Succede la vita in un paese amato che si chiama Canton Ticino

Giorgio Orelli (Foto TiPress)

Nata nel 1979, la rivista «Bloc Notes» è giunta ai suoi 35 anni di vita: un’età ragguardevole per una rivista. Nel Ticino, solo «Cenobio», di una generazione più antica, ha maggiori titoli nell’ambito della letteratura. Il numero in questione, 64 del 2014, importa per il «dossier», di poco più di 100 pagine, dedicato a Giorgio Orelli scomparso a novantadue anni il 10 novembre 2013.
[…] L’ozono della cultura italiana di quegli anni cresce però, nel Ticino, soprattutto per la presenza a Friborgo di Contini tra 1938 e 1952, maestro diviso tra la filologia romanza e la critica militante a Orelli, come a altri ticinesi e non (da Bonetti a Broggini, da Avalle a Pozzi a Isella). Friborgo vive in quegli anni una grande congiuntura intellettuale, con aperture straordinarie legate a intellettuali d’ogni provenienza, sfuggiti
alla guerra o lì approdati per altre ragioni, e di cui si è cominciato a fare la storia.
Marchand caratterizza brevemente l’opera di Orelli, la storia editoriale nonché i temi e modi, particolarmente sul fronte della poesia. È una poesia che parte spesso – ci dice – da spunti di vita quotidiana, di vissuto familiare per caricarsi di più ampi significati e in cui è forte il senso della precarietà, segnato per esempio da un frequente trascorrere dalla vita alla morte. È noto che su questo tema della vita e della morte Orelli ha fondato una sua ampia isotopia semantica, nella quale confluiscono sottotemi
come l’infanzia e la vecchiaia, il dialogo con chi ci ha preceduti, una sintonia privilegiata con i trapassati che sono a volte, ci dice il poeta, «più vivi dei vivi».
È un grande tema della sua poesia e lo avvicinerebbe – poniamo – a Vittorio Sereni, se non fosse che la poesia di Sereni ha poi tratti abbastanza diversi: più frontali e diretti, di contro all’obliquità di Orelli, per il quale la compresenza e anzi l’annullamento della differenza tra i vivi e i morti sereniana pare a me, meno nichilisticamente, convivenza di uno status con l’altro. Vari interventi accennano al tema, che, a mio avviso, trova i maggiori affondi nei contributi di Matteo Pedroni e di Gilberto Isella su cui tornerò.
Le prose di Orelli sono invece, oggi, meno note e comunque, come tutti i suoi libri, introvabili (è dunque benemerita la recentissima edizione bilingue italiana-tedesca dei Racconti, con traduzione di Julia Deng e postfazione di Pietro De Marchi, Zurigo 2014); e gli scritti critici, che da soli fanno la metà dell’opera dell’autore (sei libri, usciti tra 1980 e 2013) sono rimasti, quando anche accessibili, patrimonio di un
pubblico di specialisti.
Degli ambiti frequentati da Orelli manca dunque in questo «dossier», a ben vedere, solo quello della traduzione, che in Orelli si collega per un verso alla poesia e per un altro alla riflessione critica. Le sue traduzioni da Goethe (ma, dal tedesco, ha tradotto anche Morgestern, Novalis, Hölderlin), hanno incontrato fin dal 1957 il favore di Montale che ne ha parlato come delle migliori a quel tempo disponibili. Ma altro
c’è, che riguarda poeti francesi come Mallarmé, Frénaud o Char o, in altre lingue, l’engadinese di Andri Peer: sì che critici come Fortini, Mengaldo o Stefano Agosti o i nostri Stefano Barelli e Pietro De Marchi sono spesso entrati nel merito del suo lavoro di «poeta-traduttore». Oggi, per le traduzioni da Goethe, dobbiamo aggiungere il nome di Alice Spinelli, giovane studiosa di scuola pavese attiva alla Freie Universität
di Berlino.
[…] Flavio Medici, che ha con la poesia di Orelli una lunga consuetudine, si applica qui a poesie dell’Ora del tempo procedendo con osservazioni che investono le altre tre raccolte: Sinopie del 1977, Spiracoli dell ’89 e Il collo dell’anitra del 2001. Nel quasi «mottetto» che inizia Colgo questo paese che s’inalbera, e che nell’incipit a me ricorda movenze sereniane di Inverno a Luino («Colgo il tuo cuore / se nell’alto silenzio
mi commuove / un bisbiglio di gente per le strade»), Medici privilegia la relazione alto / basso, che nutre i due tempi della poesia, in cui nota come il confronto tra un villaggio di montagna (assaporato con gli occhi) e uno di pianura (goduto con l’udito) si risolva in una sorta di sinestesia marcata da una diversa partitura fonica. Tra i due momenti, come spesso in Orelli, un elemento perturbatore, qui un soffio di vento.
