro di legittimazione del legame Campana-Heine, legame indiretto, se si vuole, mediato dall’heiniano Carducci, traduttore, d’altronde, del poeta di Düsseldorf, ma giusto. E il Carducci, si sa, “piaceva molto” al marradese, assieme al Pascoli, e al D’Annunzio; i quali, anche leggeva molto. / Già il Falqui, nel curar l’opera di Campana, nelle sue ‘Cronistorie dei Canti orfici’, narrava distesamente della fonte di un pezzo campaniano, laddove, in un punto dice: “Per fortuna, grazie a Giuseppe Gabetti, venimmo a sapere che i versi del ‘pezzo’ pubblicato come inedito non appartengono a una ma a due poesie: il n. 23 e il n. 24 del gruppo Heinkehr nel Buch der Lieder di Heine”, e così via precisando. / Ora, preoccupati di essere, quanto si può, rispettosi delle giuste raccomandazioni della Corti benché in un contesto diverso, riguardante il suo, tutt’altro poeta, erudito e dotto, che “l’individuazione di una fonte, ben si sa, richiede il massimo della prudenza e della circospezione; richiede soprattutto che l’accostamento non poggi sul generico, non abbia nulla di casuale e non consenta alternative”, timorosi, perciò, di “vagare come personaggi delle ‘Cosmicomiche’ di Calvino su fluide nebule”, o addirittura di affondare in “sabbie mobili”, e, dunque, perdersi, esponiamo cautamente, e con precisione, dall’inizio, la nostra tesi. / Tra tante storie di viaggi, dunque, il Campana ha tenuto presente soprattutto o solamente i ‘Reisebilder’ di Heine. / I ‘Reisebilder’ sono divisi in quattro parti. La terza e la quarta parte contengono i ‘Reise von München nach Genua’ e ‘Die Bäder von Lucca’. / Il modello dei ‘Reisebilder’ è il ‘Viaggio in Italia’ di Goethe. La parte di essi che più di tutte attira la nostra attenzione è il viaggio a Genova. La cosa che ci sorprende del viaggio di Heine è la meta. Infatti, i luoghi canonici del viaggio dei tedeschi in Italia sono naturalmente Bolzano, Trento, Verona, e quale suo fine Venezia, Roma soprattutto. Così la meta di Goethe, sulle orme di Winckelmann, è Roma, Venezia è un mito familiare, o proprio personale. Heine, invece, giunto a Verona, inverte la rotta, la stravolge, verso Milano, puntando su Genova. Genova si oppone, ancora una volta, naturalmente, e psicologicamente, a Venezia. Venezia non ha orizzonte; giace appantanata e senza avvenire. Genova si apre su un mare vero; essa si identifica col suo porto dall’ampio orizzonte. Goethe cercò Roma e la Grecia. Goethe è per Heine il passato. E Heine sceglie Genova».]

NATTA Giacomo, Il cappotto di Dino Campana, in «Paragone-Letteratura», a. XI, n° 124, 1960, pp. 97-103. Ripubblicato: «L’Approdo Letterario» [vd. 668.]; G. NATTA, Questo finirà banchiere [vd. 930.]; P.L. LADRÓN de GUEVARA MELLADO, Campana dal vivo [vd. 1530.].