Nella raccolta di Sinopie, lo studioso insegue, invece, alcuni temi forti di Orelli: l’incontro tra vivi e morti, i luoghi d’infanzia, il registro dell’invettiva, responsabile della sezione intitolata «Cardi»; una più aperta partecipazione alla realtà del poeta, che ha trovato accenti nuovissimi anche nel tema orelliano per eccellenza: quello del «cerchio familiare». Orelli si sottrae così alle tentazioni dell’«idillio» e si colloca invece
nel solco di una tradizione «di poesia morale» che ha i suoi esempi nei «grandi Lombardi». Tra le poesie scelte, Quell’uomo che prega il Signore di Sinopie è testo giocato sul confronto tra l’esibita religiosità del personaggio ritratto e la sua vita resa misera dall’attitudine alla sopraffazione (si può, ci dice Orelli, andare a Lourdes e bistrattare – poco evangelicamente – il prossimo). Ma ecco che contro l’iniquo, l’informe, il patologico, la natura oppone una sua speciale resistenza. E la chiusa del testo, è affidata – come Medici nota – alla profondità giudicante del bestiario orelliano, che sembra essere spettatore della scena («Fuori una nobile bestia, la vacca di zia Rita / non muove più la coda, ferita alla radice»). Un bell’esempio – si sarebbe
potuto ricordare – di quel rovesciamento di quella «pulsione scopica» (si guarda e si è guardati) di cui parla Agosti a proposito di Petrarca nel suo saggio del 1993 e che proprio a partire da considerazioni sul bestiario orelliano torna sottolineato nel bel saggio su Orelli raccolto in Poesia italiana contemporanea del 1995.
Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto, altrove e prima, sulle traduzioni di Orelli e sulle poesie, proponendone una scelta nei Poeti del Novecento, l’anno dopo l’uscita di Sinopie. Da allora, varie osservazioni sue sono passate in giudicato. Qui si occupa di una lirica di Sinopie, che Orelli gli inviò nel 1971 e che nel ’77 darà il titolo alla raccolta. La poesia è un alto e condensato esempio di quella isotopia semantica che
nell’opera del poeta leventinese si genera a partire dall’immagine bellissima della «sinopia
». Con le parole di Mengaldo: «la semantica (di Sinopie) fa parte di quel tema
della realtà come orma, traccia e cancellazione che con tutte le sue armoniche (nebbia,
ombra, vuoto, la stessa morte, ecc.) percorre largamente la sua opera poetica».
Sinopia, che propriamente identifica il disegno preparatorio di un affresco, compare per la prima volta in una poesia dell’Ora del tempo (1962) e in quel trasferimento (che Contini definì «dall’immagine alla metafora al genere letterario») Mengaldo coglie «un’abitudine tipica del poeta, (quella cioè) di stabilire relais fra testi di raccolte successive». In Orelli, questi ritorni sono soprattutto «ritorni sui luoghi e rievocazioni
di nomi» e possono avere, per il critico, un ancipite significato, indicando tanto «una poesia che rifletta e ritorni su se stessa» quanto «il senso della vita come ripetizione». Sappiamo, aggiungo, l’importanza che il tempo ciclico delle stagioni ha in tutta la sua opera: a partire, naturalmente, dal titolo dell’Ora del tempo. Titolo sul quale aggiungerei che è sì dantesco («l’ora del tempo e la dolce stagione»), ma allude, tra i tre regni, ai primi due, inferno e purgatorio, «luoghi situati (come nota la Chiavacci nel suo commento) sulla terra, legati al tempo e alla storia [da cui] si esce in quel cielo senza tempo dove abitano i puri spiriti, Dio, gli angeli e i beati».
Insomma la poesia di Orelli è poesia di uomini e storie, cresciuta rispetto a quella più atemporale e astorica della prima raccolta del ’44. La poesia studiata da Mengaldo contiene i grandi temi di Orelli, tra cui «quel motivo della vecchiaia che è tra i suoi più insistenti» e a cui si oppone l’altro, non meno intenso, dell’infanzia e della giovinezza.
Il critico è il primo, a mia conoscenza, a parlare, per Orelli, del tema dell’«io in bicicletta»: la formula è svelta e comporta un altrettanto rapido giudizio di «realismo biografico»: una sorta – ci dice – di «replicato autoscatto», che dice la «partecipazione obliqua e decentrata» del poeta alla vita non nascondendo un certo «isolamento e distacco». Più armata è l’anamnesi linguistico-formale e, particolarmente metrica,
della poesia di Orelli. Qui i fatti descritti sono molti nel quadro di un’evoluzione metrica che da L’Ora del tempo a Sinopie, corre, grosso modo, parallela a quella che si ha in Montale tra Satura (1962) e il Diario del ’71 e del ’72 (1973). Da una metrica del settenario e dell’endecasillabo, alle misure eccedenti di una narrazione in verso, attuata con economia crescente della rima. Una tendenza alla prosa, che tuttavia – nota Mengaldo – non sconfessa completamente le misure classiche, che emergono dissimulate nel nuovo tessuto fonico. Esempi di queste nuove cadenze sono il martelliano (o doppio settenario) o il più raro (invero) esametro barbaro carducciano, poeta che certo non seduce particolarmente Orelli, fuori dall’amata San Martino.
Negli anni, anche la rima è in Orelli meno appariscente, quasi assorbita, all’interno di un tessuto linguistico che ne ridistribuisce il suono sull’intera compagine testuale.
Sinopie in ciò, nota Mengaldo, «radicalizza il sistema che era dell’ultima sezione dell’Ora del tempo» (p. 107).
Da sensibilissimo storico della lingua, Mengaldo presta attenzione ai registri linguistici di questa poesia. Di quello prosastico, e anzi «parlato» (molto presente in Orelli a partire da Sinopie), definisce le modalità: prevalenza della paratassi, uso del che polivalente, gusto per le ripetizione ecolalica e per le torsioni sintattiche e l’anacoluto, ecc.
Analogo interesse per i fatti metrici troviamo nell’intervento di Aldo Menichetti, che legge una poesia dell’ultima raccolta (intitolata Il collo dell’anitra: 2001), segnata fin dall’esordio dalla memoria di Guido Cavalcanti: «Chi è questo che viene, che solo di vista conosco». Siamo in presenza di un frammento di vita vissuta, «un incontro» fatto e che libera «sensazioni, associazioni mentali, ricordi» del poeta. Il dialogo è
con un testimone di Geova, dall’incerta loquela (è svizzero-tedesco), ma dal piglio sicuro e anzi indisponente, che così apostrofa il poeta che passa in bicicletta: «Lei non conosce me, io svizzero / tedesco di Zurigo, ma già tanti anni in Ticino, / io testimone di Geova, sa lei / che siamo vicini alla fine del mondo: tutti i capri / saranno separati dai pecori, lei sa ?». Menichetti non lo dice, ma forse occorre risalire a Carlo Porta per trovare un’analoga divertita mimesi di una parlata straniera, in poesia. Comunque sia, la risposta è all’altezza dell’interlocutore: «Lo so, ne ho sentito parlare sul treno del sabato / da una sua consorella […]. Lo so perché anch’io sono oriundo dell’al di là». Menichetti è attratto dalla parodia che qui Orelli fa di Cavalcanti, ma la sua analisi affronta più globalmente la questione di una «narratività poetica lessicalmente precisissima» e, come spesso in Orelli, affidata al dialogo.
Inserito nella raccolta col titolo di Sulla salita di Ravecchia, il testo è ritoccato qua e là e, in esergo, reca questa citazione del filosofo Sören Kierkegaard: «La vera comicità consiste in questo, che l’infinito può trovarsi in un uomo senza che nessuno, proprio nessuno, lo possa scoprire in lui». Privilegio dei poeti è, insomma, anche cogliere la natura profonda delle manifestazioni. […] Merita riportare il testo ironico e dolcissimo di Buletti intitolato, più civilmente, «Petizione»:
Petizione per Giorgio Orelli
Sarto del Paradiso, non vorresti
dal saio dei beati esonerarlo,
lasciare che si vesta come quando
stavamo ad ascoltarlo raccontare?