[Natta rievoca il suo incontro con Campana. Lo colpì soprattutto il modo di vestire di Dino: indossava infatti due giacche per difendersi dal freddo in quanto aveva venduto il cappotto. Di qui il titolo dell’articolo. Dino regalò a Natta una copia dei ‘Canti Orfici’ con una lunga dedica. Così Natta rievoca quell’incontro: «Al ritorno [da Monaco di Baviera], un tale che era salito in treno a Semmering, si invaghì del mio soprabito, ed io, pensando a quello che avrei trovato nella mia pensione di Firenze, glielo cedetti, al prezzo che mi era costato un mese prima. M’aveva anche detto che gli avrebbe portato bene. Ero in grado di sopportare quel freddo almeno fino al termine del viaggio. Ma me ne fu regalato uno assai prima, a Bologna. Avevo incontrato un amico in una piccola trattoria nei dintorni della stazione (ho ancora fresco il ricordo del piacere che provai mangiando il pane di Bologna, preferendolo quasi alla pietanza che era ottima), mi portò a casa sua dove mi fece provare due cappotti che aveva dimesso poiché non cessava di ingrassare. Scelsi quello meno largo, nero, col bavero di velluto. Mi girava un po’ intorno al corpo mentre camminavo e le maniche sarebbero arrivate pari pari fino alla punta delle mie dita, se non avessi tenute le mani in tasca. Però l’eleganza del taglio mi rendeva passabile. Era come se fossi un po’ dimagrito, era ovvio pensarlo osservandomi. / Proprio così non sembrò agli amici che, verso le sette di sera, trovai a Firenze nel caffè Paskowskj. Alla mia comparsa si misero a ridere, facendomi festa. Più degli altri si divertiva di me Ottone Rosai. Seduto tra Soffici e lui c’era uno, con due giacche, il quale mi guardò con curiosità sorridente, forse perché anch’io, come lui, non ero in regola. Mi sembrò a tutta prima un tedesco, un globe-trotter, uno sbarcatore. Era tarchiato, con degli scarponi, zazzera e barba bionda. Il cameriere che venne a darmi il benvenuto scomparve e ritornò subito con un soprabito grigio. L’aveva trovato, abbandonato ad un attaccapanni, la precedente primavera, e le due lettere che trovò nelle tasche portavano il mio nome. Me lo misi, e mi venne d’offrire quello che smisi allo sconosciuto, il quale si tolse sveltamente una giacca e se lo passò. Sul velluto cangiante in viola del bavero la barba viva rifulse in oro, e lo sguardo azzurro era più luminoso. ‘Sembri un professore tedesco’ gli disse Rosai. Era Dino Campana. […] Trasse da una tasca, che ne conteneva parecchie, una copia dei ‘Canti Orfici’, e me la diede. Ci aveva scritto una lunga dedica. La pagina dove l’aveva scritta fu qualche giorno dopo strappata dal libro che stavo leggendo, al caffè Giubbe Rosse, su istigazione di Bino Binazzi che lo accompagnava. Bino Binazzi era quello che io non ero e cioè un ‘puro’ e un ‘duro’. Aveva un’aria di fanatismo triste, e
s’era come fatto bandiera del poeta ‘incontaminato’».]
Giampaolo Vincenzi e Marcello Verdenelli, La sua critica mi ha ridato il senso della realtà. Bibliografia campaniana ragionata 1912 etc, Edilet, Edilazio Letteraria, 2011

Sono molti [n.d.r.: nell’Archivio Sibilla Aleramo] i volumi di pregio, alcuni con dediche autografe degli autori – segnalate nella catalogazione – tra cui, di particolare rilevanza, un’edizione dei ‘Canti orfici’ di Dino Campana con dedica, alcune annotazioni e una poesia autografa non inclusa nel volume.
[…] fascc. 19 (1902 – [1958])
La serie conserva le carte di altre personalità rimaste casualmente in possesso di Aleramo. Le carte Aurel contengono corrispondenza e il manoscritto di un racconto della scrittrice francese. Le carte Dino Campana contengono corrispondenza del poeta con i Cecchi e alcune cartoline illustrate a lui indirizzate, alcuni frammenti e il manoscritto del carteggio Aleramo-Campana pubblicato da Vallecchi con l’introduzione a esso di Mario Luzi.
[…] Canti orfici / Dino Campana. – Marradi : Tipografia F. Ravagli, 1914. – 173 p. ; 20 cm. [Il testo contiene una dedica autografa di Dino Campana all’Aleramo più integrazioni autografe dell’autore degli scritti non compresi nell’opera]
[…] Taccuino / Dino Campana ; a cura di Franco Matacotta. – Fermo : Amici della poesia, 1949. – 42 p. ; 18 cm.
Marina Zancan, «Un cumulo polveroso che vorrebbe sfidare l’avvenire» in , Guida alla consultazione (a cura di) Marina Zancan e Cristiana Pipitone, Fondazione Istituto Gramsci onlus, Roma, 2006

Tra le suffissazioni, troviamo invece anchilosamento – «d’anchilosamento, di paralisi» (IN V 78) – attestato soltanto in Pavese <23. C’è anche una formazione in -oso, biaccoso – «l’onda verdognola biaccosa del mare» (UC IX 63) – attestato in ‘Ermafrodito’ di Dino Campana – «In un quadro profondo | Nerastro appare rosea, biaccosa la carne di lui sullo sfondo» <24.