Specialmente forniscigli una giacca
di panno morbido e taglio elegante
consona alla bellezza del suo dire:
e possa dire a lungo, fin che vuole.
Non sia tenuto ai salmi del breviario,
libero resti al suo dischiuso canto,
al discorrere ampio sui suoi suoni.
Sappia se si chiama proprio Marzio
uno che gli chiedeva del Poeta,
sul Fiore faccia pace con Fasani.
La prima parte è costruita sull’opposizione tra l’abito del poeta e la sua natura, potremmo pensare il suo stile (con metafora antica, si pensi al Petrarca di Familiares XXII 2, 16 «preferisco avere un mio stile, che sia pur rozzo e incolto, ma mi si adatti come una tunica fatto a misura del mio ingegno» o ai congedi delle canzoni
125-126); la seconda annuncia (nel gusto per l’omiletica popolare) due richieste dell’orante: che il canto del poeta resti, come è stato sempre, «libero» da ogni troppo costrittiva liturgia e che il poeta possa finalmente conoscere chi era l’interlocutore che lo apostrofava su Dante. Buletti è essenziale e sapiente: il paragone tra vestito e natura dell’uomo è antico; la forma in cui il discorso è calato (il sonetto), la più longeva e comune della poesia italiana, se dalla Sicilia del Duecento arriva a poeti come Mallarmé, d’Annunzio o Zanzotto. Ma il dialogo è (come a Orelli sarebbe piaciuto) anche con la «cultura del popolo», perché la poesia è costruita sulla falsariga di una fiaba dei fratelli Grimm. Qui un sarto implora San Pietro perché lo faccia entrare in
paradiso, ma ne è alla fine scacciato per essersi a lui sostituito nel giudizio su una vecchietta: Der Schneider im Himmel, appunto il titolo («Il sarto in Paradiso»). La chiusa invece di quella di Buletti è un invito bonario alla ricomposizione della diatriba che sul Fiore oppose Orelli a Fasani.
Alberto Nessi, che nel suo repertorio ha «storie minime di individui marginali… vite sottoproletarie, contrassegnate da malattia, decadimento fisico, peripezie economiche» sullo sfondo di un Ticino semirurale «sommerso dallo sviluppo tecnologico e bancario» (così Flavio Medici, ricordato da Giovanni Orelli, Svizzera italiana, Brescia, La Scuola, 1986, p. 242), tratta qui della «prosa narrativa» di Orelli, attento ai «barlumi» (parola ben montaliana) che animano un immaginario linguistico qualche po’ anarchico e surreale. Immaginario che allo scrittore di Mendrisio appare avere la forza di un antidoto al «Ticino metallizzato, banchizzato, centrocommercializzato dei nostri giorni». Non si sbaglia a lasciare la parola a Nessi, che di questa narrativa coglie il registro vagamente surreale, proseguendo un’ intuizione di Giovanni Orelli, coltivata in queste pagine di «Bloc notes» anche da De Marchi, che si spinge a parlare di un «surreale senza
surrealismo», secondo la formula impiegata da Contini nella introduzione a Italie magique. «C’è in Orelli, scrive Nessi, un paese «quasi sognato», come nelle prose toscane di Nicola Lisi e c’è il suo rovescio realistico e talvolta satirico o comico […]. Non succede niente, nei racconti di Orelli. O meglio succede la vita in un paese amato che si chiama Canton Ticino, dove si fanno incontri sorprendenti come la «donna altissima e secca come un larice non schiantato dal fulmine», la «donnina con il naso a saltamartino », la «scatoletta di fiammiferi con dentro il grillo […]». Nessi parte da Autunno a Rosagarda, racconto certo tra i più implicati con quella che si potrebbe chiamare una «antropologia leventinese», formando, con La morte del gatto, come ha ricordato De Marchi, un ciclo alto-leventinese nei racconti. Si apre qui un capitolo cui posso solo
accennare, di una valle che è stata, al poeta, dolce per parte di madre e severa, quasi arcigna, per parte di padre. Autunno a Rosagarda mette impavidamente a confronto i genitori: «Io e mia madre non abbiamo bisogno di dirci nulla, il nostro silenzio non è fatto d’urti muti e penosi, possiamo interromperlo quando vogliamo, sicuri di andarci incontro sempre a mezza strada. Se canta un gallo, non è detto che si debba parlarne. Ma se passa alto un corvo strepitando […] non possiamo far a meno di sottolineare la cosa, anche soltanto con un’occhiata, con un cenno, un sorriso». Inversamente, il rapporto paterno è venato di asprezza: «Mio padre viene ogni tanto a dare un occhio e così facciamo quattro chiacchiere. «Che sole», dice stirandosi e toccandosi anche lui la schiena […]. Canticchia. Non sono che avvii , sempre gli stessi da tanti anni: «Eri tu che mangiavi quell’anitra» rimemorazione di Eri tu che macchiavi quell’anima. Oppure, come se dicesse messa: «In illo tempore non si commettevano questi abusi, fermandosi in tempo perché non si avverta che è stonato. Sarebbe stato bello parlare un po’ degli abusi. Non è che ci siamo detti gran che, mio padre ed io. Ci siamo detti talmente poco, che, se continua così, avremo bisogno di un’altra vita per conoscerci».