[NOTE]
23 È ne Il mestiere di vivere: «[lo stato di rimorso] è nella sua attualità impoverimento, anchilosamento» (C. Pavese, Il mestiere divivere, Torino, Einaudi, 1962, p. 106).
24 Il componimento (apparso per la prima volta in D. Campana, Inediti, a c. di E. Falqui, Firenze, Vallecchi, 1942) è citato in G. Turchetta, Dino Campana: biografia di un poeta, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 101.
Andrea Tullio Canobbio, La lingua nei romanzi di Seborga, relazione al Convegno di Studi “Guido Seborga, cento anni dopo”, Bordighera, 10 ottobre 2009 in Academia.edu

[…] Nessuno sapeva allora che egli era già stato in manicomio, e mi pareva che nessuno avvertisse il suo malessere. Era preso, anche, ma cautamente, un po’ in giro. Tra i letterati al caffè fingeva di ignorare autori che conosceva con precisione e forse più di loro. “Rimbaud?” domandava sottomesso.
Con una certa impostura, aveva segrete malizie e improvvisi scoppi d’un ridere chiaro. Diceva e ripeteva con insistenza sospetta “maestro”, a Soffici. Ho visto nel suo sguardo balenii d’odio. Era sofferente e insofferente quasi sempre.
Dove eravamo entrati, quella notte fredda e tetra, a bere del vino per riscaldarci e rallegrarci un po’ (Reghini, la sua guardia del corpo, Pagliai, un altro ed io), Campana stava seduto, all’estremità d’un largo e lungo tavolo, con Rosai ed un pittore friulano sceso da poco a Firenze. Noi ci sedemmo dalla parte opposta del tavolo. La bottega era quasi vuota. Sedendosi, Reghini sbirciò un po’ dall’alto, quasi con bontà, e con una curiosità affettata, Campana, salutò con un cenno della mano Rosai, trascurando il suo compagno in conseguenza della sua forte apparenza di montanaro. Con Rosai, per il vero, egli aveva già aperto il mantello della sua protezione, ma Rosai vi era entrato ed era uscito scherzando, col mantello come un giovane gatto. I tre “barbari”, guardandosi, mentre noi urbani si discorreva, s’incontrarono nello stesso sentimento. Reghini aveva incominciato l’elogio della mistificazione, alla quale si giunge altamente, mediante l’amore della verità.
Campana di tanto in tanto sogghignava, e mi pareva che le occhiate a lui rivolte dagli altri due intendessero, specialmente quelle di Rosai, ad aizzarlo. Io cominciavo a temere. Mi pareva che Campana non capisse o soprastesse a quegli incitamenti, ma all’improvviso balzò sul tavolo rovesciando con gli scarponi bicchieri e litri.
Inveì contro “I letterati fiorentini”, in frasi triviali dove ricorrevano le parole: impotenti, feccia, cialtroni. E si proclamò unico, e “poeta della quarta Italia”. Sopravvenne il padrone, Campana saltò dal tavolo e ridacchiando con gli altri se ne andò. Noi pure uscimmo, un momento dopo, pagando anche per loro.
Andammo a zonzo. Reghini aveva un’aria di maestà offesa e il suo parlare era incerto.
Dalla baruffa, non ci scappò il morto; ma credo che poco ci mancasse. Se la pesante mazza sospesa sul capo di Campana non fosse stata trattenuta a tempo, gli avrebbe forse spaccato il cranio… Era circa l’una quando uscimmo da Ponte Vecchio e volgemmo per lung’Arno Acciaioli, nebbioso e deserto. Sbucarono da un andito dov’erano appostati, corsero verso di noi e ci furono addosso. Campana si slanciò contro Reghini, e i suoi compagni tentarono di metterglisi davanti per impedire a noi di difenderlo e di separarli. Fu un parapiglia. Parte dei colpi diretti a Reghini furono deviati e menomati. Sbattuto or di qua or di là gemeva pallidissimo. Campana, barba e capelli scompigliati, mostrando una schiena vigorosa e triviale, picchiava, dinoccolato, mandando dei sibili, dei sospiri di soddisfazione profonda, di copula. Gli ridevano gli occhi di una specie di gioia selvaggia. Passò una vettura a botticella, dove Reghini fu introdotto. Gli sedette accanto la guardia del corpo. Affacciandosi dal finestrino aperto Campana sputò in faccia al suo bersaglio: “te”, gli disse facendogli con una mano le corna: “prendi”. Lo afferrammo, scivolò per terra, si rialzò e inseguì, per poco, la vettura. Pareva un manigoldo teutonico.