Questo rapporto col padre affiora tangenzialmente nel saggio di Matteo Pedroni, che presenta un inedito «accertamento» di Orelli sulla poesia di Federico Hindermann.
Pedroni insegue raffinate analogie tra ciò che brilla nella poesia di Hindermann (nel linguaggio di Orelli le «relazioni morfofonematiche» che la sostanziano) e gli interessi del critico. In questione è il rapporto tra il critico e il poeta, che Pedroni attraversa servendosi dell’immagine dell’«anatra», cara anche a Hindermann, animale (non diffusissimo, in verità, nella lirica italiana) e da Orelli promosso a emblema dell’ultima raccolta, intitolata appunto Il collo dell’anitra. Come ho ricordato sopra (ma l’accostamento si deve, per primo, a Gilberto Lonardi, che ne ha accennato nei suoi Accertamenti sul Dante di Giorgio Orelli, «Cenobio», 3, 1983), nel racconto Autunno a Rosagarda l’animale si associa alla memoria del padre e delle sue parodie verdiane. Se nel Ballo in maschera Renato canta «Eri tu che macchiavi quell’anima», ecco che in bocca al
padre quel verso diventa: «Eri tu che mangiavi quell’anitra». Un po’, aggiungo, come quando Dante, nelle epistole, fa suo il Salmo trascorrendo da «Super flumina Babylonis» a «Super flumina confusionis». […]
Massimo Danzi, A proposito di un «dossier» su Giorgio Orelli (con qualche spunto interpretativo), Quaderni grigionitaliani 84 (2016/1)

[…] Per un poeta che ha lungamente meditato sul tema del tempo e che si è più volte ritratto come «né giovane né vecchio», non costituiscono un elemento di novità le poesie della vecchiaia e sulla vecchiaia. Perché è vero che Orelli ha rappresentato spesso nelle sue liriche figure di vecchi, uomini e donne, e basterebbe pensare a Sinopie, la poesia eponima del suo libro più celebre, del 1977, o a Una visita, l’ultimo testo di Spiracoli, che è una specie di ripresa con variazione (al femminile questa volta) del tema di quella poesia. Ed è altrettanto vero che Orelli si è sempre interessato al mondo dell’infanzia e all’uso inventivo della lingua e della logica fantastica che caratterizza la mente bambina (si rammentino le poesie dedicate alle figlie Giovanna e Lucia e più tardi ai nipoti). E tuttavia ora, grazie a una correzione del punto di vista, sono gli stessi vecchi ad essere osservati con curioso stupore dai bambini, che si interrogano su questi strani e fragili giganti a cui goccia il naso (La goccia) o che si muovono con inusitata lentezza (L’uomo da marciapiede). Quest’ultima poesia, uscita a stampa appena postuma, appartiene idealmente a una serie di testi, non tutti in ordinata sequenza, in cui compare appunto ‘l’uomo da marciapiede’, un alter ego di Orelli, un personaggio in là con gli anni che continua a osservare la realtà, anche nei suoi aspetti più bizzarri o sconcertanti, con atteggiamento di ironica comprensione di sé e degli altri oppure di risentito sdegno e di rifiuto.
Altra conferma di una tendenza riscontrata nelle opere precedenti si ha con la sezione delle poesie in dialetto, che replica quella del Collo dell’anitra. Con la differenza che qui il dialetto è esclusivamente quello leventinese, legato quindi al luogo d’origine dei genitori, ricordati insieme in un testo in due parti (La me mamm, u me’ pa’), quasi due ritratti affiancati, appesi al muro della cucina o della štüa (la ‘stufa’ o stanza riscaldata di Nel cerchio familiare).
Una novità più cospicua è costituita invece da una sezione plurilingue, intitolata in un primo momento Rendevous e quindi ribattezzata Riserva protetta: è un gruppo di liriche in cui Orelli mescola spiritosamente il linguaggio degli annunci pubblicitari di chi cerca l’anima gemella con la lingua due-trecentesca del Fiore (della cui attribuibilità a Dante Orelli era convinto), o addirittura crea un sorridente pastiche con testi dello stesso tipo in tedesco e in francese.
Anche queste innovazioni sono tuttavia in linea con l’evolversi della poesia di Orelli e con la sua progressiva apertura ad altre voci, diverse da quella dell’io lirico, e ad altre lingue. Fino a L’ora del tempo, la pagina di Orelli ospitava solo sporadici affioramenti di plurilinguismo, al massimo una frase in dialetto veneziano o qualche calco dialettale, che macchiava di colore locale alpino alcuni dei testi. Già con Sinopie invece si era affacciata la lingua di un’intera società moderna in rapido cambiamento – si pensi soprattutto a Foratura a Giubiasco, con gli inserti in latino ecclesiastico, in inglese e nel linguaggio della politica e della pubblicità –, e in Spiracoli erano aumentate le «irruzioni linguistiche» (Zanzotto) da altri idiomi, soprattutto dal tedesco (basterà ricordare Ascoltando una relazione in tedesco) e dal dialetto ticinese (l’esempio più vistoso è Ul misionèri).
L’ultimo libro di versi interamente sorvegliato da Orelli, Il collo dell’anitra, si apriva e si chiudeva con due poesie di grande fascino: Sulla salita di Ravecchia, nel quale l’io si definiva, anche lui, come un personaggio di Gogol’, «oriundo dell’aldilà»; e Le forsizie del Bruderholz, che richiamava il verso iniziale di Letzter Frühling, uno dei grandi testi di Aprèslude di Gottfried Benn («Nimm die Forsythien tief in dich hinein») e toccava temi terribili, come lo scandalo della morte non accidentale di alcuni ospiti di un ricovero, certo anziani lungodegenti, ma non perciò impazienti di andare all’altro mondo.
Con quei due testi Orelli affrontava già l’argomento condensato nel titolo della sua opera estrema. Non possiamo spingere troppo in là le congetture, immaginare la sistemazione definitiva che Orelli avrebbe dato ai suoi testi, licenziando il dattiloscritto per la stampa. Ma possiamo con certezza affermare che il suo ‘quinto’ libro, tra editi e inediti, contiene alcune poesie altrettanto emozionanti e memorabili dei testi sopra citati. Pensiamo soprattutto a Ragni (Due ragni nella redazione del dattiloscritto) e a L’altalena, uscite in edizioni numerate negli ultimi mesi di vita (Edizioni Lithos, rispettivamente nel dicembre 2012 e nel novembre 2013). Una altalena faceva già la sua comparsa in Ginocchi, il poème en prose o ‘raccontino’ di Sinopie carico di erotismo adolescenziale e di pudore, e un’altra in quella poesia del Collo dell’anitra nella quale una nipotina, spingendo sempre di più con le braccia e le gambe, «s’inciela» insieme alle foglie infinite di un platano. Ma qui l’altalena, con il suo andirivieni, congiunge vertiginosamente incipit ed explicit, inizio e fine della vita, un po’ come il dondolio della gondola di un epigramma veneziano di Goethe splendidamente tradotto da Orelli («Questa gondola è simile alla culla…»). La nuova poesia, che risale nella sua prima redazione al 2002, racconta la ricerca e poi il ritrovamento della casa natale, ad Airolo, ai piedi del San Gottardo, e mette in scena l’incontro con alcune anziane donne, coetanee dell’io lirico, e la rievocazione dei loro comuni giochi infantili. La cicatrice mostrata alla fine al pari di un documento d’identità è un segno di riconoscimento che unisce il vecchio poeta, un domestico Ulisse tornato a rivedere la sua montuosa patria, al bambino che era stato tanti anni prima.
Pietro De Marchi, L’orlo della vita e il soffio della poesia. Il ‘quinto’ libro di Giorgio Orelli, Le parole e le cose, 2015

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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