Giacomo Natta, Il cappotto di Dino Campana in «L’Approdo Letterario», a. XXII, n° 74, 1976, pp. 83-91

Ecco come lo scrittore egiziano Raū’f Musʽad Basṭā rappresenta il tema dell’alienazione della prigionia:
(Il carcere) non si può descrivere. Lo si può descrivere dall’esterno: la cinta muraria, le celle, le grate di ferro, la routine, il cibo, i carcerieri. Non si può descrivere il silenzio che a volte lo sommerge e le voci o i rumori, e non si può descrivere la cosa più importante: l’attesa. Ma tutto questo è niente, rappresenta solo l’aspetto esteriore del concetto di “carcere”. Il punto culminante va cercato nella privazione <116.
Per vincere il senso di vuoto, di ansia, di privazione, a volte il prigioniero, specialmente se poeta, riesce a trasfigurare la realtà squallida e triste della cella in una dimensione onirica, che lo trasporta, per qualche attimo, in un universo di sogni, in un limbo di colori, suoni, proprio quegli aspetti che più aspramente mancano al recluso.
Dino Campana (1885-1932), in Sogno di prigione, compie esattamente questa operazione:
Sogno di prigione
Nel viola della notte odo canzoni bronzee.
La cella è bianca, il giaciglio è bianco.
La cella è bianca, piena di un torrente di voci che
muoiono nelle angeliche cune,
delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca.
Silenzio: il viola della notte: in rabeschi dalle sbarre
bianche il blu del sonno.
Penso ad Anika: stelle deserte sui monti nevosi:
strade bianche deserte: poi chiese di marmo bianche:
nelle strade Anika canta: un buffo dall’occhio
infernale la guida, che grida. Ora il mio paese tra le
montagne.
Io al parapetto del cimitero davanti alla stazione che
guardo il cammino nero delle macchine, su, giù. Non
è ancor notte; silenzio occhiuto di fuoco:
le macchine mangiano rimangiano il nero silenzio nel
cammino della notte.
Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la
porpora del treno morde la notte: dal parapetto del
cimitero le occhiaie rosse che si gonfiano nella notte:
poi tutto, mi pare, si muta in rombo. Da un finestrino
in fuga io? Io ch’alzo le braccia nella luce! (il treno
mi passa sotto rombando come un demonio) <117.
È notte. Dino Campana è recluso in una cella dell’ospedale psichiatrico in cui è ricoverato, come un prigioniero. Può osservare il mondo soltanto attraverso le sbarre, ma la bellezza che intuisce al di là è sufficiente a trasformare la misera realtà della prigionia in qualcosa di angelico. Poi giunge il momento del sonno: ora la mente conduce il poeta alla visione di Anika, una figura femminile misteriosa, priva di connotati reali, quindi al ricordo della stazione ferroviaria di Marradi, il suo paese. Si arriva così all’immagine del treno in corsa, rombante nella notte, sul quale l’io poeta crede di vedere se stesso. La visione si consuma in un attimo, in un susseguirsi di colori, di voci e suoni alternati a silenzi, secondo il rapidissimo processo di associazioni di idee proprio, appunto, dei sogni. Ogni cosa viene osservata e ritratta come nel dormiveglia notturno: le sensazioni normali della vita, come i suoni e i colori, si trasformano in altre percezioni, solo sognate.
Alla fine si assiste al fenomeno più interessante: lo sdoppiamento dell’io. Il poeta vede se stesso in sogno, rapito dal treno in corsa nella notte. Ciò che all’inizio era musica celestiale si muta ora in inquietudine, in un urlo. Il treno in corsa nella notte che rapisce il poeta prigioniero è metafora del desiderio di libertà e di evasione.
[NOTE]
116 Basta, R. M., L’uovo di struzzo. Memorie erotiche, op. cit., p. 153.
117 D. Campana, Sogno di prigione, in Canti Orfici, Marradi, Ravagli, 1914.
Federica Pistono, Diritti umani e libertà civili nel romanzo siriano dell’epoca di Bašar al-Asad, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Roma Sapienza, 2019

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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